domenica 28 settembre 2014

«Buttanissima Sicilia». Un libretto che si affloscia man mano che lo si legge

Per parlare di un libro come «Buttanissima Sicilia» di Pietrangelo Buttafuoco userò poche righe e poche parole: una quantità modesta ne basta infatti per liquidare un testo nel quale vengono espresse idee sulla cui validità non sussiste dubbio alcuno, ma che finisce per essere uno di quei saggi che promettono fuochi d'artificio e poi producono la debole fiammella di un cerino.

Contiene alcune pagine interessanti che appaiono irresistibili per le tinte sarcasticamente crudeli - ma realistiche - con cui vengono ritratti alcuni personaggi. Basti leggere i passi dedicati all'Opera dei Puppi (e non v'è refuso: è proprio Puppi con due P, parola dal significato incontrovertibile soprattutto per un siculo). Ma - al di là della denuncia che è poi quella di qualsiasi cittadino siciliano anticrocettiano, antilombardiano, ecc. ecc., che sia dotato di buonsenso - è un castello di sabbia: disorganico (del resto altro non è se non il prodotto dell'assemblaggio di pezzi giornalistici editi o inediti). Coerenza vuole però che si debba tenere alta la tensione dal principio alla fine. Invece ecco il capitolo su Balat in cui il tono dell'autore diventa retorico e l'andamento della prosa piatto e stereotipato. E se è vero che la forma informa, pure il contenuto è sorprendentemente inutile: è quello di una cronachetta da notiziario locale. Andiamo poi al capitolo finale: scritto nella piatta, tipica prosa di un inutile compitino scolastico, totalmente privo di senso (Buttafuoco dovrebbe sapere che Mare Nostrum è un'operazione voluta dal governo italiano e da Alfano).


Non emerge poi alcuna proposta. Dire - come Buttafuoco fa di solito nel corso delle presentazioni del libro. E come ha fatto anche alla presentazione svoltasi a Piazza Armerina il 27 agosto 2014 - che l'unica cosa che ai siciliani gioverebbe adesso è un grande, forte, potente, improvviso trauma non significa proporre un'alternativa. Parlare al pubblico - sempre in corso di presentazione - con tono, aria, modi istrionici (sappiamo bene che Buttafuoco nutre una grande passione per Carmelo Bene e conosciamo i suoi trascorsi di responsabilità in ambito teatrale) può impressionare il pubblico sull'istante e far dire: «Ma quant'è bravo Pietrangelo!». Poi, quando torna a casa e legge il libro che ha comprato, il lettore potrebbe anche pentirsi di avere speso 12,00 euro.

Qualche domanda sorge pure spontanea: la Salerno-Reggio Calabria è siciliana? Berlusconi è siciliano? Renzi è siciliano? Insomma: tutta l'Italia non funziona. Non solo la Sicilia (che comunque può essere scelta come esempio paradigmatico dell'Italia che affonda, ma non come il solo esempio). In quanto al valore letterario, possiamo anche stendere un velo.

Ivo Flavio Abela

domenica 17 agosto 2014

«Il tempo è un bambino che gioca ai cinque sassi sulla riva del mare»

«L'eternità e un giorno» è un notissimo film diretto da Theo Anghelopoulos, alla cui sceneggiatura, tratta da un soggetto di Albert Camus, contribuirono Tonino Guerra e Petros Markaris. Fu premiato con la Palma d'Oro a Cannes nel 1988, sebbene le critiche non fossero poi state sempre positive: si rimproverava ad Anghelopoulos il presunto abuso di rimandi extratestuali che l'avrebbe condotto a realizzare nulla più di un garbato centone di citazioni (quasi Anghelopoulos fosse una sorta di Terenzio dei nostri giorni, capace solo di imbastire trame riciclando quanto in abbondanza la tradizione culturale greca gli offriva. Tale appunto ha spesso increspato la fama di più di un film del regista). In verità fin dalle prime battute pronunciate da Alexandros bambino e da sua madre (che precedono i titoli di testa e introducono lo spettatore in una dimensione in cui la temporalità si fonde ossimoricamente col suo opposto, immergendosi nel mito dell'infanzia e di una terra favolosa, cioè «la città antica»), la cifra distintiva del film è senz'altro la poesia nell'accezione etimologica della parola. E tale poesia investe violentemente la sfera emotiva dello spettatore, conducendolo lungo un percorso di sublime sofferenza che dura più di due ore e che si conclude, opportunamente, con una catartica risposta alla domanda relativa all'identità e al senso del domani.

- Alexandros, vieni! Andiamo sull'isola!
- Dove?
- Sull'isola! A tuffarci per vedere la città antica. Poi saliamo su in alto, sugli scogli e salutiamo le navi che passano.
- Cosa sai della città antica?
- Il nonno dice che era una città felice. Sprofondò per un terremoto. E da secoli dorme sul fondo del mare. A volte esce dalle acque solo per un istante: quando la stella del mattino ha nostalgia della terra. E si ferma a guardare.

Sono queste le battute incipitarie pronunciate da Alexandros bambino e dalla madre mentre sullo schermo appare la casa in cui Alexandros stesso (scrittore di successo adesso impegnato in un progetto destinato a rimanere soltanto tale, cioè il completamento della terza versione de «Οι Ελευθεροι Πολιορκημενοι», ovvero «I liberi assediati», di Dionysios Solomos) è vissuto durante l'infanzia e poi con la moglie Anna e la figlia Katerina. Ed è la casa che la figlia e l'arido genero vendono all'insaputa di Alexandros, quasi a scardinare la dimensione del mito in cui il protagonista è vissuto, venuto meno il quale Alexandros avrà forse una ragione in più per chiudersi in ospedale (dove si recherà l'indomani per affrontare la terribile malattia diagnosticatagli).

In tale cornice la dimensione temporale della giornata lungo la quale si snoda l'azione si dilata nuovamente mediante la regressione al 1967, ed in particolare alla giornata di festa organizzata per la presentazione ufficiale dell'appena nata Katerina ai parenti. Ed ecco Anna (Isabelle Renauld), donna di una dirompente ma ingenua sensualità sublimata nell'amore frustrato che prova per Alexandros, ecco i parenti, ecco lo stesso Alexandros che si rivede nei frangenti man mano ricordati (lo straordinario Bruno Ganz). Per tutto il film Alexandros rimane uguale a se stesso fin nell'abbigliamento - per la cronaca firmato da Giorgio Armani, come si apprende dai titoli di coda - caratterizzato da un avvolgente e fluente cappotto scuro che apparirà nella scena finale "vissuto", rovinato, bagnato. Alexandros è entelechia di se stesso: il "suo" tempo si è fermato (ammesso che sia mai scorso come avviene al tempo di tutti gli esseri umani), anzi cessa di esistere. Del resto il tempo stesso è solo «un bambino che gioca ai cinque sassi sulla riva del mare»: indifferente, innocente, indolore. Forse pura illusione.

Caspar David Friedrich
«Il sognatore»
La dimensione temporale continua a dilatarsi grazie anche all'alter ego di Alexandros, cioè il già citato poeta nazionale greco per eccellenza - suo è del resto il testo dell'inno nazionale greco - Dionysios Solomos (Zante, 8 aprile 1798 - Corfù, 9 febbraio 1857). Essendone stato inizialmente evocato il ricordo, Solomos finisce per materializzarsi, interpretato da Fabrizio Bentivoglio. Appare almeno tre volte. Inizialmente seduto presso una sorta di finestra (forse un richiamo al famigerato «Sognatore» di Caspar David Friedrich), poi lungo il fiume, infine su un autobus urbano (quella dell'autobus è una delle scene più suggestive del film) in cui reciterà all'indirizzo di Alexandros i seguenti versi:

«Καθαρώτατον ἥλιο ἐπρομηνοῦσε
τῆς αὐγῆς τὸ δροσᾶτο ἀστέρι,
σύγνεφο, καταχνιά, δὲν ἀπενοῦσε
τ᾿ οὐρανοῦ σὲ κανένα ἀπὸ τὰ μέρη·
καὶ ἀπὸ ‘κεῖ κινημένο ἀργοφυσοῦσε
τόσο γλυκὸ στὸ πρόσωπο τ᾿ ἀέρι,
ποὺ λὲς καὶ λέει μὲς τῆς καρδιᾶς τὰ φύλλα·
"γλυκειὰ ἡ ζωή κι᾿... γλυχιά η ζωή..."»

«L’ultima bolla di rugiada all’alba
Annunciava un sole limpido.
Non c’era nuvola o bruma
Nell’orizzonte perduto nel cielo.
Venuto da lontano, il vento leggero
Soffiava lentamente sul volto.
Nel profondo del cuore sussurrava:
"Dolce è la vita... dolce è la vita..."»

(La traduzione italiana dei dialoghi è di Paola Maria Minucci, nota in Italia perché le si deve anche la stragrande parte delle traduzioni circolanti in italiano dei testi di Odysseas Elytis)

Il continuo rifarsi a Solomos è probabile indizio di quanto ad Aghelopoulos interessasse anche pronunciarsi su una questione linguistica: Alexandros incontra un bambino albanese, interpretato da Achilleas Skevis (con lui trascorre l'intera giornata cercando di tenerlo lontano dagli sfruttatori), e gli narra di Solomos. Gli dice che il poeta, vissuto per alcuni anni a Venezia, decide di tornare a Zante quando viene a sapere che i suoi compatrioti si sono ribellati agli ottomani. Tornatovi, gli si presenta un problema: non conosce più la propria lingua madre a sufficienza. Ed è implicitamente un dramma: significa essere condannato a rimanere straniero nella propria terra. Escogita però uno stratagemma: inizia a comprare parole dai contadini e dai pescatori. Le parole sono αβυσσο, μοσχοβολισμενη, δροσιά, πηγή, αηδόνια, ουρανός, κυμα, λιμνη, αγνωρον, ευωδιζει, άλαφροισκιωτε (cioè: abisso, fragranza, rugiada, sorgente, usignoli, cielo, onda, lago, ignaro, profumo, veggente dall'ombra lieve). Ogni parola che gli viene venduta egli appunta meticolosamente. E pian piano torna a impadronirsi del greco. Si badi: non si rivolge a uomini colti, ma a gente incolta e povera, quasi ad esprimere subliminalmente l'idea che una lingua vera debba essere popolare.

In effetti si intrecciano nel senso di quella compravendita di parole tanto il riferimento a un problema fortemente sentito da Solomos (che peraltro ebbe come punto di riferimento linguistico il nostro Foscolo neoclassico, tanto da riuscire perfettamente a poetare in lingua italiana e a sentirsi "italiano", pur percependo la difficoltà di una propria integrazione totale da greco nel contesto italiano e da "italiano" nel contesto greco), quanto il problema della formazione di una lingua poetica greca che fosse però nel contempo anche lingua di comunicazione (durante il colloquio con la propria madre ricoverata per problemi mentali in una casa di cura - in verità un monologo - Alexandros dirà di essere stato bene solo quando ha potuto usare la sua lingua. In seguito non più. E la propria vita è diventata un'esistenza fatta solo di progetti, ma non di realizzazioni. E purtroppo spesa solo nella condanna a marcire forse per non avere trovato nessuno che insegnasse a lui e alla madre ad amare). A tal proposito non sarà forse inutile ricordare che lo stesso Odysseas Elytis sottolineerà la paradossale difficoltà di essere poeta quando si dispone di una lingua ricchissima e stratificata - il greco appunto - in cui si è poetato ininterrottamente per venticinque secoli (lo farà durante il discorso pronunciato in occasione del ricevimento del Nobel nel 1979). Non è dunque un caso il fatto che Alexandros abbia precedentemente detto alla figlia Katerina che non è riuscito a concludere l'opera di Solomos perché gli sono mancate le parole. Il Solomos di Anghelopoulos e di Alexandros si schiera così a favore della dhimotikì (e dire che quest'ultima vincerà solo a partire dal 1976), cioè della lingua popolare.

Il "gioco" dell'acquisto delle parole viene anche messo in atto da Alexandros e dal bambino albanese. Ma le tre parole che il bambino vende ad Alexandros (κορφούλα μου, ξενίτης, αργαδινή, che indicano rispettivamente un'espressione di tenerezza insita nel rapporto madre-bambino, il sentirsi straniero ovunque, infine letteralmente il significato "molto tardi nella notte") costituiscono un sunto della parabola individual-esistenziale di Alexandros, quasi a significare che se Alexandros non ha avuto a disposizione le parole per concludere il testo di Solomos, ha almeno trovato quelle per individuare gli elementi salienti della propria vita. E quelle parole egli ripeterà infatti alla fine del film. La terza parola gli viene venduta quando Alexandros sta per separarsi dal bambino. Quest'ultimo sta per imbarcarsi verosimilmente alla volta di un destino migliore. Sembra un passaggio di consegne: si conclude la vita di Alexandros, fiorisce la speranza per quella del bambino (mi chiedo oggi se c'entri qualcosa James Joyce con la scelta di fare incrociare le vite di un uomo - che è figlio, marito e padre. Ma è solo - e di un bambino nell'arco di una giornata).

Ed ecco tornare la martellante domanda relativa all'identità del futuro. Le parole ... Con le parole Alexandros ha riportato in vita Anna. E ora lei lo attira a sé chiamandolo. «Tutto è verità. Tutto è attesa della verità». «Il domani, cosa è il domani, Anna? Una volta ti avevo chiesto quanto dura il domani». Ma non esiste domani per Alexandros. Perché il domani dura «un'eternità e un giorno».

Ivo Flavio Abela

Nota. La colonna sonora del film è di Eleni Karaindrou. Ma lungo lo svolgersi del film si dipanano motivi musicali notissimi a chi conosce la musica e la poesia greche contemporanee. Due in particolare - entrambi su musiche di Mikis Theodorakis - vanno qui ricordati: i versi del primo appartengono a «Άσμα ασμάτων» (qui interpretato da Maria Farantouri: https://www.youtube.com/watch?v=K9oXXboppqk), tratto dalla «Tριλογία για Μαουτχάουζεν» di Iakovos Kampanellis (poeta greco che subì l'orrore dei campi di concentramento), i versi del secondo appartengono invece a «Της αγάπης αίματα» (qui cantato da Yannis Kotsiras: https://www.youtube.com/watch?v=KQA9FdhIQSI), tratto da «Αξιον Εστί» di Odysseas Elytis. I testi e le traduzioni sono facilmente reperibili in rete. Questo è invece il link al tema principale della colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=jdP7yYNt90U.



mercoledì 5 febbraio 2014

Iside, Demetra o semplicemente Agata?

Foto da me scattata il 4 febbraio 2011
A Catania la grande festa barocca di Sant'Agata ricalca un cerimoniale che affonda le sue radici nel periodo compreso fra il '500 e il '600, ma che a sua volta accoglie ancestrali suggestioni.

Il 4 febbraio si svolge il cosiddetto giro esterno, il cui percorso ricalca il circuito delle mura che delimitavano la Catania medievale. Il momento topico è costituito dalla famosa acchianata de' Cappuccini (in genere fra le 17:00 e le 18:00). Un tempo la si faceva di corsa: i devoti affastellati nel reggere i due cordoni di circa 110 metri ciascuno, cui è legato il pesantissimo fercolo, andavano appunto di corsa. Dopo l'ultimo morto, qualche anno fa, si vietò la corsa e i devoti salgono da allora ad andatura normale. In genere il rientro in Duomo avviene intorno alle 5:00 del mattino del 5 febbraio.

Ancora il 5 febbraio si svolge quindi, a partire dalle 17:30, il cosiddetto giro interno lungo l'arteria di via Etnea fino a piazza Borgo. Il percorso ricalca la prima espansione urbanistica in seno alla ricostruzione promossa dopo due eventi disastrosi: 1) la colava lavica del 1669. Originatasi dai monti Rossi, essa avrebbe separato il Castello Ursino dal mare, mentre un altro braccio avrebbe attraversato l'area dell'odierno corso Italia per gettarsi in mare ad Ognina; 2) il sisma del 1693 che avrebbe lasciato in piedi le absidi della ecclesia munita, cioè del Duomo normanno.

I devoti col sacco tradizionale e i pesantissimi ceri
in genere portati su una spalla
(qui posati sul piano di calpestio durante una pausa)
Rimarrebbe tanto da dire circa i problemi topografici relativi ai rapporti (non solo in ambito propriamente archeologico, ma anche antropologico-religioso) fra l'Anfiteatro romano di piazza Stesicoro, la Chiesa di San'Agata alla Fornace (nota anche come Chiesa di San Biagio), la Chiesa di Sant'Agata al Carcere, la Chiesa di Sant'Agata La Vetere con annesse valutazioni sul sarcofago in essa contenuto, tutte considerazioni che porterebbero il discorso a sconfinare verso la Chiesa di San Gaetano alle Grotte e da lì, a causa dell'acqua nel sotterraneo, verso l'Amenano e via Vittorio Emanuele col Teatro greco. E ancora verso la fonte di Gammazita con la sua stratigrafia. Senonché - parlando della Chiesa di Sant'Agata al Carcere - sarebbe necessario poi aprire una parentesi sul portale che era quello dell'antico Duomo crollato nel 1693. Non si finirebbe più. Meglio dunque fermarsi.

Il busto-reliquiario di Sant'Agata, opera dell'orafo senese Giovanni Di Bartolo, fu a lui commissionato nel 1373 dal vescovo di Catania, un benedettino originario di Limoges, dove lo stesso Di Bartolo lavorava. Fu completato nel 1376 e lavorato in argento con incarnato in smalto e capelli in oro. La calotta contiene ovviamente il cranio (a quanto pare avvolto in una sorta di fazzoletto bianco chiuso mediante un nastro rosso). Sul busto fu posta una rete - anch'essa d'argento e a trama fitta - alla quale sono attualmente appesi più di trecento oggetti preziosi donati nel corso dei secoli. Risaltano la massiccia collana quattrocentesca offerta dal viceré Ferdinando Acugna (attualmente sepolto in Duomo nella cappella di Sant'Agata), la croce di Cavaliere della Legion D'Onore di Vincenzo Bellini (donata da alcuni familiari del cigno catanese al rientro a Catania delle sue spoglie, poi sepolte all'interno del duomo fra la navata centrale e quella di destra), la croce di papa Leone XIII, un anello donato da Gregorio Magno, un anello donato nel 1881 dalla regina d'Italia Margherita di Savoia. Sul capo fu posta la corona del peso di milletrecentosettanta grammi, tempestata di pietre preziose, che Riccardo I d'Inghilterra Cuor di Leone aveva offerto alla Santa nel 1190 (quando peraltro il busto non esisteva ancora), trovandosi in Sicilia mentre si recava in Terrasanta per la Terza Crociata.

Si è spesso parlato di una presunta conversione cristiana del culto di Iside (di cui esistono attestazioni nella Catania antica), il cui prodotto sarebbe proprio il culto di Agata con annessi e connessi (processione, fercolo, cordoni, sacco). Si è tanto parlato anche della possibilità di "rivivere" la festa di Sant'Agata in opere come «L'asino d'oro» di Apuleio. E con tutto il rispetto per chi la pensa così, mi limiterei a dire quanto segue.

Un momento della famigerata salita dei Cappuccini
Considerando che l'opera di Apuleio è del II secolo e la vicenda del presunto martirio di Sant'Agata si
collocherebbe alla metà del III, forse sarebbe meglio dire che potremmo rivivere la processione di Iside nella festa di Sant'Agata (invertendo i termini. E quelli cronologici sono sempre ineludibili). Ma nell'opera di Apuleio non c'è traccia alcuna (per ovvie ragioni) di quello che si configurerebbe come il cerimoniale cinquecentesco codificato da don Alvaro Paternò Castello (che ha peculiarità assolutamente rinascimentali e in seno al quale - per fare solo un esempio - non veniva usato neanche l'odierno sacco, ma i devoti andavano nudi con solo un drappo bianco che ne copriva le pudenda. Il sacco sarebbe stato usato posteriormente per puri motivi pratici - il rigore delle temperature invernali - e di decenza. Se poi sacerdoti e sacerdotesse di Iside usavano un abbigliamento simile, perché non potrebbe trattarsi di una coincidenza?). Nell'opera di Apuleio non esiste traccia dell'esasperato barocchismo ispaneggiante (e non certo egizio) della festa di Sant'Agata, né ancora di quell'atmosfera carnascialesca ben indicata da Verga ne «La coda del diavolo» (secondo l'autore a Catania la Quaresima veniva senza il Carnevale, ma in compenso la festa di Sant'Agata era «un gran veglione di cui la città era teatro»). Peraltro la vara (il fercolo) è pure cinquecentesca (il suo creatore, Archifel, lavorò a Catania dal 1486 al 1533 e il fercolo fu portato in processione per la prima volta nel 1519), ma nasceva da un'esigenza di pura pompa e da quella (più pratica) di portare "sistemicamente" in processione il busto-reliquiario (garantendone sempre e comunque l'incolumità: meglio fissarlo su un piano che farlo traballare sulle spalle dei devoti) e le altre reliquie. Su un dato concorderei tuttavia: l'ipotesi in base alla quale i devoti che trascinano i cordoni del fercolo costituiscono un'eco di quanto facevano in antico gli alatori mi sembra molto verosimile.

Il rientro in Duomo
intorno alle 5:00 del mattino del 5 febbraio 2013
Né è detto che sia più convincente pensare a una «conversione cristiana» di un culto preesistente, semmai potrebbe darsi che il culto cristiano abbia utilizzato schemi cultuali e liturgici che erano ormai diventati parte integrante della tradizione culturale locale. In altri termini alle forme del culto di Iside si sarebbero ispirati i catanesi per celebrare un personaggio che però non era Iside, un po' come le basiliche paleocristiane usarono la pianta di quelle romane e di certi edifici termali romani. Ciò non significa che nelle basiliche paleocristiane si facesse il bagno o la sauna o che vi prendesse vita il negotium.

Esisterebbe del resto un'altra ipotesi. È vero che il Cinquecento è il secolo dell'egittomania. Ma è anche il secolo in cui si concretizza l'attenzione globale verso il passato riaccesasi nell'Umanesimo, e in cui nascono le prime grandi collezioni d'arte anche e soprattutto classica (greco-romana). Il culto di Sant'Agata potrebbe dunque ispirarsi anche a quello (tutto greco) di Demetra, alla quale era stato verosimilmente eretto un santuario situato presso l'odierna piazza San Francesco, se è vero che alla metà del secolo scorso fu rinvenuta una corposa e nutrita stipe votiva proprio laddove oggi vediamo la statua del beato Dusmet, segno che il culto di Demetra era molto praticato in città.

Ivo Flavio Abela


Foto da me scattata il 4 febbraio 2011