mercoledì 2 ottobre 2013

Maxime Qavtaradze: l'ultimo stilita

Non poteva mancare sul mio blog un testo dedicato a Maxime Qavtaradze, la cui storia - prima diffusa dalla CNN, poi rimbalzata da un blog all'altro - m'attrae parecchio (del resto è noto a chi mi conosce il mio interesse per la Chiesa Ortodossa). Il testo che segue è una traduzione alquanto adattata di quello diffuso dai blog in lingua straniera.


Maxime Qavtaradze vive davvero vicino al cielo. L'anziano monaco cinquantanovenne trascorre i suoi giorni in cima ad un pilastro roccioso in Georgia e percorre una scala di centotrentuno piedi per allontanarsi dalla sua altissima casa e farvi ritorno, come riferisce la CNN. Il fotografo Amos Chapple è salito sulla rupe per fotografare alcuni momenti della sua vita.

Da molto tempo la rupe di Katskhi è venerata dagli abitanti del luogo, sebbene sia disabitata all'incirca dal 1400. Quando alcuni scalatori vi salirono per la prima volta dopo secoli, cioè nel 1944, trovarono le rovine di una chiesa e le ossa (risalenti a seicento anni prima) dell'ultimo stilita che vi era vissuto. Si pensa che la tradizione degli stiliti sia iniziata nel 423, quando San Simeone il Vecchio scelse di vivere alla sommità di un pilastro roccioso in Siria per evitare le tentazioni del mondo, ma fin da allora tale pratica cadde in disuso.

Qavtaradze è comunque un devoto "moderno". 
Sebbene isolato, non è un eremita integrale se è vero che scende dalla rupe una o due volte alla settimana per dare consigli ai giovani che giungono, in cerca del suo sostegno, presso il monastero situato ai piedi della rupe stessa. Del resto una volta era uno di loro. Sebbene adesso egli abiti in cima al mondo, Qavtaradze ebbe la sua vocazione in una fase della sua vita in cui toccò letteralmente il fondo: era appena uscito dalla prigione. Vi aveva trascorso un periodo dopo essersi dato all'alcool e avere pure spacciato droga, come spesso fanno alcuni giovani.

Pronunciò i voti nel 1993 e lavora da quindici anni alla ricostruzione del complesso comprendente il monastero, la cappella e l'eremo, come narrano i produttori de «Lo Stilita», un documentario relativo a Qavtaradze e alla sua comunità. Si tratta di un film indipendente diretto da Stephen Riehl. Ecco alcune delle fotografie scattate da Chapple:


Qavtaradze osserva la vista dalla cima della rupe di Katskhi.
Solitamente dice: «È qui in alto e nel silenzio che si può sentire la presenza di Dio»

La rupe è alta circa quaranta metri

Qavtaradze legge all'interno del suo rifugio in cima alla rupe.
Per i primi due anni egli era solito dormire in una sorta di frigorifero
per proteggersi dalle condizioni meteorologiche,
ma adesso ha un letto su cui riposare

Il suo posto preferito sulla rupe
(talvolta il monaco può essere scorto da terra)

Sergo Mikhelidze e un amico spediscono al monaco il pranzo mediante una carrucola

Qavtaradze compie la salita di venti minuti verso la cima della rupe
dopo avere pregato insieme ai fedeli
nel monastero ai piedi della rupe stessa.
Il giorno in cui egli diverrà troppo debole per usare la scala,
rimarrà sulla rupe fino alla morte (lo ha già deciso)

Sergo Mikhelidze e Irakli Kurashvili pregano nel loro dormitorio,
situato ai piedi della rupe.
Mikhelidze sta pensando di diventare monaco o sacerdote
e vive nel monastero da tre anni per maturare la giusta decisione

L'interno della cappella che si trova in cima alla rupe

Qavtaradze lavorava come gruista sotto il regime sovietico
e dunque non ha mai temuto i luoghi alti,
cosa che adesso gli torna particolarmente utile

Il sole tramonta sulla chiesa e sul monaco

La cripta sotto la cappella contiene le ossa dello stilita
che nel corso del XV secolo scelse il luogo come propria sede

Qavtaradze vuole che i suoi resti vengano posti nella stessa cripta,
quando egli sarà morto
(questi sono ovviamente i resti dello stilita qui vissuto nel XV secolo)

Alla base della rupe si trova una cappella dedicata a San Simeone,
ritenuto il primo stilita.
Qui alcuni giovani alla ricerca di serenità interiore
si radunano per cercare sostegno morale.
A loro viene richiesto di pregare continuamente per sette ore al giorno
se vogliono tentare di rimanere presso la comunità religiosa

Irakli Kurashvili, divorziato all'età di ventidue anni,
giunse al monastero per trovarvi la misericordia di Dio e la saggezza di Qavtaradze.
Egli afferma:
«Maxime ha fatto tanto per me.
Adesso è tardi per diventare monaco come Maxime,
ma sto valutando la possibilità di diventare sacerdote»

Le montagne circondano la rupe che è considerata sacra fin dai tempi precristiani

Qavtaradze davanti al suo modesto rifugio

Tramonto sulla rupe



Le fonti delle notizie fin qui riportate:

http://www.huffingtonpost.com/2013/09/19/katskhi-pillar-monk-georgia-maxime-qavtaradze_n_3950192.html
http://orthodoxologie.blogspot.it/2013/09/un-stylite-en-georgie.html

Ivo Flavio Abela

sabato 6 luglio 2013

In morte di Ludovico Ariosto (6 luglio 1533)

Tiziano
«Presunto ritratto di Ludovico Ariosto»
Londra, National Gallery
Oggi - nel 1533 - a Ferrara morì Ludovico Ariosto. Il suo «Orlando furioso» è poema straordinario e unico. In quanto tale, può essere letto ex abrupto: ce lo ricorda Italo Calvino che invita a demolire il vecchio luogo comune secondo cui sarebbe necessariamente propedeutico leggere l'«Orlando innamorato» (e magari anche l'intero ciclo carolingio) prima del capolavoro ariostesco (cfr. «Introduzione» a «Orlando furioso raccontato da Italo Calvino», Torino, Einaudi, 1970, pp. XVIII e segg.).

Con l'«Orlando furioso» Ludovico Ariosto sceglie di riprendere la trama boiardesca dell'«Orlando innamorato» (poema rimasto incompiuto a causa della morte dell'autore). E se Boiardo (si ricordi il «Prologo» dell'«Innamorato») ha concentrato la propria attenzione sull'amore di Orlando per Angelica (aspetto inedito che - nella finzione boiardesca - lo stesso Turpino, l'arcivescovo di Reims reputato cronachista delle imprese orlandiane, ha taciuto per decoro - sempre secondo il Boiardo), Ariosto si spinge oltre e ci presenta un Orlando non solo innamorato, ma addirittura impazzito per amore.

Emblematico l'episodio in cui Orlando, errando nudo, rivede Angelica in compagnia del marito Medoro. Angelica - accortasi di lui - giunge a mettere in bocca l'anello fatato per rendere se stessa invisibile e sottrarsi così alla folle, gelosa e possessiva pressione di Orlando che sfoga dunque la sua frustrazione stremando la sua cavalla.

E se il poema, in cui la materia è trattata con vivacità, freschezza, entusiasmo, ironia, nitore linguistico e stilistico, è lo specchio sulla cui superficie si riflette la civiltà della corte rinascimentale (aristocratica e classicista), esso è anche lo specchio delle contraddizioni "percepite" da Ariosto. La stessa pazzia di Orlando è cifra della consapevolezza ariostesca relativa al fatto che - sebbene il Rinascimento abbia ridato all'uomo centralità e autonomia, facendone l'arbitro di se stesso - qualcosa sfugge sempre e comunque al dominio dell'uomo. Non è un caso del resto che proprio nel Rinascimento venga riproposto il problema della Fortuna. Lo stesso spregiudicato (in verità soltanto realista) Machiavelli riserva un ruolo ben definito alla Fortuna nel celeberrimo «Il Principe» (forse facendosi portavoce dello sgomento che ha sconvolto gli animi in seguito alla morte di Lorenzo il Magnifico, con tutte le conseguenze che essa ha implicato).

Analogamente, nella descrizione del secondo castello di Atlante e nella narrazione del viaggio sulla Luna di Astolfo per recuperare il senno di Orlando appare trasfusa l'insicurezza esistenziale di quell'aristocrazia e di quegli spiriti che pur vivono fra gli agi e le bellezze della corte. In fondo non aveva lo stesso Lorenzo de' Medici già invitato tutti ad essere lieti oggi dal momento che «del doman non v'è certezza»?.

Ivo Flavio Abela

Battista Dossi, «Notte» (o «Sogno»)
1544
Staatliche Kunstsammlung, Gemäldegalerie Meister Alte, Dresda

mercoledì 3 luglio 2013

Quando Bulgakov vendette l'anima al diavolo

Dalla metà degli anni Venti del Novecento la Russia registra una produzione di narrazioni storiche che inizia con i romanzi di Jurij Tynjanov e s’infittisce sotto Stalin, quando viene assecondata, strumentalizzata politicamente e usata per celebrare grandi personaggi che si distaccano dalle masse, surclassandole. Tale produzione veicola una concezione della Storia intesa come complesso di azioni compiute solo da grandi uomini. Le masse vi restano a fare da sottofondo non necessario e trasfuso occasionalmente in una sorta di voce impersonale dal timbro monocorde e indistinto.

È un passo indietro, se si considerano le vette raggiunte dalla narrazione storica nel secolo precedente in particolare con «Guerra e pace» di Tolstoj (che devo ancora una volta citare su questo blog): trattato storiografico (ancor più che romanzo) sulla spedizione napoleonica in Russia, dal quale si evince peraltro che il progetto di Napoleone fallì perché il Bonaparte fu annientato da un’anima russa incarnata in tutti i figli della Santa Madre Russia – a prescindere dalla loro estrazione sociale – capaci di opporre una consapevole e corale resistenza.

George Dawe
«Ritratto di Alexander P. Kutúzov»
Hermitage Museum
Per certi versi – semmai – la Storia presovietica può anche fare a meno delle grandi personalità. Per fare un esempio, a proposito del generale Kutúzov lo stesso Tolstoj racconta che – ad onta delle cause ipotizzate dagli storiografi – egli «non capiva che cosa volessero dire l'Europa, l'equilibrio, Napoleone. Non lo poteva capire. Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì» («Guerra e pace», Einaudi, 1955, II, 577). La Storia non aveva più bisogno di lui.

Michail Bulgakov, contemporaneo di Jurij Tynjanov, aderisce (forse inconsapevolmente?) all’idea di una Storia fatta da grandi personalità. Ma lo fa in modo profondamente originale. Il “grande uomo” del suo capolavoro («Il maestro e Margherita») non è – per usare un gioco di parole – un uomo, ma una creatura che domina un mondo oscuro e soprannaturale: Satana. Perché Satana è Stalin. Bulgakov impiega dodici anni per scrivere il romanzo e non arriva neanche a vederne la pubblicazione. Detesta Mosca: un microcosmo in cui dominano la corruzione, l’intolleranza, l’assenza di libertà (d'espressione innanzitutto), specchio di una Russia vessata dal regime stalinista che procede a forza di epurazioni (quelle stesse epurazioni che nel romanzo Bulgakov trasforma in scomparse improvvise, misteriose e inspiegabili), di divieti, di minacce, complici in fondo (sebbene si tratti di complicità dettata spesso dalla necessità) le delazioni perpetrate dagli stessi russi a danno dei propri simili per sottrarre loro un alloggio (lo stesso Stalin-Satana del romanzo ricorre all’imbroglio per stabilirsi nell’appartamento del defunto Berlioz. In «Cuore di cane» il “comitato dei condomini” fa del resto di tutto per sottrarre qualche camera al dottor Preobrazenskij, proprietario dell'appartamento dove avvengono le due metamorfosi di Poligraf Poligrafovic, l’uomo-cane). Ed è una Mosca intrisa di vigliaccheria: quella stessa che Bulgakov ravvisa in Ponzio Pilato (le cui azioni permeano uno dei due piani narrativi che s’intrecciano nel romanzo «Il maestro e Margherita»). A Mosca Bulgakov è un emarginato: vi diviene oggetto di spietate e crudeli attacchi (v’è chi addirittura ne stigmatizza il sentire da neoborghese, la cui testa andrebbe sbattuta contro la tazza del cesso). Tutti i critici conniventi col regime di Stalin lo stroncano e gli impediscono di fare l’unica cosa che egli ritiene di sapere fare bene: scrivere.

Bulgakov arriva a inviare una lettera a Stalin. Nella lettera spiega al dittatore che per lui è impossibile vivere a Mosca come un reietto. La sua richiesta è chiara: «Esiliami oppure – se proprio non vuoi – lascia che io viva dignitosamente qui, permettendomi di lavorare presso il Teatro» (il Teatro dell’Arte). Stalin – contro ogni previsione – gli telefona e gli promette che egli lavorerà in quel Teatro. Bulgakov scende insomma a patti col diavolo: un diavolo che toglie e che dà secondo i propri capricci, un dittatore “generoso” per calcolo proprio come quel Satana che accetta di concedere al Maestro e a Margherita – nel romanzo – una pace borghese.

Il dramma vero di Bulgakov nasce dunque nel momento in cui egli si rende conto del fatto che la Storia – quasi fisiologicamente – è fatta da tutti: dai grandi uomini come da quelli più insignificanti. E alla Storia nessuno può sottrarsi al punto da scegliere il male minore (vendere l’anima al diavolo) pur di potere collocarvisi senza patire. Scrivere diviene esigenza ancora più pressante (e più frustrato è chi si vede condannato a non poterlo fare): è un atto liberatorio, risarcitorio, capace addirittura di ricomporre i più lancinanti e millenari dissidi, quali quello fra Cristo e Ponzio Pilato.

Ivo Flavio Abela

Michail Afanas'evič Bulgakov

lunedì 6 maggio 2013

«In hoc vinces» di Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi. Fu vera visione?

La colossale testa bronzea di Costantino (Musei Vaticani).
La statua, forse del I sec., sarebbe stata poi riutilizzata

da Costantino e distrutta fra il VI e il VII secolo
Se ponessimo sui due piatti di una bilancia l'Occidente e l'Oriente a partire dal IV secolo d.C., il piatto contenente l'Oriente si abbasserebbe. Perché Flavio Valerio Costantino, imperatore romano dal 306 al 337, avrebbe segnato la storia dell'Impero orientalizzandolo. La sua scalata verso la vetta di un potere che  fallito l'esperimento tetrarchico dioclezianeo  l'avrebbe visto trionfare quale unico sovrano si combina infatti col trasferimento del centro amministrativo dell'Impero romano proprio in direzione asiatica. La creazione di Costantinopoli sulle rive del Bosforo avrebbe costituito nei secoli a venire l'unico elemento capace di fare sopravvivere l'Impero romano stesso, anche se esso si sarebbe gradualmente trasformato in una compagine statale dai forti connotati teocentrici e bizantini.

La creazione della nuova capitale avrebbe spostato verso Est anche il baricentro economico dell'Impero, favorendo lo sviluppo urbano in particolare della penisola anatolica e della provincia galatica in essa contenuta. Se Diocleziano aveva inferto un colpo non indifferente all'Occidente finendo per disinteressarsene (e il suo ritiro nel Palazzo di Spalato, dove si sarebbe dato all'ozio e all'agricoltura, ne è la prova più significativa), Costantino sembra abbandonarlo al suo destino, preparando inconsapevolmente l'apertura delle porte ai barbari che di lì ad alcuni decenni avrebbero finito per colpire la Pars Occidentis direttamente al cuore.

Icona con Elena e Costantino
santi della Chiesa Ortodossa
Costantino, figlio naturale di Costanzo Cloro e della stabularia Elena, era personalità controversa. Spregiudicatamente sanguinario nei confronti dei membri della sua stessa famiglia, fautore – ce lo ricorda Santo Mazzarino  di una società fortemente piramidale imperniata sul valore effettivo della moneta aurea, intendeva imporsi ai sudditi come επίσκοπος τῶν εκτός (epískopos tòn ektós), letteralmente «vescovo di quelli di fuori»: i laici (stando ancora al Mazzarino), cioè quanti risiedevano fuori dal raggio dell'autorità propriamente ecclesiastica dei vescovi. Senonché la scelta della parola epískopos è fortemente indicativa: se ciascun vero epískopos esercitava la propria autorità religiosa sulle anime di quanti vivevano nel proprio ambito di competenza, Costantino esercitava un'autorità laica su tutti perché così – sublime contraddizione  Dio stesso aveva voluto, manifestandoglisi la notte del 27 ottobre del 312, cioè alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio. Costantino ne sarebbe stato il vincitore sconfiggendo Massenzio. Quest'ultimo sarebbe morto nelle acque del Tevere, come ricorda Lattanzio nel «De mortibus persecutorum», trattato che s'inscrive nella tradizione apologetica di una Letteratura cristiana in lingua latina che muove i primi passi (e che solo più tardi giungerà alla definitiva maturità conferitale dall'ipponense Agostino attraverso la codificazione teologica del pensiero cristiano).

La presunta visione di Costantino nel corso di quella notte è il tema di «In hoc vinces» di Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi (Edizioni Mediterranee, 2011). Costantino avrebbe visto in sogno il monogramma di Cristo accompagnato dalle parole «Τούτῳ νίκα» (Toúto níka, come riferisce Eusebio di Cesarea) o «Ἐν τούτῳ νίκα» (En toúto níka, come riferiscono altre fonti): rispettivamente «Con questo vinci» (intendendo Τούτῳ come dativo strumentale) e «In questo vinci» (En toúto è un complemento di stato in luogo figurato). Tali parole sarebbero state integrate con la menzione del signum nella corrispondente espressione latina «In hoc signo vinces» («In questo segno vincerai»). Costantino avrebbe dunque fatto imprimere quel signum sugli scudi dei suoi soldati i quali, pur numericamente inferiori rispetto a quelli di Massenzio, sarebbero stati i vincitori della battaglia di Ponte Milvio.

Com'è noto, la visione di Costantino è stata letta nel corso dei secoli sostanzialmente in due modi. La tradizione storiografica inaugurata da Lattanzio ed Eusebio di Cesarea  che ne riferiscono rispettivamente nel già citato «De mortibus persecutorum» e nella «Vita Costantini», sebbene non negli stessi termini, ma convergendo comunque sul particolare del sogno  ha individuato in essa semplicemente un evento miracoloso. La storiografia successiva ha invece letto generalmente nella visione nulla più di una fola costruita e diffusa ad arte dalla propaganda di regime – in cui gli scritti di Lattanzio e di Eusebio si inscrivono ovviamente a buon diritto  per giustificare la liceità e la necessità del potere costantiniano.

Alla luce della seconda e più razionale interpretazione, si spiegherebbero del resto gli utilitaristici tentativi costantiniani di assecondare la diffusione del Cristianesimo a partire dall'emanazione dell'Editto di Milano (313), con cui veniva concessa ai sudditi dell'Impero la libertà di professare qualsiasi religione, compresa quella cristiana. È noto che all'Editto di Milano seguì la cristianizzazione dell'Impero: furono costruite basiliche destinate alle cerimonie religiose cristiane, furono diffusi culti specifici (quello della Croce, per esempio, nella cui elaborazione assunse un ruolo fondamentale Elena), fu affermata l'ortodossia cattolica (per arginare certe derive ereticheggianti quali quella donatista) che trionfò nel Concilio di Nicea del 325. Tale concilio fu del resto fortemente voluto dallo stesso Costantino che così si ritagliava il ruolo di capo  latente ma poi non troppo  della neonata Chiesa Cattolica.

Il Casale di Malborghetto in una vecchia fotografia
(si distinguono i fornici)
Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi hanno cercato di affrancarsi da entrambe le letture e dalla strettoia razionalistica del «tertium non datur». Fonti alla mano, essi hanno analizzato innanzitutto la geomorfologia del territorio situato a Nord di Roma, in cui sono compresi il monte Soratte e l'area di Malborghetto con il noto Casale – oggi sede di un distaccamento della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma – presso cui Costantino si trovava accampato con le sue armate la notte del 27 ottobre 312. Dell'arco murato nel Casale si è sempre ipotizzata una destinazione trionfale legata alla vittoria di Costantino su Massenzio, destinazione che ne farebbe però un inutile duplicato di quello famosissimo eretto a Roma presso i Fori imperiali. Carboniero e Falconi giungono invece a individuarvi un monumento commemorativo di qualcosa di singolare che in quel luogo si sarebbe verificato: proprio la visione di Costantino. Perché Costantino, secondo loro, avrebbe davvero visto qualcosa.

La Costellazione del Cigno
Ricostruendo la mappa stellare di quella notte mediante ausilî digitali, gli autori hanno in essa notato una combinazione astronomica assolutamente rara ed inusuale per non essere percepita dall'osservatore dell'epoca come eccezionale: quella notte, in una porzione di cielo piuttosto limitata, erano ben visibili quattro pianeti onomasticamente legati al pantheon delle divinità romane e perfettamente allineati fra loro, nonché la costellazione dell'Aquila e la costellazione del Cigno. L'eccezionalità insita nella compresenza di tali corpi celesti poteva a buon diritto essere considerata un signum da chi, come Costantino, era solito tenere conto delle circostanze astronomiche e delle interpretazioni cui esse andavano soggette. Inoltre, se la costellazione dell'Aquila richiamava l'Impero romano in quanto l'aquila ne era il simbolo più acclimatato, la costellazione del Cigno presentava una conformazione perfettamente sovrapponibile a quella dello staurogramma: il simbolo ottenuto mediante la sovrapposizione dei due grafemi maiuscoli dell'alfabeto greco tau (T) e rho (P), usato dal 200 d. C. circa come monogramma di Cristo.

L'ipotesi è certamente molto suggestiva ed in fondo verosimile, se è addirittura stata presa in considerazione da Marina Piranomonte, archeologa della Sovrintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, nel suo recente saggio «Costantino e i luoghi della battaglia. Ponte Milvio e l'arco di Malborghetto». Tuttavia gli stessi autori – con molta onestà intellettuale – tengono a sottolineare che appunto di ipotesi pura si tratta e che quanto da loro individuato non possiede di certo carattere dimostrativo.

Piero della Francesca
«La visione di Costantino»

Arezzo, Basilica di San Francesco, Cappella Bacci
Carboniero e Falconi però non si fermano e giungono a chiamare in causa Piero della Francesca, autore del ciclo di affreschi «Leggenda della vera croce» (Arezzo, Basilica di San Francesco, Cappella Bacci), realizzato sulla scorta della «Leggenda dei santi» – poi nota come «Leggenda aurea» – di Iacopo da Varazze (o da Varagine). Il ciclo comprende un affresco in cui viene illustrata la visione di Costantino. Due elementi di quest'affresco hanno attirato in particolare Falconi e Carboniero. Il primo è costituito dal cielo che fa da sfondo alla sommità della tenda nella quale Costantino è disteso: è un cielo vero, cioè un cielo su cui con grande perizia l'artista ha dipinto una configurazione astronomica per qualche verso assimilabile a quella della notte del 27 ottobre 312 (peraltro svelata all'osservatore odierno dai restauri cui l'affresco è stato sottoposto una decina di anni fa). Il secondo elemento è dato dalla creatura alata raffigurata in alto a sinistra: è un angelo, ma un angelo che a prima vista – a causa soprattutto della posizione che ne evidenzia le ali mostrandole posteriormente – sembra un uccello (confrontabile con il cigno raffigurato a testa in giù nelle antiche mappe astronomiche ad indicare l'omonima costellazione). Carboniero e Falconi immaginano insomma che a Piero della Francesca (matematico, alchimista, astronomo) fosse stata tramandata in qualche modo l'idea della effettiva configurazione astronomica della notte del 27 ottobre 312 e – conseguentemente – dell'importanza che in essa era rivestita dal Cigno. Di quest'ultimo avrebbe dunque lasciato un subliminale riferimento proprio nell'immagine "aviforme" dell'angelo che, discendendo dal cielo, porge a Costantino una croce.

Fabrizio Falconi e Bruno Carboniero
visibilmente ... sincronizzati
È ovvio che un'ipotesi come quella appena discussa appare piuttosto avventata e molto fantasiosa in assenza di altri dati, ma gli autori dichiarano prudentemente di volerla usare come pura ipotesi di lavoro per indagini future (peraltro attualmente in corso), supportati anche dalla raffigurazione musiva dello staurogramma nel Battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli (la cui immagine è riportata sulla copertina del libro). Un'epigrafe assegna la paternità del Battistero a Costantino. L'edificio è peraltro annesso alla Basilica che, stando al Liber Pontificalis Ecclesiae Romanae, sarebbe stata pure costruita per ordine di Costantino. Lo staurogramma appare al centro della cupola del Battistero, stagliandosi (in modo del tutto inedito in quanto mai attestato anteriormente) su un fondo stellato.

«In hoc vinces» è un testo di taglio molto divulgativo, dotato anche di ampie inserzioni discorsive quasi a livello del colloquiale (come se Falconi e Carboniero dialogassero direttamente col lettore). Alla lettura integrale del libro si rimanda senz'altro anche per l'originalità dell'impostazione. Intanto non resta che attendere gli ulteriori sviluppi delle ricerche.

Ivo Flavio Abela

martedì 30 aprile 2013

Destini paralleli di un uomo e di una città

Nell'estate 2010 mi fu chiesto di scrivere la recensione al romanzo di un autore catanese emergente. Sarebbe stata pubblicata non posso dire dove. La scrissi. La inviai alla committente la quale divenne prima ipocritamente reticente. Poi sparì. Le ragioni della scomparsa sono rimaste ignote. Salvo attribuire lo strano comportamento a turbe psichiche e ad acidità d'animo. O più semplicemente a un malcelato complesso d'inferiorità, come qualche malalingua  poi non tanto mala  mi riferì. Nei miei ritagli di tempo ho riletto il romanzo. La seconda lettura mi ha portato a guardarne i difetti più di quanto non avessi fatto durante la prima (quando ero incalzato dall'urgenza della "consegna" della recensione). Ho ritrovato la recensione stessa e ne ho ritoccato qualche punto così da rendere maggiormente ragione delle manchevolezze da me riscontrate. E mi sono detto che in fondo il mio blog avrebbe potuto bene accoglierla.

«Il rosso e il nero». No. Non è il romanzo di Stendhal. Ma potrebbe essere il titolo alternativo per «Una raggiante Catania» di Domenico Trischitta, in cui i due colori non richiamano il sangue e la morte, ma il fascismo e il comunismo (non si fraintenda: il richiamo stendhaliano riguarda solo il titolo. Non certo le qualità letterarie del romanzo in esame). Con un netto prevalere del rosso in quegli anni ‘70 in cui si colloca l’incipit della parabola esistenziale del protagonista-autore e della sua educazione sentimentale. Sullo sfondo di una città dilaniata da scontri proprio fra neri e rossi. Sullo sfondo di un quartiere, il nuovo San Berillo, popolato da «neodeportati che devono inventarsi un futuro, strada criminale o schiena spaccata ad allevare figli», violentato anch’esso da scontri di ragazzi che, implotonati in bande fanciullescamente organizzate, s’impegnano in un singolare apprendistato per diventare ciò che saranno: i protagonisti della malavita che insanguinerà la città nel decennio successivo.

In principio erano Don Mimì e Don Saro. Perché da loro prende le mosse l’autore: Don Mimì, il nonno paterno, ucciso mentre si trova col figlio Saro al mulino di Mascalucia, presso il quale s’è recato per procurarsi la farina «anche se là ci sono molti tedeschi»; Don Saro, figlio di Don Mimì e padre di Turi, che da bambino vive il duplice trauma dell’abbandono e della morte del genitore e che sembra trovare un tenero e umanissimo riscatto solo quando la Madonna del Rosario viene portata in processione nel suo quartiere. Fato e necessità, quasi inscritti nel codice genetico dei maschi di casa Tringali, finiscono così per caratterizzare anche la vita di Turi, nella misura in cui Turi stesso li combatterà per non fare la fine cui sono destinati gli amici di adolescenza, sorretto peraltro da un «carattere volitivo» che ne fa la «fotocopia» della madre e da un egoismo «preoccupante», maturato anche a contatto con un fratello gemello, «irrimediabilmente segnato per tutta la vita» da problemi fisici generatisi alla nascita.

La menzione del padre e del nonno sembra sovrapporsi a quella del primo completo atto autoerotico di un Turi dodicenne, come a sottolineare quanto le pulsioni sessuali agiscano nella vita di un uomo, assolvendo quasi a un ruolo terapeutico. La naturalezza e la precisione con cui vengono narrate fin nei dettagli le esperienze sessuali successive si alimentano anche di un linguaggio fortemente realistico che fotografa edonisticamente la realtà sessuale per quella che è. Ma sono anche terribilmente esagerate. Alla lunga diventano quasi stucchevoli e stancano (tanto varrebbe guardare un film hard). L'autore si compiace delle proprie gesta erotiche (che però non sono – ahimè – quelle di Squaw Pelle di Luna), dando l'impressione di non riuscire a sottrarsi al gallismo siculo («Vadda quantu sugnu masculu!» sembra dire). Il lettore esperto se la ridacchia. E giunge magari a sospettare che quelle esperienze l'autore-protagonista le abbia vissute solo nella sua arrapata fantasia (e mi si perdoni la dislocazione a sinistra).

La storia di Turi viene narrata in forma di massiccio climax che muove da una folla di ricordi eterogenei: il quartiere, gli scontri fra i suoi giovani abitanti, la dura vita dei «deportati», le primissime scoperte musicali, alcune scene – gustose, ma dall’amaro retrogusto – quali quella del funerale di Fimminedda, il travestito morto a causa – beffardo contrappasso – di un tumore ai testicoli. Tende dunque, gradino dopo gradino, a sconfinare in una ricomposizione finale.

Difficile stabilire quale fil rouge permetta ai ricordi di integrarsi mentre si procede nella lettura. Forse l’iperpresente io narrante che fa di «Una raggiante Catania» un romanzo in parte autobiografico. Esso rimane persistente anche quando viene abbandonata la narrazione in prima persona e adottata quella in terza (che avviene presumibilmente quando l’autore percepisce certi ruoli, assunti suo malgrado, come estranei al soddisfacimento delle proprie esigenze). Quell’io narrante diviene poi ancora più tangibile verso la conclusione del romanzo, allorché la riflessione assume la forma di un intimismo a tratti nostalgico, a tratti esistenziale (in particolare dopo il lungo episodio della permanenza in Germania).

L'insopportabile Carmen Consoli:
una cantante da acqua a linzolu
o da fer'o luni
(i catanesi comprenderanno)
O quel fil rouge è forse Catania stessa che abbandona gradualmente le tinte noir dei suoi anni ‘70, colorandosi occasionalmente di rosso, per conseguire il luminoso splendore della metà degli anni ‘90, quando si riempie della luce dei megaconcerti rock, della «cantantessa» Carmen Consoli, del sodalizio artistico di Battiato e Sgalambro: l’epoca dell’amministrazione di Enzo Bianco, sotto cui Catania può a buon diritto fregiarsi del titolo di capitale culturale del Mezzogiorno d’Italia.

Eppure l’intimismo autobiografico assume una consistenza maggiore proprio quando la città diventa raggiante. Sembrerebbe un Turi pessimista quello del finale. Forse perché egli conosce l’oscurità nella quale Catania è caduta nel decennio successivo, di cui non fa appositamente menzione. Ad ogni culmine – sembra esprimere il silenzio dell’autore sulla Catania del III millennio – segue la decadenza.

Lindi e concreti lo stile e il linguaggio, entrambi sostenuti da un tentativo di ricerca estetica. Tuttavia in alcuni punti sembra che l'autore voglia anacronisticamente imitare la prosa verista (si legga ad esempio quanto segue: «Quando gli sparavano il fuoco, a Don Saro gli si squagliava il sangue per l’emozione […] perché la Santa patrona di Catania […] gli aveva portato la sua Madonna a casa». Sembra di rileggere «Rosso Malpelo»). Il risultato puzza scolasticamente di muffa. Il romanzo – comunque – rappresenta nel complesso una prova dignitosa. Ma deve ancora passare un bel po' d'acqua sotto i ponti.

Ivo Flavio Abela

sabato 27 aprile 2013

«La morte di Ivan Il'ič»


«II principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva morire, sentiva d'esser già morto a metà. Egli aveva la coscienza di essere estraneo ad ogni cosa terrena e di sperimentare una lieta e strana facilità ad esistere». Così Tolstoj nell'incipit di una delle più belle pagine della Letteratura di tutti i tempi: quella in cui vengono narrati i momenti precedenti il compiersi «del semplice e solenne mistero della morte» di uno dei personaggi più interessanti e meno "terreni" di «Guerra e pace». Sposato con una donna per la quale nutre poco interesse, quindi vedovo (la principessa muore a causa di un parto complesso), poi fidanzato di Nataša Rostova, tradito da lei per quel delinquente di Anatolij Kuraghin, ferito due volte sul campo di battaglia (la seconda rovinosamente), non gli rimaneva che morire. Sconfitte le armate napoleoniche, non diversamente al generale Kutuzov, incapace di capire che cosa fosse quell'Europa in cui la Russia si trovava di colpo proiettata come potenza ancora olezzante degli allori appena mietuti, «non restava altro che la morte. Ed egli morì».

Appare a maggior ragione priva di logica la morte di Ivan Il'ič: un uomo legato alla vita, capace di costruirsi una carriera in ambito forense fino a diventare giudice, amante del proprio lavoro che costituisce anche lo strumento per sfuggire alle grane di una vita coniugale costellata di liti e di ripicche, pago della casa che riesce a procurarsi e che arreda con mobili, tappezzerie e tendaggi costosi e apparentemente raffinati, fiero di riuscire a gestire rapporti professionali e sociali con estrema correttezza (cioè con la decenza e il perbenismo che lo fanno sentire giusto e magnanimo).

Un giorno, mentre si trova su una scala sulla quale è salito per mostrare al tappezziere come disporre un panneggio, Ivan cade urtando col fianco la maniglia di una finestra: un incidente domestico di poco conto che egli stesso narra in seguito con amplificata e compiaciuta sufficienza ai suoi familiari, quando essi lo raggiungono a San Pietroburgo. Ma quell'incidente segna l'inizio di una malattia apparentemente inspiegabile che consuma gradualmente Ivan fino a procurarne la morte all'età di soli quarantacinque anni, con soddisfazione dei colleghi «giacché a morire era stato lui e non loro» e visto che ciò si traduce in un vantaggioso rimpasto di assegnazioni di cariche. Ma anche con loro disappunto, dal momento che devono affrontare «noiosissimi convenevoli ... il funerale, la visita di condoglianze alla vedova», la vista del defunto ricomposto ed esposto nella sala col viso giallo e cereo e col naso prominente, il lezzo di cadavere. Per fortuna il morto non può rovinare ai colleghi l'usuale partita di whist che si svolgerà solo a sera, cioè a cerimonia funebre avvenuta. E prima della cerimonia funebre del resto anche la vedova va alla ricerca della propria soddisfazione, prendendo informazioni sul modo più vantaggioso di spillare allo Stato quella che oggi definiremmo una (congrua) pensione di reversibilità (dopo avere del resto pure desiderato, durante la malattia del marito, che questi morisse, salvo poi rinunciare a un simile desiderio «perché, in tal caso, sarebbe venuto a mancare lo stipendio»).

Quella che Ivan ha amato è dunque una vita infarcita di ipocrisia. Ecco dunque la ragione per cui "può" morire come sono morti Andréj e il generale. L'ipocrisia si trasforma in pura menzogna durante la sua malattia, quando tutti prendono a trattarlo come un uomo semplicemente malato (e non destinato a morire) cui limitarsi a fare buon viso come se ogni difficoltà potesse prima o poi essere appianata: la moglie che si lascia andare a parole (e a qualche bacio) di circostanza, la figlia che vede nella sofferenza del padre una minaccia alla propria spensieratezza di giovane che vive il suo primo amore, il cognato, gli amici, i medici. Ivan si sente allora sempre più solo e finisce per detestare quanti lo circondano. Odia tutti. Eccetto il figlio ginnasiale (di cui Tolstoj mette a nudo quasi sfacciatamente  sebbene tra le righe  la tenera sensibilità) e Gerasim che è un servo giovane e schietto di origini contadine (e non può essere un caso se l'autore della storia è Tolstoj): l'unico che si fa carico delle sofferenze di Ivan. Anche fisicamente. L'unico che gli parla della fine imminente.

Vjačeslav Tichonov: il principe Andréj Bolkonskij
«Guerra e pace» (regia di Sergéj Bondarčuk, 1967)
Ivan è ormai prigioniero della solitudine. Inizia lentamente a ravvisare i frutti dell'opera distruttrice della morte nella consunzione del proprio corpo («Possibile che lei sia la verità?»). Arriva a pensare di stare scontando la colpa di avere condotto una vita sbagliata. Si chiude sempre di più in se stesso fino a giacere sul divano col viso rivolto verso il muro lungo cui il divano stesso è disposto. Ma la morte non gli dà pace ed egli inizia a subire una sorta di rigor mortis prima del tempo: assume definitivamente una posizione supina, prefigurazione di quella che dovrà assumere nella bara (che il lettore conosce già perché l'ha "vista" nel primo capitolo).


«Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo sfinito sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero più rari.
"È finita!" pronunciò qualcuno sopra di lui.
Egli udì quelle parole e le ripeté nel proprio animo. "Finita la morte" disse a se stesso. "Non c'è più".
Trasse un sospiro, si fermò a metà, si distese e morì».

Non è "miracolo" la morte di Ivan Il'ič. Non è «solenne mistero». Non lo è quanto quella di Andréj Bolkonskij. Ma se la morte del principe di «Guerra e pace» è la morte di chi ha imparato per tempo a lasciare il mondo e con facilità riesce dunque a lasciarlo, quella di Ivan è la fine (paradossalmente più vera, più umana, ma anche più sconcertante) di chi del mondo ha capito poco al punto di non riuscire a liberarsene se non quando è troppo tardi.

Ivo Flavio Abela

venerdì 19 aprile 2013

«Miscendo humana divinis». Per il compleanno di Roma (21 aprile 2013)


Il filo conduttore di cui Tito Livio si serve per tessere la narrazione della storia romana in «Ab Urbe condita» è squisitamente polibiano: Roma è un organismo politico che si è sviluppato a un tale grado di «magnitudo» da soffrirne («laboret» è il termine usato nella «Praefatio») e da rischiare di rimanerne schiacciata. Simile visione sembra attinta «a una concezione organicistica, biologica della storia, che è, in prima istanza, di marca greca, cosa che equivale a sistemazione e concettualizzazione, da parte greca, di un'idea centrale nella concezione romana autentica, quella dell'imperium» (Domenico Musti, «Il pensiero storico romano», in «Lo spazio letterario di Roma antica», I, 177-240, Roma, Salerno Editrice, 1989, p. 209).

Nel contempo Livio cerca di superare la suggestione polibiana o quantomeno ciò che di troppo razionalistico, meccanicistico ed evoluzionistico è in essa insito: la grandezza di Roma è in qualche modo predestinata, quasi tutta la storia di Roma rientrasse in un disegno provvidenziale che l'avrebbe portata a diventare «caput mundi». Non solo dunque le virtù umane: anche il volere divino – specificamente Marte, padre di Romolo e del popolo da lui originato – avrebbe giocato un ruolo fondamentale aiutando Roma e mettendola fortemente alla prova per farne emergere più platealmente il valore: «Et adeo varia fortuna belli ancepsque Mars fuit, ut propius periculum fuerint, qui vicerunt», ovvero «e furono di esito talmente dubbio le vicende della guerra e tanto ambiguo fu Marte che si trovarono più vicini al pericolo quanti poi vinsero», dice del resto Livio accingendosi a narrare la guerra annibalica nella «Praefatio» al IV libro. Anzi è probabile che Livio volesse sottilmente polemizzare proprio contro quel razionalismo greco-ellenistico che aveva in Polibio il maggiore pensatore (con le sue teorie dell'anaciclosi e della costituzione mista).

L'Augusto di Prima Porta
L'elemento soprannaturale permea la storia liviana opponendo apparentemente Livio anche alla "scientificità" ravvisabile nella storiografia greca a partire da Tucidide. Livio infatti dichiara apertamente di non volere né accettare né respingere gli eventi relativi ai primordi di Roma. Ne riconosce peraltro la natura ancora nella «Praefatio» al libro I: «magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis» («ornamenti più adatti alle favole dei poeti che a un incorrotto monumento di imprese»). In sostanza egli collega la sfera umana a quella divina realizzando, in un'opera storiografica, lo stesso principio su cui si basa il mito. Anzi la storia di Roma è senz'altro mito: non esiste altro popolo che possa arrogarsi, in nome della propria gloria militare, il diritto di rendere i propri «primordia […] augustiora [...] miscendo humana divinis» («le proprie origini […] più auguste [...] mescolando gli eventi umani a quelli divini»), diritto riconosciuto da tutte le genti che, già tollerando la propria sottomissione al popolo romano, possono anche sopportare il fatto che esso «suum conditorisque sui parentem Martem potissimus ferat» («consideri con convinzione Marte padre di se stesso e del suo fondatore»).

Non manca in Livio una certa autoesaltazione. «Immensi operis» e «tantum operis» sono espressioni con cui lo storico definisce nella «Praefatio» il suo «opus», salvo smorzare il tono autoapologetico con formule di modestia atte a realizzare una sommessa forma di «captatio benevolentiae». Ma che in Livio tutto sia grande e solenne (Augusto, l'Impero, le origini di Roma), che egli consideri grande il suo lavoro e voglia renderlo letterariamente ancora più grande, è testimoniato dall'attacco cantabile della stessa «Praefatio»: «Facturusne operae pretium sim», in cui già Quintiliano (9, 4, 74) riconosceva un tetrametro dattilico funzionalizzato a dotare di respiro poetico il ritmo fisiologicamente piano della prosa. Del resto Livio conclude la «Praefatio» stessa augurandosi di poter disporre della medesima ispirazione dei poeti.

...

Stralcio dell'introduzione a un mio vecchio studio sulla «Praefatio» al libro IV di «Ab Urbe condita» (per una volta posso autocitarmi...). Acerbo e frettoloso (ricordo che lo scrissi di corsa, ma ciò non mi impedì di occuparmi anche di «patavinitas»). Ma tant'è: è uno studio cui sono molto legato perché, se non fossi Ivo, vorrei essere Tito Livio. E buon compleanno, Roma!

Ivo Flavio Abela

Il rilievo della Tellus (Ara Pacis Augustae, Roma)

giovedì 18 aprile 2013

Diocleziano contro Plutarco (libera ermeneusi)

Plutarco

Plutarco - nelle sue coppie di biografie - accosta un personaggio greco ad uno romano sulla base di caratteristiche spesso forzatamente accomunanti. E ben sappiamo che quell'accostamento è in realtà una contrapposizione che spesso denuncia (soprattutto - ovvio - quando tale contrapposizione fosse espressa più o meno platealmente da un romano) l'inferiorità dei romani rispetto ai greci (che esiste dalle origini in fondo: si pensi agli intenti con cui è scritto il «Bellum Poenicum» da Nevio. Sono intenti denuncianti un chiaro complesso d'inferiorità culturale).

Plutarco per fortuna è un greco e non ha bisogno di sentirsi inferiore (appunto perché greco), ma è consapevole del fatto che Occidente e Oriente sono e sempre saranno inconciliabili: nelle sue biografie si prefigura la scissione definitiva di un Occidente (che poi cadrà per mano delle popolazioni del Nord e a causa di problemi economici) da un Oriente che resisterà molto più a lungo, una volta privato del ramo secco rappresentato dall'Occidente. Plutarco prefigura l'inevitabile scissione. Il messaggio mi pare chiaro: «Siamo più forti di voi. E lo siamo perché siamo più antichi e il nostro ethos è più prestigioso del vostro».

Diocleziano con la Tetrarchia realizza un ultimo tentativo (perché il suo è davvero l'ultimo tentativo "italocentrico" in tal senso) di tenere abbarbicati l'uno all'altro l'Occidente e l'Oriente. Lo fa dando un colpo al cerchio e uno alla botte: rafforzando la divisione (Occidente e Oriente avranno ciascuno il suo Augusto e il suo Cesare), ma cercando intanto di tenere ricucite le parti divise (ecco perché si contrappone a Plutarco, nella cui ideologia le due parti invece non possono che essere divise. Ed ogni tentativo di cucitura è inutile). Poi emana una misura fiscale (la capitatio-iugatio) che affama alcune aree dell'Impero e ne favorisce altre (non è un esperto "demologo" e ignora che cosa sia la densità demografica). Anche se è fin troppo scaltro: alla fine se ne lava le mani e sceglie Spalato, dimostrando indifferenza nei confronti di un nuovo assetto.

I Tetrarchi (Venezia)
In verità l'Impero Romano è già finito alla fine del II secolo: la rinascenza voluta da Adriano non ha nulla in comune con quella augustea. Quest'ultima era funzionale alla canonizzazione dell'ideologia imperiale, mentre quella adrianea è più estetica ed è la spia di un decadentismo che viene poi abbracciato in pieno da Marco Aurelio. Dopodiché l'Impero Romano (d'Occidente) diverrà un fantasma. E Costantino infatti sarà un imperatore "orientale".

In fondo basta guardare l'abbigliamento dei quattro personaggi qui rappresentati:
l'Occidente qui non si fonde con l'Oriente, ma s'inchina al suo cospetto. È un mondo nuovo, "moderno". O tardoantico: certo. Ed è un tardoantico che, quando Diocleziano arriva al potere, è già in corso da almeno un secolo.

Ivo Flavio Abela

giovedì 4 aprile 2013

La bellezza delle icone ortodosse


Secondo il racconto leggendario della «scelta della fede»,
Vladimir, principe di Kiev,
per scegliere la migliore religione
avrebbe inviato degli emissari presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci.
Il rapporto, che questi gli fecero su ciò che avevano vissuto a Costantinopoli,
lo avrebbe deciso senza alcuna esitazione in favore del cristianesimo nella forma bizantina.
Essi dicevano:
«Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra,
perché sulla terra non si trova simile bellezza».
Non si trattò della sola impressione estetica,
perché il racconto la supera infinitamente:
«Perciò non sappiamo che cosa dire,
ma una cosa sola sappiamo: là Dio dimora con gli uomini… ».
Ciò che è bello è la presenza di Dio tra gli uomini;
essa rapisce gli animi e li trasporta.

Pavel Nikolaevič Evdokimov, «Teologia della bellezza», Roma, 1981, p. 36

Andrej Rublëv
Icona della «Trinità»
L’icona viene realizzata da maestri che usano materiali poverissimi (il substrato è costituito dal legno. Si aggiungono poi la tela, il collante, i pigmenti, le vernici), ma è in grado di veicolare significati molto complessi, diventando una summa theologiae (per usare un’espressione cara all’aquinate Tommaso) e una guida per chi la contempla. È bella. La sua bellezza è salvifica in quanto l’icona è spazio visibile dell’Invisibile, cioè del vero Bello. Non soltanto essa esaurisce il senso della kalokagathìa di ascendenza classica, ma è anche privilegiato veicolo della fusione di etica, estetica e contemplazione (quest’ultima intesa come esperienza mistica). Essa viene sì realizzata nel laboratorio dell’iconografo, ma tale laboratorio trova la sua ideale collocazione nel monastero (in termini storici), dove il laboratorio stesso si spoglia dei propri connotati puramente tecnici e di bottega per diventare il luogo in cui l’artista smette di essere tale (egli è solo un tramite infatti perché l’artista è Dio) e agisce da uomo che costruisce se stesso come immagine vivente dell’Invisibile. L’icona ha una funzione soprattutto liturgica in quanto immagine conduttrice: contemplarla durante il rito significa ricavarne l’ispirazione che rende efficace la partecipazione al rito stesso. Ma è anche immagine conduttrice nella vita quotidiana e familiare, se inserita in un angolo domestico che – non a caso – nella tradizione slava viene definito «Angolo della Bellezza» («non è nella natura in se stessa che si situa la vera Bellezza, bensì nell’epifania del Trascendente che fa della natura il legame cosmico del suo irradiamento, un “roveto ardente”» secondo Pavel Evdokimov alla pagina 48 del libro citato in esergo).

Due testi sono fondamentali per capire l’essenza dell’icona: «Teologia della bellezza» di Pavel Nikolaevič Evdokimov (Edizioni Paoline, Roma, 1981, già citato e non solo in esergo) e «L'icona, immagine dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica» di Egon Sendler (Edizioni Paoline, Roma, 1983): datati (senza dubbio), ma ancora validissimi capisaldi. E sono due testi che possono essere letti “insieme” in quanto si integrano a vicenda: nel primo prevale la riflessione teologica, nel secondo prevalgono quella storica e quella pratica (pratica in quanto Sendler spiega meticolosamente come un’icona debba essere realizzata). Tuttavia mi sembra opportuno dedicare una riflessione al primo dei due a causa appunto del suo carattere spiccatamente teologico.

Evdokimov insiste sul senso liturgico dell’icona, stigmatizzando (ora tra le righe, ora platealmente) la cultura e la Chiesa d’Occidente che avrebbero smarrito la loro dimensiona ieratica, di cui il rispetto della liturgia sarebbe componente fondamentale. Secondo lo studioso, la teologia occidentale infatti ha sempre «manifestato una certa indifferenza dogmatica rispetto alla portata spirituale dell’arte sacra, a quella iconografica che, malgrado il suo lungo martirologio, è così venerata in Oriente. Tuttavia, provvidenzialmente, l’arte occidentale fu in ritardo sul pensiero teologico e, fino al secolo XII, resta fedele alla tradizione comune tanto all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione unica vive pienamente nella magnifica arte romanica, nel miracolo della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la maniera bizantina» (p. 89).

Teofilo Cretese
«Crocifissione» (1567)
Successivamente l’adozione della prospettiva e la resa del chiaroscuro indirizzano
l’artista lungo una strada che è quella dell’illusoria resa fotografica di una corporeità che nulla ha da spartire con l’impalpabilità del Trascendente (l’impalpabilità che l’iconografo d’Oriente rende mantenendosi consapevolmente entro i binari della bidimensionalità e della prospettiva inversa). Emblematico è il caso della rappresentazione del Cristo crocifisso: un ortodosso vi vede «il re», il trionfatore, il vincitore della morte attraverso la morte; un occidentale vi ravvisa solo l’uomo dei dolori, sconfitto, abbandonato dal proprio Padre. In altri termini l’ortodosso partecipa del trionfo insito nella crocifissione, l’occidentale si angoscia e si sente in colpa (e inizia a praticare il culto delle Sacre Piaghe, degli strumenti della passione, ecc.).

Gradualmente l’arte occidentale si spoglia di ogni implicazione liturgica. Umanizza e rende corporee le creature celesti accogliendo la terza dimensione: sotto i loro abiti gli angeli e i santi hanno carne e sangue e il racconto biblico viene usato dall’artista per esplicitare le proprie doti («quando un crocifisso, in forza del suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero indicibile della Croce perde la sua potenza segreta, scompare. Quando l’arte dimentica la forza sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente i “soggetti religiosi”, il soffio del trascendente non l’attraversa più» scrive Evdokimov alla pagina 90). Insomma l’arte occidentale è splendida, ma non ha alcunché di sacro e i suoi luoghi di culto esprimono soltanto il sentimento religioso di chi li realizza e di chi li frequenta, ma non esprimono la divinità («Si può dire che, misticamente, il Medio Evo si spegne precisamente quando scompaiono gli angeli, quando l’icona cede il posto all’immagine allegorica e didattica e il pensiero indiretto al pensiero diretto. È la fine dell’arte romanica, arte essenzialmente iconografica, ed è qui che l’Occidente si distacca dall’Oriente», p. 173).

Un monaco ortodosso pittore di icone
In simile prospettiva va contestualizzata la simpatia di Evdokimov per l’arte astratta in quanto «sopprime ogni supporto ontologico negando l’oggetto concreto» (p. 95). Simpatia che avrebbero forse condiviso gli iconoclasti, sebbene per motivi diversi: avvezzi a una concezione ritrattistica dell’arte intesa come pura imitazione, essi negavano la possibilità che l’icona potesse contenere la presenza dell’Invisibile in quanto l’Invisibile non sarebbe rappresentabile (in ciò confermando quanto espresso nel Vecchio Testamento e in seno all’Islam). Essi, negando la rappresentabilità dell’Invisibile, negavano il mistero stesso dell’incarnazione. Ma l’icona può rappresentare l’Invisibile in quanto quest’ultimo si è incarnato. E – incarnandosi – si è reso visibile (è del resto l’opinione espressa da Giovanni Damasceno nel trattato «Adversus eos qui sacras imagines abiciunt », PG 94, 1239). Il Cristianesimo appare del resto l'unica confessione secondo cui Dio si è incarnato: dunque non l'uomo ha antropomorfizzato Dio, ma Dio s'è antropomorfizzato da sé. Ancora di più: solo nel cristianesimo Dio si fa, prima ancora che carne, Verbo (motivo che nasce addirittura prima dell'avvento di Cristo: è già nel giudaismo). E basta leggere il testo di qualsiasi Padre dell'Ortodossia per comprendere che soltanto pronunciare la parola «Dio» equivarrebbe a testimoniarne l'essenza e l'esistenza. I testi dei Padri dell’Ortodossia ci forniscono così (se vogliamo portare le riflessioni di Evdokimov alle estreme conseguenze) un’efficace anticipazione di ciò che avrebbero affermato i pragmatisti del linguaggio tanti secoli dopo (pensiamo a Austin e al suo «How to do things with words») e in fondo anche gli strutturalisti. E tutto ciò senza entrare necessariamente nelle pastoie dei vincoli ontologici esistenti fra il significante e il significato nel segno o in quelle del rapporto (necessario o arbitrario che sia) fra il segno e il referente del segno.

Icona del «Trionfo dell'Ortodossia»
L’icona rappresenta dunque la parte visibile dell’Invisibile e va venerata non in quanto essa è l’Invisibile, ma perché ce lo ricorda e a all’Invisibile ci rimanda: in nome, cioè, della sua somiglianza col Prototipo (essa è «deuterótypos del protótypos»). Sulla base di tali assunti, il Concilio di Costantinopoli (843) ristabilì la venerazione delle icone, inaugurando la festa del «Trionfo dell’ortodossia».

Consiglierei la lettura del libro di Evdokimov a chiunque si senta attratto dall'iconografia ortodossa e dalla cultura greco-russa (insieme ovviamente a quella del testo di Sendler).

Ivo Flavio Abela

Dal film «Andrej Rublëv» di Andréj Tarkovskij (1966)