mercoledì 22 agosto 2012

«Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861» di Eugenio Di Rienzo. Ovvero dell’Unità debole


Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861, di Eugenio Di Rienzo (docente di Storia Moderna presso l’università La Sapienza di Roma), è stato pubblicato da Rubbettino agli inizi del 2012, in quell’atmosfera di intenso, patriottico fervore neorisorgimentale che aveva accompagnato e che ancora seguiva le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Nel suo saggio Di Rienzo insiste però sul fatto che tale Unità fu voluta dall’Inghilterra e dalla Francia (rivali in quanto decise ad accaparrarsi il controllo del Mediterraneo). E per dimostrarlo non solo tratta il Risorgimento italiano come un fatto di politica europea, ma ricostruisce quanto accaduto nel trentennio immediatamente precedente la proclamazione del Regno d’Italia (con un’“appendice” comprendente poi gli anni immediatamente seguenti il 1861).

Un saggio siffatto risulta pregevole almeno per due ragioni: 1) è voce fuori da quel coro che ha inneggiato e continua a inneggiare all’Italia secondo i canoni ammuffiti della retorica patriottarda, 2) è scritto da un illustre membro dell’Accademia e da uno studioso vero. Esistono in realtà notevoli esempi di storiografi che in passato hanno denunciato i risvolti torbidi del Risorgimento (basti qui citare Gioacchino Volpe, privato della Cattedra universitaria a Roma per avere osato, fra l’altro, denunciare i loschi traffici politici in seguito ai quali la Corsica sarebbe stata annessa dalla Francia). Ma col saggio di Di Rienzo finalmente il revisionismo relativo al processo unitario viene una volta per tutte sottratto all’appannaggio di divulgatori oggi improvvisatisi storiografi e di esteti dannunziani, gli uni e gli altri talora incapaci di uscire dall’alveo di quel movimento affettuoso e affettivo che suole essere definito “neoborbonico”. Per tale movimento, viziato da un ingenuo quanto oleografico campanilismo delle origini o d’acquisizione, imbottito di erudizione e di antiquaria talora a buon mercato, incapace di comprendere che il Risorgimento fallì soprattutto perché condannò l’Italia intera (una volta unita) ad essere uno Stato di importanza secondaria, basta dire che la Napoli-Portici fu la prima tratta ferroviaria costruita nella penisola e che le prime navi a vapore videro la luce nel porto di Napoli per sostenere che il Meridione fu depredato dai rapaci Savoia e che l’Unità d’Italia non andava fatta. V’è però una terza ragione che – a parere di chi scrive – conferisce grandissimo valore al saggio di Di Rienzo: esso è una storia nell’accezione narrativa della parola, per quanto condotta con ferreo rigore scientifico attraverso il vaglio di testimonianze anche inedite o finora scarsamente e non adeguatamente usate. È la storia dal vago sapore tolstojano – godibilissima al pari di una narrazione romanzesca sapientemente costruita – di re Ferdinando II di Borbone e di suo figlio Francesco II, del loro Regno e del modo in cui ne fu sancita la fine per ragioni di politica internazionale. Di questa storia saranno qui ripercorse alcune tappe particolarmente significative, la cui discussione non ha certo la presunzione di esaurire quanto contenuto in un saggio talmente bello (esattamente: bello) e ricco, alla lettura integrale del quale si rimanda senz’altro.

Sua Maestà il Re Ferdinando II di Borbone
Nell’incipit del suo saggio Di Rienzo definisce «la Monarchia napoletana, troppo piccola, per intraprendere una politica estera completamente indipendente, e, allo stesso tempo, troppo grande, per trovare nella mediocrità della sua dimensione geografica la garanzia di poter mantenere effettivamente lo status di “Potestas superiorem non recognoscens». Definisce quindi le caratteristiche della politica di Ferdinando II, basata fin dagli inizi del suo Regno (1830) su reiterati tentativi di mantenersi neutrale e di contribuire alla difesa di una situazione di equilibrio in cui gli Stati italiani potessero controbilanciare la pressione dell’Austria. Durante la «prima guerra carlista» (1833 – 1840), per fare un significativo esempio, il Regno borbonico rifiutò di schierarsi a fianco di Francia, Regno Unito, Portogallo e Spagna contro le Corti del Nord. Ciò significò, agli occhi della perfida Albione, che Ferdinando II tendeva ad «ad adottare un comportamento ambiguo e arrogante non consono a una Media Potenza». Era insomma necessario dargli una lezione. Tuttavia Ferdinando II mantenne in genere una certa apertura nei confronti della Francia, ma si oppose fermamente soprattutto ai piani dell’Inghilterra che da tempo voleva impadronirsi innanzitutto della Sicilia. La necessità del possesso della Sicilia era del resto stata individuata già nel 1821, alla Camera dei Comuni, dal Foreign Secretary Visconte di Castlereagh, come condizione fondamentale per far sì che l’Inghilterra potesse ottenere il controllo sull’Europa meridionale e sull’Africa settentrionale. Successivamente, il 24 agosto 1831, l’Inghilterra avrebbe annesso ai dominions inglesi l’Isola Ferdinandea, fieramente rivendicata dai Borboni, poco prima che essa (emersa al largo di Sciacca) si inabissasse nuovamente nel dicembre dello stesso anno.

Che per l’Inghilterra fosse normale infiltrarsi nella politica del Regno delle Due Sicilie e approfittare delle debolezze di quest’ultimo è del resto testimoniato da quanto avvenne nel 1848: in pieno movimento separatista siciliano, la perfida Albione, nella persona del plenipotenziario inglese Henry Minto, assicurò ai siciliani insorti contro Ferdinando II che avrebbe appoggiato la richiesta di un principe italiano come sovrano di un nuovo Regno siciliano, una volta considerati decaduti i Borboni dal General Parlamento di Palermo. L’Inghilterra avrebbe desiderato che la scelta cadesse su un principe di Casa Savoia, ma sorprendentemente si oppose al progetto lo stesso Carlo Alberto, non volendo inimicarsi Napoli. Tale diniego offrì a Ferdinando tempo e modo di ordinare che un corpo di spedizione borbonico varcasse lo stretto e riportasse con la forza (e le bombe) i ribelli all’ordine.

La situazione sembrò ulteriormente degenerare con lo scoppio della Guerra di Crimea: l’Inghilterra, la Francia e i loro alleati combattevano contro la Russia, ma Ferdinando II di Borbone volle rimanere ancora neutrale. Lo legavano alla Russia relazioni commerciali regolate da trattati sottoscritti fra il 1845 e il 1847, sulla base dei quali il Regno delle Due Sicilie era diventato il principale centro di “smistamento in Europa del grano proveniente dall’Ucraina (cosa che in realtà iniziava a danneggiare il mercato del grano prodotto nelle Due Sicilie). Inoltre Ferdinando credeva che la Russia potesse sostenere l’indipendenza e il prestigio del proprio Regno, aiutandolo nei casi di sedizioni interne o contro i potenziali attacchi da parte delle Potenze occidentali. Ferdinando giunse a rifiutarsi di inviare un corpo di spedizione di 40.000 uomini e tre navi da battaglia, come richiesto dalle Potenze alleate: «Il sovrano borbonico si rendeva conto, infatti, che il nuovo recursus ad arma non aveva nulla a che fare con la difesa della civiltà europea contro la barbarie orientale, come suggeriva la propaganda francese e britannica». Se poi il re borbonico non sottoscrisse alcuna regolare alleanza con lo zar Nicola I per il timore di rappresaglie da parte delle Potenze alleate occidentali, tuttavia mise in atto una serie di misure che di fatto danneggiavano gli eserciti di Napoleone III e della regina Vittoria. Londra e Parigi, preoccupate e sbigottite, iniziarono chiaramente a ritenere gli affari napoletani una «dépendance de la question orientale», come scrisse Charles de Mazade sei mesi prima che si svolgesse il Congresso di Parigi.

Ferdinando II veniva pertanto accusato in nome della politica interna da lui adottata, dal momento che non gli si poteva rimproverare nulla che permettesse di imputargli un’eventuale violazione del diritto internazionale (lo stesso Ministro degli Esteri inglese, lord Malmesbury, avrebbe più tardi scritto che l’ostilità nutrita nei confronti delle Due Sicilie era nient’altro che «“una ben combinata miscela di opportunismo e di pirateria politica, ammantata di alibi e pretesti umanitari, dalla quale bisognava prendere direttamente le distanze»). Era accusato di essere uno spietato e sanguinario dittatore pronto a reprimere duramente ogni “legittima azione compiuta contro di lui dai suoi sudditi. Ciò, secondo le Potenze occidentali, avrebbe potuto provocare insurrezioni e problemi tali da mettere in discussione non soltanto la quiete dell’Italia, ma anche quella dell’Europa intera. Ferdinando II rispondeva, coraggiosamente e con fermezza, che «nessun Governo ha il diritto d’immischiarsi negli affari degli altri e molto meno di giudicare con modi impropri la sua amministrazione, e specialmente la sua giustizia [...]». Aggiungeva semmai che gli ambasciatori inglesi e francesi, anziché prevenire le insurrezioni con i moniti di cui si rendevano forieri, «vogliono invece eccitarle» e ancora che «se sino a questo momento il Re ha potuto usare la sua indulgenza, ora, egli non può più esercitarla per colpa di tutti i passi che fanno i Governi protettori di questa gente». Per poi giungere a rispondere alla regina Isabella II, scomodata dalla Francia e dall’Inghilterra per fungere da tramite e per rabbonire il Borbone, che il regno delle Due Sicilie non intendeva affatto «modificare in nulla la sua organizzazione politica e che, essendo state Francia e Inghilterra le prime a rompere le relazioni diplomatiche, spetta a esse muovere i primi passi per riannodarle». A dispetto del modo spesso quasi caricaturale in cui la storiografia tradizionale ne ha tramandato le caratteristiche, Ferdinando II appare dunque granitico nella sua coerenza: un grande sovrano. E non certo meritevole di essere relegato nella generica rosa dei personaggi di second’ordine, come spesso gli è accaduto (anche recentemente sul sito internet ufficiale delle celebrazioni del centocinquantesimo).

Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi,
Camillo Benso Conte di Cavour, Giuseppe Mazzini:
un grande team ...
Per alcuni versi Ferdinando II sembrerebbe il contraltare di Camillo Benso Conte di Cavour, personaggio altrettanto granitico, ma per motivi diversi (quelli di Ferdinando II e di Cavour appaiono due grandi ritratti a tutto tondo cui Di Rienzo sembra essersi voluto particolarmente dedicare, a modesto parere di chi scrive). Dall’analisi di Di Rienzo emerge un Cavour la cui scaltrezza sconfinava nella meschinità: un calcolatore privo di scrupoli. Basti ricordare che il 20 marzo 1856 propose a D’Azeglio di usare la Legione anglo-italiana per «attuare un colpo di mano su Palermo e suscitare una nuova rivoluzione nell’isola», idea poi fortunatamente respinta dalla legazione piemontese a Londra, timorosa di un ritorno negativo sull’immagine dei Savoia (non si trascuri peraltro il fatto che proprio Cavour si sarebbe adoperato per favorire le nozze fra la principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e un principe imparentato con Napoleone III). Ma già verso la fine del 1856 Cavour tentò un riavvicinamento ai Borboni, forse spinto dal timore che l’esito positivo di un’eventuale insurrezione napoletana promossa dal partito mazziniano o da quello di Murat avrebbe conferito fin troppo prestigio a Mazzini e allo stesso Murat ai danni dei progetti di Casa Savoia, giungendo addirittura ad affermare, secondo quanto riferito in un dispaccio di Giuseppe Canofari, ambasciatore nella capitale sabauda, a Carafa: «Il vostro Sovrano ha fatto un’assai brillante figura, ha ben profittato delle circostanze, ha sciolto a suo profitto un nodo assai intricato. Ora dovrebbe vendicarsi delle Potenze che lo hanno annoiato, come di quelle che lo hanno mollemente assistito, e avvicinarsi al Piemonte». «Amici nemici» recita un vecchio adagio.

Ma torniamo all’Inghilterra e alle sue pesanti ingerenze nei fatti delle Due Sicilie. Quando Garibaldi, partito da Quarto, stava per sbarcare a Marsala, gli inglesi lo favorirono. L’11 maggio 1860, infatti, le fregate inglesi Argus e Intrepid, con il pretesto di dovere fermarsi lì per riprendere a bordo alcuni ufficiali, si posero proprio sulla linea di fuoco delle navi borboniche, decise a impedire lo sbarco dei Mille. Lo stesso Garibaldi, autodefinendosi «beniamino di cotesti signori degli Oceani», scrisse di essere stato protetto da loro. Del fatto che le navi britanniche avessero fornito a Garibaldi la copertura militare necessaria per lo sbarco era convinto anche Horace de Vieil Castel, «esponente di rilievo della ristretta cerchia delle Tuileries»: «l’Angleterre se trouvait à Marsala pour paralyser les forces des Deux-Siciles et favoriser les filibustiers que Mazzini envoie sous le commandement de Garibaldi». Così come del resto ne era convinto l’anonimo autore di Garibaldi o la conquista delle Due Sicilie raccontata da un testimone oculare il quale affermò che l’azione di disturbo inglese fu compiuta in sostanza con lo scopo di non permettere ai soldati borbonici di scagliare le loro munizioni contro i garibaldini. E si potrebbe aggiungere qualcosa di molto più grave, qualora potessero essere provate le ipotesi relative alla fine di Ippolito Nievo (particolarmente discusse da C. Glori in La tragica morte d’Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole, Solfanelli, Chieti, 2010). Si sospetta infatti che sui piroscafi Lombardo e Piemonte fossero state imbarcate diecimila piastre turche in oro che, date a Garibaldi, sarebbero state usate per corrompere «i comandi dell’Esercito e della Marina borbonici». Le piastre furono poi consegnate a Nievo e il naufragio del vapore Ercole, su cui lo scrittore era imbarcato, sarebbe stato provocato per cancellare ogni possibile traccia dei finanziamenti inglesi alla spedizione garibaldina. Ben presto il Regno delle Due Sicilie si disfece anche grazie al tradimento della marina borbonica e delle élites su cui Francesco II, successo al padre nel 1859, era invece certo di potere contare. Non fu tradito dal suo popolo il Borbone. Dice Di Rienzo: «L’ingresso del Mezzogiorno nel Regno Sardo era avvenuto, dunque [...] più a causa di una lotta di potere interna e di una fortunata e fortuita congiuntura internazionale che grazie a una rivoluzione nazionale e a una decisione condivisa dalla maggioranza della popolazione».

The meeting of Garibaldi and Tennyson at Faringford House
Isle of Wight (1864)
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia. Il suo governo apparve subito instabile ai governi europei, consapevoli del fatto che l’Unità d’Italia era stata voluta da tutti fuorché dagli italiani. Il «Re galantuomo» mise in atto misure fortemente repressive per combattere ogni resistenza meridionale: il brigantaggio innanzitutto (praticato da fuorilegge, da reparti del non più esistente esercito borbonico, persino da garibaldini delusi), la fedeltà ai Borboni di gran parte del personale amministrativo. Instaurò un vero e proprio «Reign of terror», come lo definì Lord Henry Lennox, fatto principalmente di arresti arbitrari: «inquisizione poliziesca che nel cuore della notte violava il domicilio di centinaia di cittadini sospetti e li trascinava in ergastoli talmente luridi, da non poter essere utilizzati in Inghilterra neanche come stalle, dove quegli sventurati erano dimenticati per mesi senza essere né interrogati né processati». Giunse a servirsi della collaborazione della camorra. Ferdinando II l’aveva appoggiata in un primo tempo, servendosene come collaboratrice della gendarmeria borbonica «nella repressione dei piccoli reati», nella sorveglianza di prigioni, bische e case di tolleranza. Ma già dal 1849 aveva preso ad osteggiarla al punto che essa divenne sostenitrice del movimento costituzionale nemico dei Borboni, finché nel 1860 bande camorristiche si dissero pronte a intervenire per contrastare i sanfedisti (gli irriducibili sostenitori dei Borboni) e per presidiare il porto così da permettere lo sbarco delle truppe piemontesi e lasciare loro l’accesso libero a Napoli. La Camorra si mise a presidiare anche la città in attesa che giungessero i garibaldini. Era guidata dalla «sanguinaria» Marianna De Crescenzio, la quale peraltro convinse gli abitanti dei Quartieri Spagnoli a non osteggiare l’ingresso a Napoli di Garibaldi (sarebbe stata successivamente premiata: avrebbe accompagnato il nizzardo alla Madonna di Piedigrotta e avrebbe ottenuto il diritto al voto). Del resto il colonnello garibaldino Hugh Forbes stesso scrisse in una sua lettera del 10 settembre che «le dimostrazioni di tripudio che accolsero il Generale nella bella Partenope altro non furono che una frenetica mascherata imposta da lenoni e camorristi».

In un capitolo conclusivo, non a caso intitolato L’Unità debole, 1862-1866, Di Rienzo dimostra che l’uccisione a tradimento del Regno borbonico non fu certo l’unico motivo del fallimento del processo unitario. Un particolare merita di essere soprattutto ricordato qui: il ministro Rattazzi decise di deportare fuori dal Regno d’Italia i circa 14.000 prigionieri dei lager creati dai Savoia (senza che l’Inghilterra e la Francia, che avevano sempre aspramente criticato i metodi carcerari di Ferdinando II, battessero stavolta ciglio). Nel 1869 fu definitivamente individuata «nell’isolotto prospiciente la baia di Gaya» (Borneo) un’area che aveva i requisiti richiesti per diventare una colonia penale. Bene: l’Inghilterra si oppose insieme all’Olanda al progetto e lo bloccò. Non perché interessata a difendere la dignità umana dei prigionieri, ma perché temeva che la presenza italiana potesse nuocere ai propri interessi economici in quell’area. Di Rienzo ci fa capire insomma che l’Italia unita aveva ereditato la stessa fragilità del Regno delle Due Sicilie. Tale fragilità avrebbe sempre negato all’Italia la possibilità di partecipare attivamente e prestigiosamente ai giochi politici del Mediterraneo: «Il destino del grande “Piccolo Stato napoletano si sarebbe riflesso, così, in quello della “Media Potenza italiana fino ai nostri giorni nel segno di un passato destinato a non passare».

Si consiglia vivamente la lettura de Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861 soprattutto alle novelle – ma disinformate – “camicie rosse d’oggi: quei proni ricettori di un patriottismo retorico e imposto (talvolta mediante scene da Tutti insieme appassionatamente – quella del Presidente della Repubblica che riceve i Savoia al Pantheon è una delle più emblematiche). Insomma a quegli italiani che si ostinano a credere di vivere in un Paese davvero unito e sovrano, rifiutando di guardare alla realtà di questa nostra Italia schiava (ieri e oggi) di un’Europa prezzolata.

Ivo Flavio Abela

martedì 7 agosto 2012

Ricerca, dolore, rinascita in «Per dirmi che sei fuoco» di Fabrizio Falconi

Per dirmi che sei fuoco (Gaffi Editore, 2012) è un bel romanzo di Fabrizio Falconi. E fa piacere potere pronunciare le parole «è un bel romanzo» in un’epoca in cui si paventa la fine di un genere letterario che avrebbe ormai esaurito tutto il suo potenziale. Il problema andrebbe posto in altro modo: forse si è ristretta la quantità degli scrittori in grado di tenere in vita il romanzo. Falconi è per fortuna uno di loro. E sembra inutile affannarsi a cercare scolasticamente (come spesso usano fare critici “veri” o critici sedicenti) una tipologia di romanzo nella quale inscrivere Per dirmi che sei fuoco. Da figli e allievi di Steiner, lasciamo respirare e parlare il testo e la storia che esso veicola.

Nico, ventitreenne, sta per laurearsi in Lettere con una tesi su Ungaretti. Scopre che Francesco non è suo padre: Nico è nato per fecondazione artificiale. Si reca in Olanda, presso la banca del seme, e riesce ad ottenere i dati anagrafici del vero padre, Michele. In Olanda conosce inoltre Brigitte che incolpevolmente provoca la gelosia di Valentina (la fidanzata di Nico). Quest’ultima – tornato il giovane a Roma – lo accompagna tuttavia fin sui monti dell’Abruzzo. Nico scopre infatti che Michele vi suole trascorrere lunghi periodi e decide di raggiungerlo. L’incontro con Michele non è quello che Nico s’aspetta: Michele capisce chi è Nico, ma si rivela freddo e invita Nico e Valentina ad andarsene. In realtà Michele, don Chisciotte in lotta contro mulini a vento soltanto apparentemente innocui, ha scoperto i traffici di una multinazionale che cerca di occultare scorie altamente radioattive proprio fra quei monti. Teme per l’incolumità propria e di chi gli sta vicino.

Nico e Valentina tornano a Roma dove intanto è giunta anche Brigitte. Nico accetta di incontrarla. La porta a mangiare una pizza, poi a visitare una fiera, infine a dormire nella casa di Francesco. All’alba Brigitte irrompe nella stanza in cui dorme Nico e gli dice che Michele, coinvolto in un’esplosione, è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale di Ancona. Brigitte aggiunge di essere figlia di Michele. Nico e Brigitte si precipitano all’ospedale di Ancona, dal quale Michele viene presto trasferito in elicottero ad un altro ospedale di Roma per essere operato. Qui accorrono anche la madre di Nico, Valentina (che non ha più motivo di vedere in Brigitte una rivale), la madre di Brigitte giunta dall’Olanda. Nico e Brigitte riescono a vedere il padre in terapia intensiva: un incontro breve ma significativo. Di lì a poco Michele muore, strangolato da quella garrota il cui giro di vite egli stesso ha in fondo contribuito ad azionare.

Giovanni Boldini, Lady Decies, 1905
E poi? Poi ... leggiamo il romanzo non soltanto per conoscere il resto della storia, ma anche per comprendere il gioco dei destini di cui Fabrizio Falconi manovra magistralmente i fili, riservando a Nico (e al lettore) anche l’inatteso ritrovamento di due fotografie. Esse finiscono per avere un senso quasi “entelechiale” rispetto all’identità di Nico e alla passione che egli sente: la stessa che pervase Ungaretti quando inaspettatamente incontrò Bruna Bianchi «in un vestito rosso | Per dirmi che sei fuoco | Che consuma e riaccende», “salvandolo” dallo sconforto.

Agli inizi della lettura si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di un romanzo senza grandi pretese, caratterizzato da un registro dimesso per lingua e stile. Ma la storia inizia subdolamente a catturare il lettore. Poi si scopre che i toni dimessi delle pagine incipitarie altro non sono che i segni di una fluida e gioiosa leggerezza del narrare che si palesa sempre più man mano che si procede nella lettura: leggerezza di calviniana memoria. E proprio a Calvino riporta l’atmosfera di un romanzo che è fatto di lunghi viaggi notturni e diurni (Se una notte d’inverno un viaggiatore). E poi – sebbene l’accostamento possa apparire quantomeno azzardato – a due dei sei racconti che costituiscono «il romanzo a episodi» (come lo definì lo stesso autore) Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (in particolare al racconto omonimo e ad Autobahn). Perché in fondo il fiume sotterraneo che bagna l’intrecco di Per dirmi che sei fuoco è quello della ricerca: la ricerca – nella fattispecie – del padre e implicitamente di un’identità che s’acquisisce solo quando l’uomo torna a ciò da cui viene. O anche quando ritrova una parte di sé, come Ungaretti che, stanco di limitarsi a cercarne «in cielo ... il ... felice volto», torna in Brasile per “rivedere” ciò che resta di Antonietto, il figlio morto lì all’età di nove anni.

«Facciamoci un nome per non essere dispersi sulla faccia di tutta la terra» (Genesi 11.4) riporta significativamente Fabrizio del resto in esergo, quasi a indicare il valore profondo dell’appartenenza. Il vincolo genetico è il canale attraverso cui l’essere – il modo di essere – si travasa dal padre al figlio. Una volta avvenuto il passaggio, il padre sparisce freudianamente dalla scena (viene ucciso, per dirla ancora più freudianamente): non a caso Michele muore subito dopo che Nico l’ha ritrovato. E quella che si vive dopo la morte del proprio genitore è una seconda vita che può essere anche gioiosa, ma che nasce dal dolore e dallo stridore provocato dalla saldatura di una bara.

Ivo Flavio Abela