domenica 23 settembre 2012

«Ed ebbero la luna» di Alessandro Damiani. Potrà mai l'uomo ritrovare se stesso?


Homo sum. Humani nihil a me alienum puto
Terenzio, Heautontimorumenos, 77

Alessandro Damiani, calabrese di nascita, trasferitosi a Fiume nel dopoguerra, ha insegnato Giornalismo all’Università di Pola e al Liceo di Fiume, ha lavorato per il Dramma Italiano, ha pubblicato sillogi poetiche, drammi, romanzi e saggi. È penna rispettosissima della norma linguistica italiana più di quanto lo siano i giornalisti e gli scrittori che non hanno mai lasciato l’Italia. È capace di creare una prosa fluida, elegante, a tratti anacronisticamente snob e aulica, sebbene sorga nel lettore esperto il sospetto che l’autore usi talvolta operativamente tale linguaggio per fare sottilmente emergere la propria ironia.

Ed ebbero la luna fu pubblicato nel 1980. Fu poi riedito nel 2009 all’interno della collana Altre Lettere Italiane (Collana degli autori italiani dell’Istria e del Quarnero) da Edit Libri (chi scrive ha avuto il privilegio di riceverne – graditissimo omaggio – un esemplare dal figlio dell’autore). Non è certo un libro da leggere in spiaggia sotto l’ombrellone a causa della quantità di riflessione in esso riversata. Era stato composto mentre imperava un disorientamento storico-ideologico che covava da tempo, complice la perversa idea sottesa al cosiddetto compromesso storico: l’accordo suicida fra il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, fortemente voluto dall’eurocomunista Enrico Berlinguer. «Ma già avevano fatto irruzione nuove forme di lotta civile, che coniugavano Marx con Cristo, precise nelle motivazioni e altrettanto convinte della necessità di rottura con esemplificazioni clamorose e richieste radicali. Lo “scandalo” del Vangelo fattosi laico» scrive del resto l’autore. Berlinguer era convinto che rivendicare l’indipendenza ideologica dei comunisti italiani dai propri compagni russi sarebbe stato sufficiente per un rilancio del PCI non solo in Italia, ma anche in quell’Europa che aveva guardato con preoccupazione al franchismo iberico. E così, facendosi attore di un patto talmente bizzarro, Berlinguer non solo sconfessava i valori della linea comunista ortodossa, ma riusciva anche a corrompere i cattolici andreottiani in nome del potere (che notoriamente «logora chi non ce l’ha»). E i risultati sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani e sono duri a morire, se è vero che certe più o meno tacite alleanze ideologico-confessionali continuano ad essere reiterate e s’incarnano in mostruose figure politiche che diventano ogni giorno «sempre più belle che intelligenti» o che promettono minchionescamente – l’avverbio è qui usato in accezione letterariamente manzoniana – di mantenersi illibate, quasi l’astensione dal sesso fosse un programma politico.

Il disorientamento storico-ideologico degli anni di piombo sarebbe esploso più che mai in seguito al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro. La responsabilità sarebbe ricaduta sul Governo italiano, accusato di non avere tentato tutto il possibile per salvare lo statista. E se pure Paolo VI rimase sconvolto dalla notizia della tragica fine di uno dei suoi amici storici (nel corso dei funerali di Moro, avrebbe rivolto a Dio parole inattese: «Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro»), Leonardo Sciascia, inascoltato da tutti fuorché dai Radicali, certo delle colpe del governo italiano, cercò giustizia nella Letteratura (sempre pietosa e pronta a risarcire), componendo L’affaire Moro, dal momento che la Storia e la politica gli si erano rivelate ingiuste e sanguinarie quanto mai in quel drammatico frangente.

Il primo dei cinque racconti – I dannati dell'utopia – che costituiscono (insieme ad un Epilogo) Ed ebbero la luna è fortemente legato alla delusione conseguente al fallimento dell’utopia incarnata nella lotta. Proprio nei giorni in cui la notizia del sequestro di Aldo Moro rotola da un notiziario all’altro, Roberto, figlio di un magistrato tutto d’un pezzo, si reca a Roma: Maurizio, un terrorista, gli ha consigliato di andarvi per parlare con Luca, un pezzo grosso (probabilmente) del terrorismo. Ma Luca non si trova (né se lo si chiama per telefono, né se lo si va a cercare a casa). Roberto rinuncia dunque a diventare un terrorista e torna a Milano, anche a causa del peggioramento delle condizioni di salute della madre. Mentre il padre è assente, gli capita di ritrovarsi a parlare con l’amico Ugo che è un giovane magistrato. Ugo è convinto del fatto che lo Stato s’identifichi con il complesso di leggi che lo regola. Presto Ugo rimane vittima di un attentato terroristico. Viene arrestata Gabriella, sorella di Roberto, con grande sgomento del padre e dello stesso Roberto che decide di indagare e di sapere se la sorella sia realmente coinvolta nell’uccisione di Ugo o se il suo arresto sia stato pilotato soltanto per tentare di increspare l’immagine di integrità del padre magistrato. Perciò va a trovarla in carcere. Durante il colloquio con lei, Roberto comprende che la sorella non è stata arrestata senza motivo e ottiene elementi che lo portano a temere di potere egli stesso essere arrestato. Non gli rimane che la fuga. Inizia una vera e propria odissea che si sviluppa attraverso i racconti successivi: l’odissea che il “dannato” Roberto deve vivere per trovare un’identità, una volta riconvertitosi in etnologo (il lettore esperto comprende che egli rimane protagonista dei racconti seguenti, sebbene non più indicato col nome di Roberto).

Il giovane vive dunque avventure ai limiti del verosimile in una geografia inizialmente orientale che fa pensare alle quinte sceniche, alle atmosfere militarmente un po’ hemingwayane, ai colori, ai profumi, ai luoghi oleograficamente dipinti in certi “titoli” della metà del secolo scorso: a un classico della Letteratura sentimentale e un po’ patinata come Sayonara o l’amore impossibile di James Michener, a un prodotto cinematografico un po’ strappalacrime come L’amore è una cosa meravigliosa, diretto da Henry King nel 1955, ancora – se si vuole risalire di qualche anno – a un altro film “epocale” come Anna e il re del Siam, diretto da John Cromwell nel 1946, solo per fare qualche esempio. E già, calcando idealmente simili esotici palcoscenici, si ha la sensazione che Damiani voglia dilatare le coordinate spazio-temporali, facendo regredire il lettore di un abbondante trentennio rispetto all’epoca dell’assassinio di Moro: l’atmosfera delle pagine immediatamente seguenti il primo racconto sembra più da Secondo Conflitto internazionale che da anni di piombo espressamente nazionali. In realtà Damiani, man mano che procede nella narrazione, tende sempre più a sfaldare in particolare la dimensione cronologica per mettere maggiormente a fuoco ciò che potrà salvare Roberto: il recupero della propria natura di essere umano.

L’odissea del protagonista – non a caso – si sposta poi nell’alveo di una geografia più occidentale dalla quale la stragrande maggioranza del genere umano sembra essere scomparsa a causa di eventi dai risvolti apocalittici. Subentrano allora desolati paesaggi (presuntamente istriani) da The day after che si alternano a bucolici quadri di vita rurale (sorta di idilli dal sapore alessandrino). Si profila così l’incitamento – da parte dell’autore – a recuperare uno stato ontologico in cui l’uomo possa bastare a se stesso, a ricreare un mondo in cui il senso dell’esistenza si incarni anche in una ritualità di azioni (come quella quotidiana e stagionale di chi dalla terra trae tutto il proprio sostentamento materiale). La terra assume il ruolo di un enorme grembo materno cui fare ritorno non certo per regredire infantilmente a una condizione prenatale, ma per ritrovare se stessi (difficilmente i vincoli morfo-etimologici che legano fra loro tre parole latine – humanitas, homo e humus – potrebbero risultare più chiari, se si tiene presente ciò che scrive Damiani). Perché un grande errore ha compiuto l’uomo: ha voluto la luna. Una volta ottenutala, ne è rimasto deluso: «A stroncare l’uomo non è stata la difficoltà di attuare i suoi sogni, ma la scoperta di averli raggiunti. Quasi non sapesse che farne».

Negli stessi anni in cui Damiani scriveva Ed ebbero la luna, il filosofo francese Jean-François Lyotard rifletteva sul venir meno delle grandi narrazioni metafisiche (una delle quali – guarda caso – era proprio il marxismo) e sulla necessità di ideare criteri che permettessero all’uomo di interpretare ed elaborare una realtà ormai ridotta in frammenti. Lyotard analizzava tale realtà alla luce di una categoria che sarebbe diventata un inflazionato tormentone (lo è ancora oggi): la postmodernità (relativamente alla quale chi scrive il presente testo ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato, come si può evincere da un post già pubblicato su questo stesso blog: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2011/02/linflazione-del-postmoderno.html. Ed è un piacere notare come anche Edward Docx voglia fare piazza pulita del postmoderno: http://temi.repubblica.it/micromega-online/addio-postmoderno-benvenuti-nellera-dellautenticita/). Damiani sembra contrapporsi a Lyotard quantomeno perché ipotizza un metodo attraverso cui ritrovare se stessi. Il protagonista approda presso la casa di un vecchio. Il vecchio – sorta di nuovo Alcinoo che ha imparato a lavorare la terra e a occuparsi del bestiame, rendendosi autosufficiente; inizialmente sfingico, enigmatico, freddo anche nell’offrire le proprie pazienti e generose cure all’etnologo Roberto, da lui ritrovato privo di sensi e ferito in seguito ad un incidente aereo – è in verità un venerando saggio. Presso la sua “corte” rurale il novello Odisseo narra il proprio vissuto liberandosene gradualmente. E il vecchio ricambia narrando il proprio. In un simile scambio di umanità veicolate dalle parole si esprimono il senso vero (e in fondo ottimistico) di questo libro e la risposta di Damiani a Lyotard: un nuovo umanesimo potrà salvare l’uomo. A condizione però che l'uomo stesso voglia realizzarlo. Sarà possibile?

Ivo Flavio Abela

Raffaello, «La Scuola di Atene», 1509-1510
Stanza della Segnatura, Città del Vaticano

lunedì 10 settembre 2012

«Finistoriae» di Annalisa Montironi. Quando, nel 1870, finì ogni storia. Anche quelle fissate nella pietra


Finistoriae di Annalisa Montironi (edito da Prova D’Autore nell’ormai lontano 2004): ecco un romanzo in cui marmi, pietre, antichità romane – testimonianze materiali di un passato mummificato, misterioso, angosciante, oscuro, ridotto allo stremo della resistenza fisica – sono esseri animati. Vivono e respirano immotamente, rimproverano, giudicano, condannano. Un romanzo in cui l’essere umano si tramuta in spazio fisico e architettonico, in edificio lapideo, subendo una metamorfosi classicamente mitologica («In principio l’amata era come la piazza davanti a San Pietro». Poi diviene «arco marmoreo, immenso, disteso nel cielo sopra campagna e colli»).

Dopo alcuni mesi di permanenza a Roma, Ignazio Dalla Francia è costretto a ritornare nel proprio paese d’origine, Giredo, nel 1870, mentre lo Stato Pontificio di Pio IX sta cedendo alla piena dei bersaglieri sabaudi e deve rassegnarsi, come già dieci anni prima il Regno delle Due Sicilie, ad essere annesso al Regno d’Italia. Ignazio vive perennemente schiacciato dal peso secolare di un casato presuntamente prestigioso. Il peso diventa insostenibile quando decide di sposare Augusta, una giovanne donna appartenente a una famiglia decaduta, che il granitico e integerrimo padre di Ignazio, cioè Odoardo Dalla Francia, cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, governatore di Giredo e Acquasparta, fedele collaboratore del papa, forse non accetterebbe mai come nuora. Finché soggiorna a Roma, Ignazio immagina e narra a se stesso e ad Augusta storie che gli consentono di alleggerire la zavorra di ciò che è stato. Ma a Giredo il passato si palesa in tutta la sua crudezza e lo accusa di mediocrità: «L’edificio s’innalza a rimproverare me, ultimo Dalla Francia, dell’incapacità di vita che manifesto ogni giorno».

Caravaggio, Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi
E così Ignazio decide di ricostruire la storia del suo casato per scoprire inediti orizzonti ermeneutici tali da consentirgli di reinterpretare il senso della propria vita. S’imbatte prima in un fascicolo di lettere alludenti al progetto di un’opera erudita, districandosi fra nomi vagamente parlanti (Teichicrate) e isidoriani dettagli alessandrinamente eziologici (Stainpace). Quindi nell’immagine inafferrabile di una donna che appare fra i flutti: il pensiero corre alle sirene di certa letteratura. Ma questa sirena è simbolo di morte cruda e pronta a ghermire, diversa dunque da quella che s’accampa sulle profondità marine e nelle pagine di «La verità sul caso Motta» di Mario Soldati. Diversa anche dalla Lighea tomasiana (poi trasfusa e trasfigurata nella Venere gattopardesca e nella giovane in abito da viaggio che verrà a prendere il principe Fabrizio Salina). Altra cosa insomma rispetto alle sirene che sono il massimo erotico cui l’uomo letterariamente aspira, l’eterno premio concesso all’uomo frustrato dalla necessità di vivere nel disagio, nel disadattamento, nel dolore: il simbolo subliminale della morte felice e serenatrice incosciamente vagheggiata.

Le indagini di Ignazio proseguono. Ed egli decide di narrare la storia del proprio casato seguendo lo snocciolarsi, sotto i propri occhi, dell’albero genealogico di famiglia. Ignazio lo ripercorre avo dopo avo, confidando ciecamente (così almeno sembra al lettore) nelle capacità terapeutico-risarcitorie della letteratura.

Ancora pietre. Anzi pietre, mattoni e modifiche architettoniche alla struttura della residenza di una famiglia i cui membri più antichi hanno tentato tutto pur di insabbiare il loro originario rango di artigiani dell’oro (che avrebbe procurato loro solo il rispetto della locale minutaglia e non certo dell’aristocrazia di Giredo). Talora gli avi vengono subito identificati sulla base delle modifiche architettoniche da ciascuno di loro apportate alla residenza familiare. Non dunque sulla base di azioni concrete che finiscono per essere marginali, se non esornative (più volte caratterizzate, del resto, dalla disonorevole pratica dell’usura), quasi nella modifica architettonica, nella disposizione di una nuova pietra, si fissasse a fuoco il senso vero della condotta dell’uomo. In tali pagine aleggia a tratti una vaga atmosfera ora da croniniano «Castello del cappellaio», ora da ventisettana manzoniana, ora da feuilleton dai risvolti a tratti noir, a tratti decisamente gotici.

Ma quando la condotta di un avo genera delitto e morte la pietra viene abbandonata: sono sufficienti un piano di calpestio semplicemente battuto e non mattonato, una cassa dalle assi grezze, i semplici prodotti dell’orto per occultare (ma con quale risultato?) la morte operata o indotta. Perché delitto e morte devono rimanere al fianco dell’assassino: ne saranno i carcerieri. E poi perché un giorno essi dovranno riemergere a deturpare l’immagine del casato.

Giuseppe De Luca nei panni del verdiano Rigoletto
Non sembra inutile citare in particolare due avi di Ignazio: Filippo e Vincenzo. Nel primo la passione per l’antico (smodata e ossessiva al punto da costringerlo a lavorare l’argilla, cercando di realizzare perfetti buccheri) schiaccia e annichilisce la sfera affettiva: Filippo non riesce ad assolvere al ruolo di padre e si uccide proprio per far sì che suo figlio non debba amare un essere come lui. Il secondo, il figlio che Filippo ha voluto rendere orfano uccidendosi, subisce un destino che è «geometria divina che rende la sua vita [...] somigliante a quella del padre, e morta, come quella, ai sensi comuni» (corsivo mio. N.d.r.): muore sua figlia. Eppure proprio a lui sembra essere riconosciuta la capacità di compiere azioni rette, se è vero che per sua iniziativa vengono eseguiti «grandiosi lavori di sistemazione in mattoni rossi che ancor oggi alleggeriscono la corte, le logge e gli archi dai quali così dolce è ammirare il gran monte incombente, e il graziosissimo pozzo nuovo, incassato nel pilastro presso la cappella».

Se i marmi, le pietre, i mattoni possiedono proprietà talmente singolari, vivono e respirano, si ritagliano un ruolo protagonistico, chi riesce a maneggiarli, scolpirli, combinarli, non è da meno: lo scalpellino è una sorta di alchimista depositario di un potere occulto. Tale è l’«artigiano deforme» e sporco, dallo «sguardo impudico» e dalla «natura stregonesca», che si rivolta contro il signorile e giusto Vincenzo, colpito dalla maledizione dello stesso scalpellino-stregone solo per avere preteso onestà e garbo: l’innocente figlia di Vincenzo annegherà in un pozzo. Sembra la rivincita dello hughiano Triboulet o del verdiano Rigoletto, se si vuole («Ah! La maledizione!»).

Papa Pio IX
Ricostruite le vicende del casato, con Ignazio la storia (ogni storia) finisce dopo un’ultimo picco rappresentato dalla tenacia, dall’integrità, dalla lapidea coerenza del padre Odoardo. Quest’ultimo rifiuta fieramente di continuare a mantenere anche sotto il Re sabaudo l’incarico di governatore che ha detenuto sotto Pio IX (non diversamente da quanto aveva fatto l’ultimo dei Gattopardi, il principe Fabrizio Salina, rifiutando la proposta sabauda a lui pervenuta tramite Chevalley). E se nel romanzo tomasiano la forza e la memoria del casato vengono cancellate definitivamente da Concetta Salina, allorché quest’ultima lancia dalla finestra ciò che rimane della carcassa di un Bendicò da anni imbalsamato e roso dai tarli, qui «la forza della stirpe» si esaurisce per consunzione con Ignazio, figlio di un essere gattopardesco quanto il Fabrizio di Tomasi. Concetta e Ignazio sono entrambi figli degli ultimi rappresentanti di un mondo travolto da Garibaldi, dai Savoia, dall’Italia unita. Ma se la forza d’animo, la determinazione, la tempra felina consentono a Concetta di sbarazzarsi del casato per motivi oggettivi e senza alcun senso di colpa, la stirpe muore in Ignazio a causa dei suoi mali soggettivi ed esistenziali, a curare i quali – non a caso – vengono invocati l’amore coniugale di Antonia e quello dei figli che i due un giorno avranno. I Dalla Francia si ritirano dal nuovo mondo e si chiudono nell’alveo – borghese, ma rassicurante e sereno – di un focolare domestico: Ignazio non è il derobertiano Consalvo.

Finistoriae è un romanzo inattuale per materia, registro linguistico (tanti aulicismi), anacronistici stilemi da letteratura d’altri tempi, ampie concessioni al genere epistolare. Tanto inattuale da risultare originale in quanto celebrazione estetica di una forma che torna finalmente a ricomporsi in un nitore fin troppo oltraggiato dai tanti – spesso gratuiti e inutili - sperimentalismi letterari odierni.

Ivo Flavio Abela

mercoledì 22 agosto 2012

«Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861» di Eugenio Di Rienzo. Ovvero dell’Unità debole


Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861, di Eugenio Di Rienzo (docente di Storia Moderna presso l’università La Sapienza di Roma), è stato pubblicato da Rubbettino agli inizi del 2012, in quell’atmosfera di intenso, patriottico fervore neorisorgimentale che aveva accompagnato e che ancora seguiva le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Nel suo saggio Di Rienzo insiste però sul fatto che tale Unità fu voluta dall’Inghilterra e dalla Francia (rivali in quanto decise ad accaparrarsi il controllo del Mediterraneo). E per dimostrarlo non solo tratta il Risorgimento italiano come un fatto di politica europea, ma ricostruisce quanto accaduto nel trentennio immediatamente precedente la proclamazione del Regno d’Italia (con un’“appendice” comprendente poi gli anni immediatamente seguenti il 1861).

Un saggio siffatto risulta pregevole almeno per due ragioni: 1) è voce fuori da quel coro che ha inneggiato e continua a inneggiare all’Italia secondo i canoni ammuffiti della retorica patriottarda, 2) è scritto da un illustre membro dell’Accademia e da uno studioso vero. Esistono in realtà notevoli esempi di storiografi che in passato hanno denunciato i risvolti torbidi del Risorgimento (basti qui citare Gioacchino Volpe, privato della Cattedra universitaria a Roma per avere osato, fra l’altro, denunciare i loschi traffici politici in seguito ai quali la Corsica sarebbe stata annessa dalla Francia). Ma col saggio di Di Rienzo finalmente il revisionismo relativo al processo unitario viene una volta per tutte sottratto all’appannaggio di divulgatori oggi improvvisatisi storiografi e di esteti dannunziani, gli uni e gli altri talora incapaci di uscire dall’alveo di quel movimento affettuoso e affettivo che suole essere definito “neoborbonico”. Per tale movimento, viziato da un ingenuo quanto oleografico campanilismo delle origini o d’acquisizione, imbottito di erudizione e di antiquaria talora a buon mercato, incapace di comprendere che il Risorgimento fallì soprattutto perché condannò l’Italia intera (una volta unita) ad essere uno Stato di importanza secondaria, basta dire che la Napoli-Portici fu la prima tratta ferroviaria costruita nella penisola e che le prime navi a vapore videro la luce nel porto di Napoli per sostenere che il Meridione fu depredato dai rapaci Savoia e che l’Unità d’Italia non andava fatta. V’è però una terza ragione che – a parere di chi scrive – conferisce grandissimo valore al saggio di Di Rienzo: esso è una storia nell’accezione narrativa della parola, per quanto condotta con ferreo rigore scientifico attraverso il vaglio di testimonianze anche inedite o finora scarsamente e non adeguatamente usate. È la storia dal vago sapore tolstojano – godibilissima al pari di una narrazione romanzesca sapientemente costruita – di re Ferdinando II di Borbone e di suo figlio Francesco II, del loro Regno e del modo in cui ne fu sancita la fine per ragioni di politica internazionale. Di questa storia saranno qui ripercorse alcune tappe particolarmente significative, la cui discussione non ha certo la presunzione di esaurire quanto contenuto in un saggio talmente bello (esattamente: bello) e ricco, alla lettura integrale del quale si rimanda senz’altro.

Sua Maestà il Re Ferdinando II di Borbone
Nell’incipit del suo saggio Di Rienzo definisce «la Monarchia napoletana, troppo piccola, per intraprendere una politica estera completamente indipendente, e, allo stesso tempo, troppo grande, per trovare nella mediocrità della sua dimensione geografica la garanzia di poter mantenere effettivamente lo status di “Potestas superiorem non recognoscens». Definisce quindi le caratteristiche della politica di Ferdinando II, basata fin dagli inizi del suo Regno (1830) su reiterati tentativi di mantenersi neutrale e di contribuire alla difesa di una situazione di equilibrio in cui gli Stati italiani potessero controbilanciare la pressione dell’Austria. Durante la «prima guerra carlista» (1833 – 1840), per fare un significativo esempio, il Regno borbonico rifiutò di schierarsi a fianco di Francia, Regno Unito, Portogallo e Spagna contro le Corti del Nord. Ciò significò, agli occhi della perfida Albione, che Ferdinando II tendeva ad «ad adottare un comportamento ambiguo e arrogante non consono a una Media Potenza». Era insomma necessario dargli una lezione. Tuttavia Ferdinando II mantenne in genere una certa apertura nei confronti della Francia, ma si oppose fermamente soprattutto ai piani dell’Inghilterra che da tempo voleva impadronirsi innanzitutto della Sicilia. La necessità del possesso della Sicilia era del resto stata individuata già nel 1821, alla Camera dei Comuni, dal Foreign Secretary Visconte di Castlereagh, come condizione fondamentale per far sì che l’Inghilterra potesse ottenere il controllo sull’Europa meridionale e sull’Africa settentrionale. Successivamente, il 24 agosto 1831, l’Inghilterra avrebbe annesso ai dominions inglesi l’Isola Ferdinandea, fieramente rivendicata dai Borboni, poco prima che essa (emersa al largo di Sciacca) si inabissasse nuovamente nel dicembre dello stesso anno.

Che per l’Inghilterra fosse normale infiltrarsi nella politica del Regno delle Due Sicilie e approfittare delle debolezze di quest’ultimo è del resto testimoniato da quanto avvenne nel 1848: in pieno movimento separatista siciliano, la perfida Albione, nella persona del plenipotenziario inglese Henry Minto, assicurò ai siciliani insorti contro Ferdinando II che avrebbe appoggiato la richiesta di un principe italiano come sovrano di un nuovo Regno siciliano, una volta considerati decaduti i Borboni dal General Parlamento di Palermo. L’Inghilterra avrebbe desiderato che la scelta cadesse su un principe di Casa Savoia, ma sorprendentemente si oppose al progetto lo stesso Carlo Alberto, non volendo inimicarsi Napoli. Tale diniego offrì a Ferdinando tempo e modo di ordinare che un corpo di spedizione borbonico varcasse lo stretto e riportasse con la forza (e le bombe) i ribelli all’ordine.

La situazione sembrò ulteriormente degenerare con lo scoppio della Guerra di Crimea: l’Inghilterra, la Francia e i loro alleati combattevano contro la Russia, ma Ferdinando II di Borbone volle rimanere ancora neutrale. Lo legavano alla Russia relazioni commerciali regolate da trattati sottoscritti fra il 1845 e il 1847, sulla base dei quali il Regno delle Due Sicilie era diventato il principale centro di “smistamento in Europa del grano proveniente dall’Ucraina (cosa che in realtà iniziava a danneggiare il mercato del grano prodotto nelle Due Sicilie). Inoltre Ferdinando credeva che la Russia potesse sostenere l’indipendenza e il prestigio del proprio Regno, aiutandolo nei casi di sedizioni interne o contro i potenziali attacchi da parte delle Potenze occidentali. Ferdinando giunse a rifiutarsi di inviare un corpo di spedizione di 40.000 uomini e tre navi da battaglia, come richiesto dalle Potenze alleate: «Il sovrano borbonico si rendeva conto, infatti, che il nuovo recursus ad arma non aveva nulla a che fare con la difesa della civiltà europea contro la barbarie orientale, come suggeriva la propaganda francese e britannica». Se poi il re borbonico non sottoscrisse alcuna regolare alleanza con lo zar Nicola I per il timore di rappresaglie da parte delle Potenze alleate occidentali, tuttavia mise in atto una serie di misure che di fatto danneggiavano gli eserciti di Napoleone III e della regina Vittoria. Londra e Parigi, preoccupate e sbigottite, iniziarono chiaramente a ritenere gli affari napoletani una «dépendance de la question orientale», come scrisse Charles de Mazade sei mesi prima che si svolgesse il Congresso di Parigi.

Ferdinando II veniva pertanto accusato in nome della politica interna da lui adottata, dal momento che non gli si poteva rimproverare nulla che permettesse di imputargli un’eventuale violazione del diritto internazionale (lo stesso Ministro degli Esteri inglese, lord Malmesbury, avrebbe più tardi scritto che l’ostilità nutrita nei confronti delle Due Sicilie era nient’altro che «“una ben combinata miscela di opportunismo e di pirateria politica, ammantata di alibi e pretesti umanitari, dalla quale bisognava prendere direttamente le distanze»). Era accusato di essere uno spietato e sanguinario dittatore pronto a reprimere duramente ogni “legittima azione compiuta contro di lui dai suoi sudditi. Ciò, secondo le Potenze occidentali, avrebbe potuto provocare insurrezioni e problemi tali da mettere in discussione non soltanto la quiete dell’Italia, ma anche quella dell’Europa intera. Ferdinando II rispondeva, coraggiosamente e con fermezza, che «nessun Governo ha il diritto d’immischiarsi negli affari degli altri e molto meno di giudicare con modi impropri la sua amministrazione, e specialmente la sua giustizia [...]». Aggiungeva semmai che gli ambasciatori inglesi e francesi, anziché prevenire le insurrezioni con i moniti di cui si rendevano forieri, «vogliono invece eccitarle» e ancora che «se sino a questo momento il Re ha potuto usare la sua indulgenza, ora, egli non può più esercitarla per colpa di tutti i passi che fanno i Governi protettori di questa gente». Per poi giungere a rispondere alla regina Isabella II, scomodata dalla Francia e dall’Inghilterra per fungere da tramite e per rabbonire il Borbone, che il regno delle Due Sicilie non intendeva affatto «modificare in nulla la sua organizzazione politica e che, essendo state Francia e Inghilterra le prime a rompere le relazioni diplomatiche, spetta a esse muovere i primi passi per riannodarle». A dispetto del modo spesso quasi caricaturale in cui la storiografia tradizionale ne ha tramandato le caratteristiche, Ferdinando II appare dunque granitico nella sua coerenza: un grande sovrano. E non certo meritevole di essere relegato nella generica rosa dei personaggi di second’ordine, come spesso gli è accaduto (anche recentemente sul sito internet ufficiale delle celebrazioni del centocinquantesimo).

Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi,
Camillo Benso Conte di Cavour, Giuseppe Mazzini:
un grande team ...
Per alcuni versi Ferdinando II sembrerebbe il contraltare di Camillo Benso Conte di Cavour, personaggio altrettanto granitico, ma per motivi diversi (quelli di Ferdinando II e di Cavour appaiono due grandi ritratti a tutto tondo cui Di Rienzo sembra essersi voluto particolarmente dedicare, a modesto parere di chi scrive). Dall’analisi di Di Rienzo emerge un Cavour la cui scaltrezza sconfinava nella meschinità: un calcolatore privo di scrupoli. Basti ricordare che il 20 marzo 1856 propose a D’Azeglio di usare la Legione anglo-italiana per «attuare un colpo di mano su Palermo e suscitare una nuova rivoluzione nell’isola», idea poi fortunatamente respinta dalla legazione piemontese a Londra, timorosa di un ritorno negativo sull’immagine dei Savoia (non si trascuri peraltro il fatto che proprio Cavour si sarebbe adoperato per favorire le nozze fra la principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e un principe imparentato con Napoleone III). Ma già verso la fine del 1856 Cavour tentò un riavvicinamento ai Borboni, forse spinto dal timore che l’esito positivo di un’eventuale insurrezione napoletana promossa dal partito mazziniano o da quello di Murat avrebbe conferito fin troppo prestigio a Mazzini e allo stesso Murat ai danni dei progetti di Casa Savoia, giungendo addirittura ad affermare, secondo quanto riferito in un dispaccio di Giuseppe Canofari, ambasciatore nella capitale sabauda, a Carafa: «Il vostro Sovrano ha fatto un’assai brillante figura, ha ben profittato delle circostanze, ha sciolto a suo profitto un nodo assai intricato. Ora dovrebbe vendicarsi delle Potenze che lo hanno annoiato, come di quelle che lo hanno mollemente assistito, e avvicinarsi al Piemonte». «Amici nemici» recita un vecchio adagio.

Ma torniamo all’Inghilterra e alle sue pesanti ingerenze nei fatti delle Due Sicilie. Quando Garibaldi, partito da Quarto, stava per sbarcare a Marsala, gli inglesi lo favorirono. L’11 maggio 1860, infatti, le fregate inglesi Argus e Intrepid, con il pretesto di dovere fermarsi lì per riprendere a bordo alcuni ufficiali, si posero proprio sulla linea di fuoco delle navi borboniche, decise a impedire lo sbarco dei Mille. Lo stesso Garibaldi, autodefinendosi «beniamino di cotesti signori degli Oceani», scrisse di essere stato protetto da loro. Del fatto che le navi britanniche avessero fornito a Garibaldi la copertura militare necessaria per lo sbarco era convinto anche Horace de Vieil Castel, «esponente di rilievo della ristretta cerchia delle Tuileries»: «l’Angleterre se trouvait à Marsala pour paralyser les forces des Deux-Siciles et favoriser les filibustiers que Mazzini envoie sous le commandement de Garibaldi». Così come del resto ne era convinto l’anonimo autore di Garibaldi o la conquista delle Due Sicilie raccontata da un testimone oculare il quale affermò che l’azione di disturbo inglese fu compiuta in sostanza con lo scopo di non permettere ai soldati borbonici di scagliare le loro munizioni contro i garibaldini. E si potrebbe aggiungere qualcosa di molto più grave, qualora potessero essere provate le ipotesi relative alla fine di Ippolito Nievo (particolarmente discusse da C. Glori in La tragica morte d’Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole, Solfanelli, Chieti, 2010). Si sospetta infatti che sui piroscafi Lombardo e Piemonte fossero state imbarcate diecimila piastre turche in oro che, date a Garibaldi, sarebbero state usate per corrompere «i comandi dell’Esercito e della Marina borbonici». Le piastre furono poi consegnate a Nievo e il naufragio del vapore Ercole, su cui lo scrittore era imbarcato, sarebbe stato provocato per cancellare ogni possibile traccia dei finanziamenti inglesi alla spedizione garibaldina. Ben presto il Regno delle Due Sicilie si disfece anche grazie al tradimento della marina borbonica e delle élites su cui Francesco II, successo al padre nel 1859, era invece certo di potere contare. Non fu tradito dal suo popolo il Borbone. Dice Di Rienzo: «L’ingresso del Mezzogiorno nel Regno Sardo era avvenuto, dunque [...] più a causa di una lotta di potere interna e di una fortunata e fortuita congiuntura internazionale che grazie a una rivoluzione nazionale e a una decisione condivisa dalla maggioranza della popolazione».

The meeting of Garibaldi and Tennyson at Faringford House
Isle of Wight (1864)
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia. Il suo governo apparve subito instabile ai governi europei, consapevoli del fatto che l’Unità d’Italia era stata voluta da tutti fuorché dagli italiani. Il «Re galantuomo» mise in atto misure fortemente repressive per combattere ogni resistenza meridionale: il brigantaggio innanzitutto (praticato da fuorilegge, da reparti del non più esistente esercito borbonico, persino da garibaldini delusi), la fedeltà ai Borboni di gran parte del personale amministrativo. Instaurò un vero e proprio «Reign of terror», come lo definì Lord Henry Lennox, fatto principalmente di arresti arbitrari: «inquisizione poliziesca che nel cuore della notte violava il domicilio di centinaia di cittadini sospetti e li trascinava in ergastoli talmente luridi, da non poter essere utilizzati in Inghilterra neanche come stalle, dove quegli sventurati erano dimenticati per mesi senza essere né interrogati né processati». Giunse a servirsi della collaborazione della camorra. Ferdinando II l’aveva appoggiata in un primo tempo, servendosene come collaboratrice della gendarmeria borbonica «nella repressione dei piccoli reati», nella sorveglianza di prigioni, bische e case di tolleranza. Ma già dal 1849 aveva preso ad osteggiarla al punto che essa divenne sostenitrice del movimento costituzionale nemico dei Borboni, finché nel 1860 bande camorristiche si dissero pronte a intervenire per contrastare i sanfedisti (gli irriducibili sostenitori dei Borboni) e per presidiare il porto così da permettere lo sbarco delle truppe piemontesi e lasciare loro l’accesso libero a Napoli. La Camorra si mise a presidiare anche la città in attesa che giungessero i garibaldini. Era guidata dalla «sanguinaria» Marianna De Crescenzio, la quale peraltro convinse gli abitanti dei Quartieri Spagnoli a non osteggiare l’ingresso a Napoli di Garibaldi (sarebbe stata successivamente premiata: avrebbe accompagnato il nizzardo alla Madonna di Piedigrotta e avrebbe ottenuto il diritto al voto). Del resto il colonnello garibaldino Hugh Forbes stesso scrisse in una sua lettera del 10 settembre che «le dimostrazioni di tripudio che accolsero il Generale nella bella Partenope altro non furono che una frenetica mascherata imposta da lenoni e camorristi».

In un capitolo conclusivo, non a caso intitolato L’Unità debole, 1862-1866, Di Rienzo dimostra che l’uccisione a tradimento del Regno borbonico non fu certo l’unico motivo del fallimento del processo unitario. Un particolare merita di essere soprattutto ricordato qui: il ministro Rattazzi decise di deportare fuori dal Regno d’Italia i circa 14.000 prigionieri dei lager creati dai Savoia (senza che l’Inghilterra e la Francia, che avevano sempre aspramente criticato i metodi carcerari di Ferdinando II, battessero stavolta ciglio). Nel 1869 fu definitivamente individuata «nell’isolotto prospiciente la baia di Gaya» (Borneo) un’area che aveva i requisiti richiesti per diventare una colonia penale. Bene: l’Inghilterra si oppose insieme all’Olanda al progetto e lo bloccò. Non perché interessata a difendere la dignità umana dei prigionieri, ma perché temeva che la presenza italiana potesse nuocere ai propri interessi economici in quell’area. Di Rienzo ci fa capire insomma che l’Italia unita aveva ereditato la stessa fragilità del Regno delle Due Sicilie. Tale fragilità avrebbe sempre negato all’Italia la possibilità di partecipare attivamente e prestigiosamente ai giochi politici del Mediterraneo: «Il destino del grande “Piccolo Stato napoletano si sarebbe riflesso, così, in quello della “Media Potenza italiana fino ai nostri giorni nel segno di un passato destinato a non passare».

Si consiglia vivamente la lettura de Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861 soprattutto alle novelle – ma disinformate – “camicie rosse d’oggi: quei proni ricettori di un patriottismo retorico e imposto (talvolta mediante scene da Tutti insieme appassionatamente – quella del Presidente della Repubblica che riceve i Savoia al Pantheon è una delle più emblematiche). Insomma a quegli italiani che si ostinano a credere di vivere in un Paese davvero unito e sovrano, rifiutando di guardare alla realtà di questa nostra Italia schiava (ieri e oggi) di un’Europa prezzolata.

Ivo Flavio Abela

martedì 7 agosto 2012

Ricerca, dolore, rinascita in «Per dirmi che sei fuoco» di Fabrizio Falconi

Per dirmi che sei fuoco (Gaffi Editore, 2012) è un bel romanzo di Fabrizio Falconi. E fa piacere potere pronunciare le parole «è un bel romanzo» in un’epoca in cui si paventa la fine di un genere letterario che avrebbe ormai esaurito tutto il suo potenziale. Il problema andrebbe posto in altro modo: forse si è ristretta la quantità degli scrittori in grado di tenere in vita il romanzo. Falconi è per fortuna uno di loro. E sembra inutile affannarsi a cercare scolasticamente (come spesso usano fare critici “veri” o critici sedicenti) una tipologia di romanzo nella quale inscrivere Per dirmi che sei fuoco. Da figli e allievi di Steiner, lasciamo respirare e parlare il testo e la storia che esso veicola.

Nico, ventitreenne, sta per laurearsi in Lettere con una tesi su Ungaretti. Scopre che Francesco non è suo padre: Nico è nato per fecondazione artificiale. Si reca in Olanda, presso la banca del seme, e riesce ad ottenere i dati anagrafici del vero padre, Michele. In Olanda conosce inoltre Brigitte che incolpevolmente provoca la gelosia di Valentina (la fidanzata di Nico). Quest’ultima – tornato il giovane a Roma – lo accompagna tuttavia fin sui monti dell’Abruzzo. Nico scopre infatti che Michele vi suole trascorrere lunghi periodi e decide di raggiungerlo. L’incontro con Michele non è quello che Nico s’aspetta: Michele capisce chi è Nico, ma si rivela freddo e invita Nico e Valentina ad andarsene. In realtà Michele, don Chisciotte in lotta contro mulini a vento soltanto apparentemente innocui, ha scoperto i traffici di una multinazionale che cerca di occultare scorie altamente radioattive proprio fra quei monti. Teme per l’incolumità propria e di chi gli sta vicino.

Nico e Valentina tornano a Roma dove intanto è giunta anche Brigitte. Nico accetta di incontrarla. La porta a mangiare una pizza, poi a visitare una fiera, infine a dormire nella casa di Francesco. All’alba Brigitte irrompe nella stanza in cui dorme Nico e gli dice che Michele, coinvolto in un’esplosione, è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale di Ancona. Brigitte aggiunge di essere figlia di Michele. Nico e Brigitte si precipitano all’ospedale di Ancona, dal quale Michele viene presto trasferito in elicottero ad un altro ospedale di Roma per essere operato. Qui accorrono anche la madre di Nico, Valentina (che non ha più motivo di vedere in Brigitte una rivale), la madre di Brigitte giunta dall’Olanda. Nico e Brigitte riescono a vedere il padre in terapia intensiva: un incontro breve ma significativo. Di lì a poco Michele muore, strangolato da quella garrota il cui giro di vite egli stesso ha in fondo contribuito ad azionare.

Giovanni Boldini, Lady Decies, 1905
E poi? Poi ... leggiamo il romanzo non soltanto per conoscere il resto della storia, ma anche per comprendere il gioco dei destini di cui Fabrizio Falconi manovra magistralmente i fili, riservando a Nico (e al lettore) anche l’inatteso ritrovamento di due fotografie. Esse finiscono per avere un senso quasi “entelechiale” rispetto all’identità di Nico e alla passione che egli sente: la stessa che pervase Ungaretti quando inaspettatamente incontrò Bruna Bianchi «in un vestito rosso | Per dirmi che sei fuoco | Che consuma e riaccende», “salvandolo” dallo sconforto.

Agli inizi della lettura si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di un romanzo senza grandi pretese, caratterizzato da un registro dimesso per lingua e stile. Ma la storia inizia subdolamente a catturare il lettore. Poi si scopre che i toni dimessi delle pagine incipitarie altro non sono che i segni di una fluida e gioiosa leggerezza del narrare che si palesa sempre più man mano che si procede nella lettura: leggerezza di calviniana memoria. E proprio a Calvino riporta l’atmosfera di un romanzo che è fatto di lunghi viaggi notturni e diurni (Se una notte d’inverno un viaggiatore). E poi – sebbene l’accostamento possa apparire quantomeno azzardato – a due dei sei racconti che costituiscono «il romanzo a episodi» (come lo definì lo stesso autore) Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (in particolare al racconto omonimo e ad Autobahn). Perché in fondo il fiume sotterraneo che bagna l’intrecco di Per dirmi che sei fuoco è quello della ricerca: la ricerca – nella fattispecie – del padre e implicitamente di un’identità che s’acquisisce solo quando l’uomo torna a ciò da cui viene. O anche quando ritrova una parte di sé, come Ungaretti che, stanco di limitarsi a cercarne «in cielo ... il ... felice volto», torna in Brasile per “rivedere” ciò che resta di Antonietto, il figlio morto lì all’età di nove anni.

«Facciamoci un nome per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra» (Genesi 11.4) riporta significativamente Fabrizio del resto in esergo, quasi a indicare il valore profondo dell’appartenenza. Il vincolo genetico è il canale attraverso cui l’essere – il modo di essere – si travasa dal padre al figlio. Una volta avvenuto il passaggio, il padre sparisce freudianamente dalla scena (viene ucciso, per dirla ancora più freudianamente): non a caso Michele muore subito dopo che Nico l’ha ritrovato. E quella che si vive dopo la morte del proprio genitore è una seconda vita che può essere anche gioiosa, ma che nasce dal dolore e dallo stridore provocato dalla saldatura di una bara.

Ivo Flavio Abela

venerdì 9 marzo 2012

«Il Principe fulvo» di Salvatore Silvano Nigro e l'ultima danza del Gattopardo



Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra Wolff
Nel 1967 una troupe televisiva si presentò a Lucio, Casimiro e Agata Giovanna Piccolo nella loro residenza di Capo D'Orlando. Era guidata da Vanni Ronsisvalle. Lucio "cavalcava" una cassapanca barocca e ferrata. Il vecchio mobile conteneva le lettere che Tomasi aveva inviato ai cugini Piccolo dall'estero (soprattutto dall'Inghilterra e dalla Germania). Lucio raccontò che avrebbe voluto pubblicarle (sebbene ritenesse che poche fossero le lettere davvero pubblicabili), ma l'idea di doversi consultare con un'«orsa baltica» («imponente e irsuta, e tanto più temibile in quanto addestrata nei circhi massimi della psicanalisi») quale la vedova Lampedusa, cioè Alessandra Wolff, l'aveva fatto desistere. Meglio confinarle a Solicchiata, sulla fiumara di Naso, dove sarebbero state custodite dalle fate che abitavano la «casa ispirata». Ma le fate si rivelarono pessime guardiane e un giorno (molto vicino ai nostri) le lettere sarebbero state pubblicate in Inghilterra, rivelando non solo le due probabili fonti di ispirazione (gli stendhaliani «Mémoires d'un touriste» e le «Lettere scritte dall'Inghilterra» di Foscolo), ma anche i sulfurei strali sbeffeggianti scagliati da Tomasi contro lo stesso Lucio e contro le tendenze occultistiche dei Piccolo.

Lucio Piccolo
Quella di non potere bypassare l'eventuale autorizzazione dell'orsa baltica era forse una scusa: Lucio voleva solo nascondere «le lettere che lo riguardavano», nelle quali appariva pure nelle vesti di «Poeta peccatore, diviso fra le muscolosità portuali e le blasonature degli "esteti" ("eufemismo" a sua volta per indicare cose peggiori, effeminati e debosciati, nel racconto I gattini ciechi)». Più clemente era Tomasi nei confronti di Casimiro (dedito alla pittura), salvo ritenerlo un «Brachettone», cioè un seguace di Davide Ricciarelli: colui «che mise le brache ai nudi del Giudizio universale di Michelangelo».

Questo sulfureo e beffardo (ma anche irredimibilmente aristocratico e redimibilmente fascista e antisemita) Tomasi di Lampedusa, che si firma pure «Mostro», è il protagonista de «Il Principe fulvo» di Salvatore Silvano Nigro (Sellerio, 2012): il racconto di un romanzo («Il Gattopardo» ovviamente), ma anche dei «Racconti brevi» e – come dovrebbe essere ormai chiaro – dell'epistolario, nonché una biografia attraverso la quale Nigro ripercorre la "storia interna" del Lampedusa. Il libro fu fortemente voluto – come dichiara l'Autore – da Elvira Sellerio che non ebbe tuttavia il tempo di vederlo concluso. Nigro possiede la stessa sconfinata conoscenza bibliografica e artistica di Tomasi e ne fa tesoro costruendo un testo che è il trionfo del genio dell'esegeta, del ricercatore e del tessitore di trame, del linguista raffinato, dello stilista leggero capace di infondere orgasmiche gioie intellettuali.

Iniziamo dunque a familiarizzare con questo Lampedusa nigriano che ritiene il fascismo l'antidoto contro le «perversioni dei bolscevichi» (come già pare avesse fatto sua madre). E ai bolscevichi vengono assimilati i pederasti. Ma per fortuna l'Italia ha Mussolini che Tomasi crede pure di vedere in sogno, fiero peraltro di riceverne l'invito a dargli del "tu". Il Lampedusa odia del resto gli Ebrei («la inverosimile "grascia" dei lunghi cappotti verdi, il sudore che scorreva sotto i riccioli impomatati; il puzzo caprino») al punto da giustificare «i periodici massacri eseguiti, proprio a Kauno, dai saggissimi Russi». Maschere letterarie? Forse. Se si considera che dal 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, Tomasi lavora alla sofferta palinodia del Fascismo, finendo per attribuire al Minculpop la responsabilità di certo appiattimento dell'informazione e ponendosi dalla parte di una coppia di amici Ebrei costretti a fuggire. Della palinodia è testimone il romanzo, in cui il principe Fabrizio muore nel 1883, lo stesso anno in cui a Predappio nasce Benito Mussolini: «i Gattopardi, i Leoni» appaiono così destinati ad essere soppiantati da creature meschine come «gli sciacalletti, le iene» e i «formiconi fascisti».

Una parata militare fascista in una piazza di Torino
«Date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio. Inclinano alle trame, piuttosto; e alle dilatazioni narrative» ci avverte Nigro: il 1938 è l'anno della scomparsa di Ettore Majorana da un piroscafo diretto a Napoli; Rosario La Ciura, protagonista di «Lighea» (uno dei «Racconti brevi» del Lampedusa), scompare proprio mentre si dirige a Napoli viaggiando sul Rex. Due misteriose scomparse che si richiamano ad una terza: quella di Ippolito Nievo la notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 al largo della penisola sorrentina, insieme a tutto l'equipaggio del vapore Ercole. Insomma ancora una volta i vecchi leoni detentori di un'aristocraticità egotica e fiera di se stessa (La Ciura), viziata dal senso di inadeguatezza (Majorana), increspata da quello talvolta ingenuo del dovere (Nievo), sono destinati ad essere inghiottiti da quello che per l'essere umano è il nulla, ma che è presumibilmente un Olimpo in cui si diventa mito: il premio conferito da una morte eroticamente vagheggiata e lucrezianamente dispensatrice di rigenerazione. Un bel premio in fondo che – è lecito supporre – non potrà certo essere accordato ai fautori dell'Unità d'Italia, né ai Sedara (i ricchi borghesi e i parvenu che si distinguono pure per le «facciatine Impero», così kitsch rispetto alle nobili architetture barocche e rococò delle dimore degli aristocratici), né ai «formiconi fascisti» (i rappresentanti "veri" e deteriori di quell'Unità, come sembra potere essere inferito dalle due date topiche del 1883 e del 1938). E lei, la morte, è Venere: ora sirena che si dà a La Ciura (come a Nievo e a Majorana), ora stella vagheggiata dal principe Fabrizio e poi giovinetta in abito da viaggio che gli si concede transumanandolo.

Tre furono le figlie femmine di Fabrizio: Caterina, Carolina e Concetta. Quest'ultima fu il nervo scoperto della prole saliniana fin dal nome: «La rima isola Concetta» precisa Nigro. Perché a lei, aristocratica quanto il padre, Tomasi affida il compito di spazzare via una volta per tutte ciò che di Fabrizio rimane: Bendicò che è nome, stemma, casato. Proprio lei, che il padre volle preservare dall'ingresso in un mondo nel quale non si sarebbe mai integrata (non permettendole di amare Tancredi), lancia dalla finestra ciò che resta dell'alano. E nel corso di quel volo «au ralenti» per un istante la carcassa di Bendicò assume la forma del «Gattopardo araldico di casa Salina con il quale il Principe si era sempre identificato. Il quadrupede tiene sollevato "l'anteriore destro". Pare che imprechi. La visione è dantesca»: se Vanni Fucci nel canto XXIV dell'«Inferno» dantesco «fa le fiche con entrambe le mani alzate. Qui basta una zampa sola». È una conclusione densa di disperazione e di rabbia. Forse Fabrizio (come La Ciura) sta ormai godendo dell'immortalità donatagli da Venere, ma sulla terra si è immortali finché dura la «memoria attiva del casato». Concetta la cancella. Fabrizio muore definitivamente per la seconda volta dopo un ultimo cinematografico e fiero – ma disperato – tentativo di "danza araldica". Di questa morte avrebbe sicuramente gioito quel «cornuto» di Garibaldi.

Ivo Flavio Abela

Claudia Cardinale:
Angelica nel film "Il Gattopardo" di Luchino Visconti

domenica 26 febbraio 2012

Il «Romanzo messinese» di Giuseppe Loteta. Ovvero l'elogio della brevità in un romanzo di formazione

Giuseppe Loteta, «Romanzo messinese»,
Pungitopo, 2011
Intorno al 245 a.C., licenziando la nuova edizione degli «Aitia», Callimaco avrebbe premesso ai suoi distici un Prologo in cui attaccava i suoi detrattori denominandoli Telchini (nome di alcune creature che popolavano l'immaginario mitologico: sorta di folletti maligni che lavoravano i metalli a Rodi e a Ceo). Essi in precedenza avevano forse criticato il poeta perché si era rifiutato di scrivere un lungo carme continuo. Non è facile oggi comprendere a chi Callimaco alludesse, sebbene il pensiero corra spontaneo ad Apollonio Rodio e alle sue «Argonautiche»: lungo, complesso e monumentale poema epico sulle gesta di Giasone, che riportava in auge l'epos di ascendenza omerica. Callimaco, poeta di circoscritti e raffinati quadri mitologici da cui non erano banditi gli aspetti sentimentali, dichiarava così la sua avversione al «grande libro», percepito come «grande male».

Ho appena letto «Romanzo messinese» di Giuseppe Loteta, siciliano trapiantato a Roma dal 1959, giornalista (è stato – fra l'altro – caposervizio interni e inviato de «L'Astrolabio», poi inviato de «Il Messaggero»), già cimentatosi nella scrittura non giornalistica (soprattutto da un ventennio. È autore infatti di una biografia di Fernando De Rosa per Marsilio e di «Messina 1908» per Pungitopo).

Una certa ritrosìa non mi aveva permesso di decidermi a leggere il libro di Loteta prima di adesso: quel messinese del titolo non mi piaceva. Mi faceva pensare che avrei letto il solito testo dai risvolti paesano-campanilistici: legato, cioè, non solo geograficamente, ma anche "eticamente", a una realtà troppo circoscritta e pervasa di bummuli, marranzani, arance rosse, scialli neri e lunghi fin dietro il deretano, coppole e facce sfregiate, lupare, cannoli, madonnine in mezzo al mare benedicenti noi «et ipsam civitatem», Scilla e Cariddi in lotta contro il ponte sullo Stretto e stocco in tutte le salse (in verità lo stocco c'è e in "ghiotta" presenza). Personalmente mi bastano i libri di Andrea Camilleri e il Giuseppe Culicchia di «Sicilia, o cara», che contribuiscono già a cristallizzare l'oleografia in cui la Sicilia viene ridicolmente e anacronisticamente ingabbiata pure in epoca di globalizzazione galoppante. Alla fine ho ceduto.

Giuseppe Loteta con Vittorio Gassman e Marco Pannella
(L'Aquila, processo per il caso Braibanti)
Nel titolo figura anche la parola romanzo. Sicché mi sarei aspettato una narrazione articolata, dotata di un intreccio quantomeno intrigante e di un corpo sufficientemente tridimensionale (se c'è una cosa che caratterizza in genere il romanzo, essa è il suo sviluppo in larghezza e profondità, ancor più che in mera lunghezza. Anzi la lunghezza è proporzionale all'entità delle altre due dimensioni. Provate a tradurre un romanzo in un ipertesto e ve ne renderete conto). Ma il sottotitolo, «Racconti», si contrappone subito al titolo. Evidentemente Loteta sa bene che 'romanzo' è anche il libro di racconti legati da uno specifico fil rouge. Tale filo, nel caso specifico, sembra essere fornito dall'origine geografica messinese dei personaggi che popolano tutti i racconti (di ogni personaggio è peraltro lecito cogliere, pur nella sintesi cui fisiologicamente obbliga la brevità della forma scelta, un ritratto completo). Però quinte sceniche dei racconti sono non soltanto Messina, Mandanici, Milazzo e Stromboli, ma anche la Spagna, l'Africa, Milano e Napoli.

È sufficiente un dato geo-anagrafico – il «nato a Messina» o «in provincia di Messina» scritto sulla carta d'identità – per fare di diciassette racconti – in cui i titolari di quella carta d'identità agiscono – un romanzo? Secondo me no, soprattutto se si considera che Loteta (con mio infinito piacere però) supera la dimensione campanilistica e non fa della "messinitudine" una condizione esistenziale limitante (a differenza di quanto accade con una categoria ben nota e inflazionata quale la "sicilitudine"). Si è messinesi, ma si è anche greci: «Come viene fuori a Mandanici un nome proprio dell'antica Grecia?», si chiede l'autore nel primo racconto intitolato «Aristide», provvedendo quasi programmaticamente a rinsaldare i vincoli fra la Sicilia dei nostri giorni e la Magna Grecia, non diversamente da quanto fece Pirandello dichiarando di essere nato «in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti…corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xaos». Si è messinesi, ma si è anche italiani: si va a combattere in Africa in nome della gloriosa Italia del Duce per non perdere il posto alla Banca Commerciale, la cui nuova direzione è in vena di licenziamenti a causa delle conseguenze della crisi del '29, piegandosi peraltro alle esigenze di una vita borghese uguale a Messina come a Milano (i toni e certe atmosfere ricordano «La gioia e la legge», uno dei «Racconti» di Tomasi di Lampedusa). Si è messinesi, ma si è anche un po' cosmopoliti: si vive in prima persona il fallito colpo di stato del 1981 in Spagna (e qui davvero farebbe ben poca differenza se Loteta fosse non messinese, ma napoletano, torinese o romano).

L'autore alla presentazione di «Romanzo messinese»
presso l'Università di Messina il 14 maggio 2011
Ma allora, caro Peppino (come ti chiamano gli amici), perché 'romanzo'? Forse perché «Romanzo messinese» è il classico Bildungsroman, cioè un romanzo di formazione, come peraltro rileva Vanni Ronsisvalle in quella prefazione che io ho voluto leggere soltanto dopo avere divorato i diciassette racconti e non prima (e ho fatto male perché, se l'avessi letta prima dei racconti, mi sarei risparmiato la fatica di spremermi le meningi). Peraltro è interessante rilevare che Ronsisvalle dichiara di avere ricevuto i racconti in bozza quando il titolo non era ancora stato scelto dall'autore. E ciò farebbe sospettare che Loteta per primo potrebbe essersi chiesto, dopo la redazione dei racconti: «Che cosa mai avrò scritto?» (si sa che il momento in cui si sceglie il titolo della propria fatica può essere quello in cui tutti i nodi vengono al pettine). Insomma è come se le vicende capitate ai personaggi disseminati nei racconti avessero segnato Loteta portandolo ad essere ciò che è: su quelle vicende ha fatto esperienza, in quelle vicende si è riflesso, quelle vicende ha introiettato ed elaborato. Non concordo con Ronsisvalle invece su un punto: eccetto che in un caso (il racconto «Come il nonno», di cui si dirà più avanti), non mi sembra affatto che i racconti di Loteta siano tutti (o quasi) romanzi non sviluppati (come appunto ritiene Ronsisvalle). Mi appaiono infatti equilibrati nella loro architettura, nonché perfettamente compiuti. Insomma «Romanzo messinese» non potrebbe mai essere il calviniano «Se una notte d'inverno un viaggiatore» (sebbene nel caso calviniano i dieci romanzi non siano abortiti, ma semplicemente interrotti).

Nilde Jotti a «Il Messaggero» durante gli anni '80.
Alla sua sinistra Giuseppe Loteta
Se la lettura di «Romanzo messinese» viene condotta alla luce di quanto appena detto, ogni singolo dato contenuto nei racconti acquisisce senso e valore in rapporto sistemico con tutti i particolari presenti negli altri racconti, a partire da quelli apparentemente più insignificanti quali i tetti e le antenne televisive colpiti dalla luce lunare alla fine di «Aristide». Per poi proseguire, ad esempio, con la vittoria del pragmatismo e della concretezza sull'intellettualismo di una sinistra e di un comunismo inconcludenti nel vagamente sciasciano «Il ragazzo rosso»: il rosso protagonista accetterà di trasferirsi in America per vivere, come lo zio che in America ha fatto fortuna, da «stimato cittadino della patria del capitalismo e dell'anticomunismo»Altri particolari: l'umorismo pirandelliano da «Uno, nessuno e centomila» de «Il sosia», in cui il proprietario di un bar, Totò, si fa sostituire per noia da un individuo in tutto e per tutto uguale a se stesso, il ragionier Passera, salvo poi riprendere il proprio posto, alimentando però nel lettore fino alla fine il dubbio se Passera sia lo stesso Totò che si prende gioco degli avventori del proprio bar o un sostituto che gli somiglia perfettamente; l'atmosfera da «Ultimi giorni di Pompei» de «L'isola» dove, attraverso la tessitura di due fili narrativi, si finisce per trovarsi in mezzo ad un'apocalittica eruzione; la prova del fatto che la Letteratura possa insegnare la Storia meglio della Storiografia in «Mezzanotte è passata da un pezzo», in cui – se n'è già fatto accenno – Loteta narra in prima persona il fallito colpo di stato spagnolo del 1981; la superstizione del fascistissimo don Luigi in «Sciopero al bar», con quello sciopero attuato dai dipendenti di don Luigi per protestare contro l'ingiusto licenziamento di uno di loro; quel bruciante 1943 di «Sfollamento», fra le cui righe sembra di risentire nostalgici echi dei «Ricordi d'infanzia» di Tomasi di Lampedusa a proposito del modo in cui i Loteta, Giuseppe e la madre rifugiatisi a Mandanici, conservavano i mobili della loro casa di Messina, che avevano portato con sé insieme ai libri appartenuti al padre morto due anni prima, e avevano collocato in una stanza affittata. Quest'ultimo racconto contiene peraltro un'originale definizione di 'cultura classica': «una cultura che sapeva vedere nelle cose, distinguere, setacciare e alla fine soffermarsi su ciò che è veramente importante per il genere umano, tralasciando aristocraticamente il resto», cosa di cui sarebbe bene informare Profumo, la Gelmini, ma anche Berlinguer; la straordinaria umanità di un sensato e pragmatico Don Chisciotte, ovvero il tenente Crimi di «Si torna a casa». E si potrebbe ancora continuare.

Un discorso a parte va fatto per il già citato «Come il nonno»: un potenziale grande romanzo. Quanto attiene infatti alla storia del marchese Duilio, nonno del protagonista, avrebbe potuto essere ampliato e forse avrebbe costituito una sorta di saga familiare (magari un po' derobertiana o tomasiana) sulla vecchia aristocrazia isolana. Singolare anche la prosa linda e asettica, quasi l'autore stesse scrivendo una cronaca giornalistica. Il finale risulta scolpito in quel reciproco integrarsi di Alfredo e della statua del nonno Duilio, sorta di puškiniano convitato di pietra in grado di vendicare se stesso attraverso il suo doppio animato Alfredo: una grande staffilata inferta all'ipocrisia paesana.

Loteta riesce a riconciliarmi con il panorama editoriale contemporaneo (fin troppo infarcito di spazzatura) anche per quella sua prosa linda, semplice, calvinianamente leggera, a tratti di un nitore neoclassico, tessuta su un italiano (finalmente) normativo, prova del fatto che non è necessario prodursi in artificiosi sperimentalismi linguistici per dimostrare di sapere scrivere.

La passione di Loteta per il racconto breve e raffinato sarebbe tornata gradita a Callimaco. E chissà che Peppino, non trasformando «Come il nonno» in un grande romanzo, non ci abbia in fondo risparmiato un grande male.

Ivo Flavio Abela


Il presente testo è dedicato a Onofrio Pirrotta che è scomparso appena due settimane fa, lasciando un grande vuoto. Proprio tramite il simpatico e brillante Onofrio ho avuto modo di conoscere ed apprezzare Peppino Loteta.

Da sinistra Giuseppe Loteta, Bettino Craxi e Onofrio Pirrotta
nel Transatlantico di Montecitorio