domenica 15 novembre 2015

«Sublime e voli d’aquila nella poesia in lingua neogreca: Solomòs ed Elytis»

«Mi basta leggere espressioni come
“isola greca”, “ouzo”, “monastero”, “muricciolo di pietra viva”
per sentirmi immerso in un contesto “alla Elytis”,
fatto di scorci greci e ortodossi.
È come avvertire un richiamo ancestrale che mi fa dire – ancora una volta – che
nacqui per errore nella realtà in cui crebbi e in cui vivo.
E che apparterrò sempre a una realtà fatta di Grecia,
di poesia in lingua greca,
di calce bianchissima,
di accordi ricavati pizzicando il bouzouki e il baglamas,
di infinite distese marine il cui azzurro – talora tendente all’indaco – si confonde con il cielo,
di strapiombi da capogiro sui quali ci si affaccia
sporgendosi oltre le ringhiere di precari ballatoi sostenuti da travi di legno,
alle cui spalle – nei vani profumati d’incenso, di lavanda, di erba luisa – campeggiano icone.
Da quelle icone promanano occhi e sguardi ieratici, severi, teneri,
in una fissità espressiva
che non è assenza di vita,
semmai presenza tangibile di un Archetipo»

Ivo Flavio Abela


«Sublime e voli d’aquila nella poesia in lingua neogreca:
Solomòs ed Elytis»
(testo che ricalca una mia conferenza tenuta nel novembre 2014)


Dionysios Solomòs nasce a Zante nel 1798, esattamente vent’anni dopo che vi è nato Ugo Foscolo. Come tutti i rampolli delle buone famiglie di Zacinto, viene inviato dai suoi genitori in Italia, dove vive dal 1809 al 1818, dividendosi fra Cremona, Pavia e Venezia. Respira dunque quella stessa atmosfera poetica di cui Foscolo è diventato intanto un simbolo vivente e prova a poetare in italiano: un italiano straordinariamente letterario, che fa incolpevolmente il verso alle composizioni partorite in seno al neoclassicismo. Basti leggere questo passo in cui Solomòs dimostra non solo di avere fatto propri gli stilemi della moda poetica italiana dell’epoca, ma anche di riscoprirsi entusiasta dell’Italia stessa: «È forse un inganno? No, non può essere un inganno; qui l’inanimata rupe, qui l’insensata gleba son buone; questa è l’Italia. Oh, sei tu la maestra delle nazioni, la madre dell’ospitalità, ove ognuno dopo un’ora trova patria sua, dove il barbaro s’innalza a sospettare gli Dei, dove da mille fonti scorre la vita a dissetare tutti gli spiriti. Tu non puoi essere che l’Italia. Se mai il mio spirito producesse un fioretto, gli fu padre il tuo sole; deh, potesse il mio spirito maturarsi a ricostruire con verità grande la tua grandezza».

Si legga poi, del suo sonetto dedicato all’isola di Zacinto, almeno la seconda terzina (tenendo presente il celeberrimo sonetto dedicato alla stessa isola da Ugo Foscolo): «Elato surse alfin, che dall’altura / L’occhio scorrendo pel campestre ammanto / Possa veder quanto può far natura».

Risulta chiaro quanto Solomòs abbia assorbito gli stilemi del neoclassicismo, compresa una certa affettazione che viene (spesso) sensibilmente portata alle estreme conseguenze nei discepoli che hanno imparato fin troppo bene la lezione dei propri maestri. E che talvolta giunge al caricaturale, rischio che Solomòs corre in più d’un’occasione, quando scrive poesie in italiano, ma che riesce spesso ad evitare, complici quella sua ancora inconsapevole resistenza, quel richiamo alle proprie origini greche, che non gli consentono di essere un italiano tout court. Leggiamo, in quanto fortemente emblematica, la sua traduzione in greco moderno della prima stanza di «Chiare, fresche e dolci acque» di Francesco Petrarca:


Si noterà che il poeta greco sostituisce innanzitutto all’alternanza endecasillabo-settenario (tipica di buona parte della poesia italiana e percepita come assolutamente normale e ordinaria dall’orecchio italiano stesso) quella fra il settenario sdrucciolo e il settenario piano. Non gli interessa, cioè, riprodurre in greco fin nel metro il testo petrarchesco, perché egli sa che riportare in greco l’alternanza endecasillabo-settenario costituirebbe comunque una forzatura: l’orecchio greco non percepirebbe tale alternanza come naturale, semplicemente perché essa non è tipica della poesia greca – nonostante il fatto che occasionalmente essa sia comunque stata usata, per esempio, in certe composizioni cipriote del XVI secolo. Tale alternanza è diffusa nella poesia greca in quanto altro non è se non il risultato della distribuzione in due versi distinti dei due emistichi in cui può essere diviso un decapentasillabo (corrispondente all'alessandrino), metro diffuso nella tradizione poetica greca stessa. Ogni due distici ciascuno formato da un settenario sdrucciolo e da un settenario piano, egli inserisce un distico il cui primo verso è comunque il settenario sdrucciolo, ma il secondo un settenario tronco (ne parla l’ottimo Nasos Vaghènas, poeta e critico greco, in un suo saggio contenuto nel volume «Del tradurre. Dal greco moderno in altre lingue», edito da Rubbettino nel 2003).

Inoltre, alla strofa di tredici versi dell’originale testo petrarchesco Solomòs sostituisce una doppia strofa di otto versi, sentita dall’orecchio greco come genuinamente propria. Tutti gli elementi del testo petrarchesco originale risultano, dunque, ricreati secondo leggi espressamente greche: il risultato è un testo poetico che sembra essere stato concepito e scritto direttamente in greco moderno e che è completamente autonomo rispetto all’originale di Petrarca (sebbene l’architettonica bellezza del testo italiano esca svilita dalla sua trasposizione nel banale ritmo da filastrocca del settenario). Peraltro può sorprendere noi italiani questa curiosa connessione fra la poesia in greco moderno e la poesia italiana. E può sorprenderci ancora di più scoprire che la prima si rigenera anche reagendo alla seconda e distaccandosene.

Nel 1818 Solomòs torna in Grecia, complici la difficoltà insita nel non riuscire ad essere un italiano integrale e il desiderio di trovarsi a fianco dei suoi compatrioti greci che stanno conducendo una strenua resistenza contro gli ottomani. Senonché, tornato a vivere fra le genti di Grecia, gli si pone immediatamente un dilemma: come impadronirsi nuovamente dell’idioma greco a scopo innanzitutto comunicativo, poi strettamente poetico?

In Grecia è fortemente sentita, in questo periodo, la questione della lingua: la querelle fra i sostenitori della δημοτική, cioè la lingua popolare (demotica, appunto), che diventerà lingua ufficiale della Grecia solo nel 1976, e quelli della καθαρεύσα (la lingua pura che il popolo conosce poco e male: quella, cioè, elaborata in modo – a dire il vero – alquanto artificiale. Essa tiene conto di una certa ricercatezza formale, la quale a sua volta affonda le proprie radici anche nella lingua greca classica). Solomòs (pur classicista, pur formatosi fra le raffinatezze della colta tradizione linguistico-letteraria dell’Italia, forse proprio a causa delle difficoltà vissute prima mentre cerca di realizzare la propria integrazione da greco nel contesto italiano, poi mentre cerca di mimetizzarsi da italiano nel contesto greco) opta senz’altro per la lingua popolare, come del resto si ricava dal suo «Dialogo sulla lingua serrata»: il confronto fra un pedante che difende la lingua pura e – guarda caso – un poeta che difende quella popolare.

Il ruolo attivo di Solomòs nell’affermazione della lingua popolare permea di sé i secoli successivi e l’arte in genere, compresa quella cinematografica. E alla cinematografia possiamo volgere lo sguardo perché proprio un prodotto cinematografico ci consente di comprendere pienamente la grande rivoluzione linguistico-poetica di cui Solomòs è artefice.

Nel 1988 viene premiato con la Palma d’Oro a Cannes il film «L’eternità e un giorno» («Μια αιωνιότητα και μια μέρα») del regista greco Theodòros Anghelòpoulos (anche noto, più semplicemente, come Theo Anghelòpoulos), purtroppo deceduto a causa di un banale incidente: fu fatalmente investito da un motociclista, mentre attraversava la strada, la sera del 24 gennaio 2012 e non sopravvisse se non per qualche ora. Aveva quasi settantasette anni. Morì con il rammarico di non avere ricevuto un premio grande, significativo, davvero prestigioso, che lo ripagasse non solo di una carriera registica intensa e faticosa, ma anche di tante (troppe) critiche negative ricevute. La sceneggiatura del film era stata scritta insieme al nostro Tonino Guerra (che lavorò tantissimo anche al fianco di quello che, secondo il mio punto di vista, è uno dei più grandi registi russi che il cinema abbia avuto, cioè Andrej Tarkovskij) e al greco Petros Markaris (ho già affrontato una trattazione molto dettagliata del film qui http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2014/08/il-tempo-e-un-bambino-che-gioca-ai.html).

Il film narra la giornata che precede il ricovero del protagonista, lo scrittore Alexandros. Il ricovero si rende necessario a causa di un cancro. Durante quest’ultimo giorno da essere umano ancora nel pieno delle proprie forze fisiche, Alexandros incontra casualmente un bambino albanese che gli si affeziona e che Alexandros aiuta, proteggendolo da alcuni individui di malaffare (peraltro trafficanti di bambini). Alexandros soffre a causa della sua malattia (i dolori fisici, verosimilmente legati alle metastasi ormai diffuse, aumentano), ma è anche deluso da se stesso: s’era messo in testa di completare la terza versione di un poema, rimasto incompiuto, proprio di Solomòs, cioè «Οι ελεύθεροι πολιορκημένοι» («I liberi assediati»). Solomòs vi aveva provato a narrare l’eroica resistenza dei cittadini di Missolungi (Μεσολόγγι in greco, paese situato in Grecia occidentale, attualmente nell’unità periferica dell’Etolia-Acarnania) contro gli occupanti turchi (peraltro a Missolungi, nel 1824, sarebbe morto lord Byron). Alexandros non è riuscito a completarlo in quanto, afferma egli stesso, gli sono mancate le parole.

Il tema della ricerca delle parole (senza le parole è impossibile comunicare, è impossibile dare forma all’indistinto pensabile, è impossibile creare realtà) prosegue nel film con una scena in cui Alexandros narra al piccolo albanese che, quando Solomòs decise di tornare a Zacinto dall’Italia (avendo saputo che i suoi compatrioti s’erano ribellati agli ottomani e volendo dunque offrire il proprio contributo), escogitò uno stratagemma con lo scopo di riappropriarsi della conoscenza della propria lingua d’origine: iniziò a comprare parole dai contadini e dai pescatori. Ogni parola che gli veniva venduta egli appuntava meticolosamente. E così il suo vocabolario personale si dilatava. Lo stratagemma è in verità, come lo stesso Anghelopoulos dichiara in un’intervista, pura invenzione del regista. Ma è invenzione quanto mai opportuna e fedele al senso dei fatti (peraltro costituisce un modo efficace per aiutare un bambino a comprendere un tema non proprio adatto alla sua età). In questa compravendita di parole è insito appunto il problema della ricerca di una lingua greca di comunicazione che però sia anche una lingua poetica.

Nel film Alexandros continua – appropriandosene e dunque mettendolo in atto personalmente – il gioco dell’acquisto delle parole, proponendo al piccolo albanese di andare in giro, carpire alla gente qualche parola che gli sembri interessante, tornare da lui e vendergliela. Il bambino venderà ad Alexandros tre espressioni: κορφούλα μου, ξενίτης, αργαδινή. Esse indicano rispettivamente un “moto” di tenerezza insito nel rapporto madre-figlio, il sentirsi straniero ovunque, infine letteralmente il significato “molto tardi nella notte”. A ben vedere, le tre espressioni costituiscono un sunto della parabola individual-esistenziale di Alexandros, quasi a significare che se Alexandros non ha avuto a disposizione le parole per concludere il testo di Solomòs, ha almeno trovato quelle per individuare gli elementi salienti della propria vita, segno che la lingua serve anche (e in ciò si rivela ancora di più la sua onniformativa forza creatrice) ad esprimere l’inesprimibile, ovvero ciò che di confuso, impalpabile, immateriale, fisiologicamente indefinibile, risiede all’interno dell’essere umano.

Peraltro Anghelopoulos, con un’ardita trovata visionaria, fa anacronisticamente apparire Solomòs nel suo film (lo interpreta l’italiano Fabrizio Bentivoglio) almeno tre volte: l’ultima addirittura su un autobus che, smessa la sua funzione prosaica di ordinario veicolo per il quotidiano trasporto urbano, diventa (poeticamente) teatro di spaccati di vita (non provo neanche a esprimervi il perché. Preferisco rimandarvi senz’altro alla fruizione del film). Su quell’autobus Solomòs recita, rivolgendosi ad Alexandros, i seguenti propri versi:



«Καθαρώτατον ἥλιο ἐπρομηνοῦσε
τῆς αὐγῆς τὸ δροσᾶτο ἀστέρι,
σύγνεφο, καταχνιά, δὲν ἀπενοῦσε
τ᾿ οὐρανοῦ σὲ κανένα ἀπὸ τὰ μέρη·
καὶ ἀπὸ ‘κεῖ κινημένο ἀργοφυσοῦσε
τόσο γλυκὸ στὸ πρόσωπο τ᾿ ἀέρι,
ποὺ λὲς καὶ λέει μὲς τῆς καρδιᾶς τὰ φύλλα·
“γλυκειὰ ἡ ζωή κι᾿... γλυχιά η ζωή...”»

«L’ultima bolla di rugiada all’alba
Annunciava un sole limpido.
Non c’era nuvola o bruma
Nell’orizzonte perduto nel cielo.
Venuto da lontano, il vento leggero
Soffiava lentamente sul volto.
Nel profondo del cuore sussurrava:
“Dolce è la vita e... dolce è la vita...”» (traduzione di Paola Maria Minucci)

I versi sono tratti dal poema di Solomòs «Ο Λάμπρος», iniziato nel 1826 e, caratteristica quasi distintiva dei poemi di Solomòs, pure rimasto incompiuto. Sono pronunciati dal protagonista, Lambros per l’appunto, mentre confessa alla giovane Maria, donna dalla quale ha avuto quattro figli, di essersi trovato coinvolto in un rapporto incestuoso con una figlia che morirà suicida (il poema si sarebbe concluso in modo ovviamente tragico anche per il protagonista: punito severamente dal giudizio di Dio). E sembra quasi irreale il fatto che tali versi, in cui si profila una natura che si avvia ad assumere un respiro fra l’edenico e il lucreziano, vengano pronunciati nel corso della confessione di un atto talmente torbido. Peraltro la confessione avviene il giorno di Pasqua, cioè nel momento in cui la natura torna a risorgere anche attraverso il ricordo rituale della resurrezione di Cristo. Ecco ciò di cui la lingua greca è capace: avvicinare gli opposti, fare in modo che essi si attraggano, sostanziare gli ossimori. Comprendiamo maggiormente allora la ragione per cui Solomòs abbia voluto impadronirsi nuovamente della sua lingua d’origine: essa ha il marchio della perfezione come non lo possiede alcun’altra lingua (si badi comunque al fatto che l’ultimo verso suona in realtà così: «“γλυκειὰ ἡ ζωή κι᾿ ο Θάνατος Μαυρίλα!”», cioè «Dolce è la vita e la morte è oscurità» – letteralmente "nerezza" – ma evidentemente Anghelopoulos ha voluto operare una modifica, insistendo sul tema della vita ad onta della malattia mortale da cui è affetto Alexandros).

Seferis nel 1921
Per quanto non se ne mostri sempre soddisfatto, Solomòs è comunque felice della sua pur imperfetta conquista linguistica. Ce lo racconta anche Ghiorgos Sefèris, altro grande poeta greco del ‘900, il quale – nel corso della Lezione da lui tenuta quando riceve il Premio Nobel, nel 1963 – narra un interessante aneddoto: «Una sera, all’inizio del secolo scorso, in una strada sull’isola di Zante, Dionysios Solomòs sentì un vecchio mendicante sulla porta di una taverna che recitava una popolare ballata sull’incendio del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Tendendo la sua mano, il mendicante disse: “Il Santo Sepolcro di Cristo non bruciava; dove splende la luce santa nessun altro fuoco può bruciare”. Si disse che Solomòs fosse preso da tale entusiasmo che entrò nella taverna e offrì da bere a tutti i presenti. Questo aneddoto è significativo per me: l’ho sempre considerato come un simbolo del dono della poesia che la nostra gente ha lasciato nelle mani di un principe dello spirito, proprio in un momento in cui inizia la risurrezione della Grecia moderna».

Dall’aneddoto emergono due elementi importantissimi: il sublime, che in esso assume la forma della luce divina, e l’ἐνϑουσιασμός (uso volutamente la parola greca antica), cioè la gioia dionisiaca che costituisce uno degli elementi di continuità che lega la Grecia antica a quella moderna. Tale gioia dionisiaca è un elemento identitario innato e connaturato al popolo greco da più di duemilacinquecento anni ad oggi, e del quale individuo i due estremi cronologici, quello più antico e quello più moderno, rispettivamente nella tragedia greca (che nasce come rito in onore di Dioniso) e nella danza liberatoria cui Zorba e il suo giovane amico si danno alla conclusione del celeberrimo romanzo di Nikos Kazantzakis «Zorba il greco» (e che del resto tutti ricordiamo soprattutto grazie alle immagini finali dell’omonimo film di Michàlis Kakoyannis). Fra questi due estremi si può collocare un’ampia fioritura poetica, ancora relativa al dionisiaco, in età bizantina (dionisiaco ovviamente privato, nella poesia degli omileti, di ogni caratteristica terrena, carnale e orgiastica, e ridotto al pure senso del divino. Si leggano le omelie in versi di Romano il Melode).

Ma torniamo per un ultimo momento al film di Anghelopoulos. La ragione che mi ha spinto a parlarne dovrebbe adesso risultare anche più trasparente: Anghelopoulos (meglio di chiunque altro) ci spiega in modo icastico il senso della vita, della ricerca linguistica, della poesia di Solomòs. Ci illustra efficacemente come e perché Solomòs sia reputato il rifondatore della poesia greca o – il che è lo stesso – il fondatore della poesia in lingua neogreca. Non va infine dimenticato che proprio Solomòs è l’autore del testo, musicato da Nikolàos Mantzaros, di quello che dal 1865 è l’Inno Nazionale Greco.

Odysseas Elytis
(foto di Henri Cartier-Bresson, 1961)
Elytis torna ad affrontare il problema della ricerca poetico-linguistica che è stato anche di Solomòs e riesce – a me pare – a risolverlo in nome della definitiva affermazione di quel sublime che abbiamo visto manifestarsi per un istante nell’aneddoto narrato da Sefèris a proposito di Solomòs. Ma Elytis fa di più: compie un vero miracolo. Cerchiamo di capire perché.

Elytis con Ingemar Redin
in via Skoufà n. 23 ad Atene
Odysseas Elytis (nome d’arte di Odysseas Alepoudelis) nasce a Candia il 2 novembre 1911 e muore il 18 marzo 1996 ad Atene, città nella quale vive ormai fin da giovanissimo (vi ha peraltro intrapreso gli studi di Giurisprudenza, prima di votarsi completamente alla poesia), al numero 23 di via Skoufà (luogo magico per chi, come Ingemar Redin, il suo traduttore in svedese, ma anche amico fraterno, va spesso a fargli visita e ne approfitta per registrare ore e ore di nastro magnetico, durante lo scorrere delle quali la voce densa, decisa, quasi granitica dello stesso Elytis risponde a tante domande: sulla musica, sulla tradizione poetica greca, sulla lingua greca, sulla poesia come ipostasi). Trascorre una giovinezza agiata: il padre è proprietario di un’azienda in cui si lavorano saponi e vernici (già impiantata a Candia, viene trasferita ben presto ad Atene e solo nel 1976 sarà letteralmente svenduta) e registra un fatturato piuttosto alto. Odysseas vive da signore e ha anche la possibilità di viaggiare in auto per tutta la Grecia. Votandosi alla poesia, aderisce al Surrealismo. Inizia a seguirne gli intenti e lo stile. Compie un viaggio in Europa per entrare in contatto diretto con quelli che reputa i propri maestri, ma se ne ritrae presto insoddisfatto: sebbene nel Surrealismo non venga negata la santità dei sensi, non viene però definito con sufficiente determinazione il ruolo del poeta, al quale Elytis inizia già a pensare come a una sorta di banditore (poi di creatore, come vedremo). Nel suo celeberrimo e monumentale poema «Axion estì» (che sarà parzialmente musicato da Mikis Theodorakis su richiesta dello stesso autore) Elytis afferma: «Η ψυχή μου ζητούσε Σημάτωρο καί Κήρυκα», cioè «La mia anima reclamava un Annunciatore e un Araldo». Il Surrealismo non ne annuncia alcuno. Inoltre il poeta ritorna in Grecia quasi sdegnato dagli eccessi di Rinascimento, di Illuminismo, di materialismo, anche di razionalismo, di cui il modo di pensare, di sentire, di ragionare degli “occidentali” è permeato (è un greco: il greco non può amare la terza dimensione e gli eccessi di ragione. Ne riparlerò più avanti).

Nel 1979 riceve il Premio Nobel dalle mani di re Carlo XVI Gustavo di Svezia. In tale occasione, pronunciando il suo Discorso di ringraziamento presso l’Accademia di Stoccolma, non solo dice che Dionysios Solomòs e Konstatinos Kavafis sono i due poli attorno ai quali ruota la poesia in lingua neogreca, ma aggiunge (e chiedo scusa per la lunga citazione): «Mi è stato concesso, cari amici, di scrivere in una lingua parlata solo da qualche milione di persone. E purtuttavia una lingua che è parlata da duemilacinquecento anni senza interruzione e con differenze minime. Questo scarto spazio-temporale, in apparenza sorprendente, trova il suo corrispettivo nelle dimensioni culturali del mio paese. Che è ridotto nella sua area spaziale, ma infinito per estensione temporale. Non lo ricordo certo per inorgoglirmi, ma per mostrare le difficoltà che affronta un poeta quando, per nominare le cose che più ama, deve ricorrere alle stesse parole usate da Saffo o da Pindaro per esempio, senza tuttavia avere la loro fama, riconosciuta da tutta l’umanità civilizzata. Se la lingua fosse semplicemente un mezzo di comunicazione, non vi sarebbe alcun problema. Ma talora accade che essa sia anche uno strumento di “magia” carico di valori morali. Ancora di più, nel lungo corso dei secoli, la lingua ha fatto proprio un certo modo di essere altamente morale. E questo modo di essere crea degli obblighi. Non va dimenticato che nei suoi venticinque secoli non ce n’è stato neppure uno, neppure uno lo ripeto, in cui non si sia scritto poesia in greco. Ecco qual è il grande peso della tradizione che questo strumento solleva. La poesia greca moderna ne offre un’immagine oltremodo incisiva».

Elias Moskos
«L'Arcangelo Michele»
Museo Bizantino di Atene
XVII secolo
Elytis cita dunque una caratteristica fondamentale della poesia greca stricto sensu (valida però anche per la poesia in generale): la poesia – e chiedo venia per la frequenza con cui sto ripetendo la parola – è uno strumento magico. In tal senso essa permette a chi se ne serve di creare nuove forme di realtà. E fin qui nessuna novità, se consideriamo anche l’accezione etimologica della parola. La novità risiede nel fatto che le nuove immagini che il poeta è in grado di creare finiscono, nella poesia di Elytis, per diventare archetipiche. Si consideri il seguente passo: «Con gli occhi abbagliati dal sole meridiano di luglio, con le infinite spade di luce nelle onde, avrei inventato gli oliveti, anche se non fossero esistiti, come le cicale. Più o meno così, credo, deve essere stato creato il mondo in altri tempi; e se non è migliore, la colpa è della paura dell’uomo a guardarsi ed accettarsi così come è, prima di parlare. Io parlo. Voglio scendere gli scalini, cadere in questa rigogliosa fiamma e poi ascendere come angelo del Signore».

Il poeta è dunque colui che può creare tutto ciò che ancora non esiste – e pure fin qui nessuna novità – come (ed ecco l’elemento nuovo) fece presumibilmente il Signore. È esattamente questo il momento in cui l’Assoluto, in cui è implicito il sublime, grazie ad Elytis elegge la Poesia a propria dimora (nota per chi leggesse la presente relazione: per conto mio, nel presente testo, d’ora in avanti scriverò con l’iniziale maiuscola le parole ‘Poesia’ e ‘Poeta’ per sottolinearne il carattere solenne e ieratico. Anzi decisamente sacro). Il Poeta non deve fare altro che pensare «a una cosa per vederla incisa sulla pietra a lettere maiuscole».

Pantokràtor
Chiesa della Dormizione
Dafni (Grecia)
XI secolo
L’Assoluto non è solo il Signore (il Dio dei cristiani – nello specifico – di fede ortodossa, considerato il fatto che Elytis si riferisce in genere a tutto un armamentario iconico-simbolico che è appunto quello tipico della Chiesa d’Oriente): «All’epoca in cui conobbi per la prima volta i mari antichi, la corona delle onde era fatta a mia misura. Camminavo e sentivo Poseidone che si arrabbiava e batteva il tridente»; «Oh, salute al mio angelo, disceso da qualche iconostasi, dio del vento e insieme Eros e Gorgona». Dio, Poseidone, Eros e Gorgona sono forme attraverso le quali l’uomo (in quanto “Poeta” in accezione etimologica) ha interpretato la divinità. Forse mai nessuno ha conferito alla parola ‘Poeta’ una dignità talmente elevata come fa Elytis: mai nessuno ha riconosciuto al Poeta, in modo altrettanto deciso, una funzione talmente demiurgica. Il Poeta è come «Il Gesù del sole. / Colui che sorge dopo ogni sabato / Lui che È, Era e Sarà» (versi che concludono la poesia «La pallida morte», tratta dalle «Elegie di Oxòpetra», in cui Elytis rende in modo umanamente sublime il disorientamento, il vuoto, la malinconia insorgenti in seguito alla morte di una persona cara: chi rimane non sa più parlare. Solo il Poeta sa farlo).

Κροκοσυλλέκτρια
στο Ακρωτήρι της Θήρας
1650 π.Χ.

Μουσείο Προϊστορικής Θήρας
Elytis è del resto un grande visionario. E la sua visionarietà gli consente di accostare immagini fra loro anche antitetiche (come già lo stesso Solomòs aveva fatto: si riconsideri quanto sopra detto sui versi pronunciati da Lambros). E di accostarle neutralizzandone le differenze: rendendo, cioè, quelle immagini coincidenti dopo averle rese archetipiche. Ne abbiamo subito un esempio: «Vengo da lontano. Le raccoglitrici di croco di Santorino mi camminano accanto e, vicino, spinte dal vento del Nord, le Pie Donne con la mirra, belle in mezzo alle loro rose e al riflesso dorato degli angeli». Quella delle raccoglitrici di croco è un’immagine antichissima e popolare, ma anche eroticamente significativa. Ma esse finiscono per essere sovrapponibili alle pie donne che si recano al sepolcro di Cristo, portando la mirra, e delle quali Elytis evidenzia la bellezza: quella stessa bellezza carnale – e non certo pia – di cui sono dotate anche le raccoglitrici. Le une e le altre assumono allora la stessa funzione: diventano accompagnatrici del Poeta, ambasciatrici dell’Assoluto, archetipi.

«Mirofore» di Novgorod
Rendere archetipiche le immagini risulta possibile soprattutto a colui che fa Poesia in lingua greca. Elytis ci spiega infatti che la lingua greca è estremamente nitida: ogni parola greca, cioè, definisce in modo inequivocabile l’oggetto cui essa si riferisce. Nella lingua greca – dice Elytis – non esiste e non è mai esistito chiaroscuro. E tale è la ragione per cui il popolo greco – continua Elytis – non è mai riuscito ad accettare del tutto il Rinascimento (di cui la Grecia ha notizia, ma che vive solo parzialmente), cioè il movimento che porta alla definitiva affermazione della prospettiva e della terza dimensione. Elytis celebra il nitore, la perfezione, l’infallibilità di ogni segno alfabetico greco (tanto nella sua resa grafico-visiva, quanto in quella fonico-acustica): qualità dovute appunto all’assenza del chiaroscuro e della terza dimensione. Tale riflessione riceve del resto conferma dall’ambito dell’iconografia ortodossa: dalle icone bizantine risulta bandito, fin dalle epoche più antiche, ogni elemento di tridimensionalità a favore di una bidimensionalità immateriale in cui s’incarna il divino (che è naturaliter sublime), come ben ci ha spiegato Pavel Evdokimov (e con lui Pavel Florenskij ed Egon Sendler).

Il Poeta allora, stando ad Elytis, può (anzi deve) spezzare la sintassi: se ogni parola della lingua greca è talmente perfetta da rendere di per sé un’idea, non esiste allora alcuna necessità di dovere preoccuparsi del modo in cui le parole della lingua greca stessa si debbano connettere fra loro. La sintassi è la terza dimensione di un testo verbale. Ma ciò che è perfetto non ha bisogno di terza dimensione. E la lingua greca è perfetta. «È dovere del poeta rischiare movimenti dell’anima improvvisi e incontrollati, provocare, intervenendo nella sintassi, tempeste inaudite, dare al suo stile, alla sua lingua, quel sussulto tipico del corpo giovane, lo slancio dell’aquila verso l’alto»: rompere la sintassi, liberarsene e fare volare il proprio testo dotandolo dello stesso slancio dell’aquila (metafora che Elytis usa più d’una volta) diventano le strategie che il Poeta deve usare per carpire, per catturare l’Assoluto mediante la parola.

Concludo. Ad eccezione dei tre versi finali dell’elegia «La pallida morte», tutto ciò che ho citato di Elytis non è – volutamente – tratto dalle sue poesie, ma dai suoi saggi in prosa. Eppure credo che nessuno di noi possa negare la dignità di Poesia sublime ai brani di Elytis da me scelti: nella produzione di Elytis cade miracolosamente ogni barriera fra la Poesia e la prosa, al punto che l’una e l’altra si confondono e coincidono. Com’è possibile che ciò accada? La risposta non è difficile. Che Elytis usi la lingua neogreca rispettando il sistema poetico della versificazione o l’andamento piano della prosa, poco importa. Perché in Elytis la lingua stessa si fa miracolosamente Poesia.

Ivo Flavio Abela

Andrej Rublëv, «Ascensione», Galleria Tret’jakov, Mosca



sabato 4 luglio 2015

«Soli eravamo» di Fabrizio Coscia. Le infinite possibilità di un'opera aperta

La mattina dello scorso 15 giugno ho casualmente letto un articolo relativo a Luke, un bambino americano addolorato a causa della morte del proprio cane. L’articolo narrava che ogni giorno, per quasi due mesi, la mamma di Luke aveva scritto a nome del figlio una lettera da recapitare a Moe (questo il nome del beagle) presso la Nuvola 1 del Paradiso dei Cani. Inaspettatamente Luke aveva ricevuto una risposta da Moe. Il cane gli faceva sapere che stava bene: giocava tutto il giorno ed era felice di avere avuto un amico come Luke. Sembra che il redattore della risposta fosse stato un postino dal cuore tenero. Egli, attratto da una di quelle lettere a causa dell’assenza di affrancatura, avrebbe deciso di aprirla e di rispondere a nome del cane, aiutando Luke ad accettarne la perdita. Non avrei – credo – conservato memoria di un tale, alquanto futile articolo, se non mi fossi prima imbattuto in un aneddoto simile, deus ex machina del quale era una personalità stavolta illustre: una mattina Franz Kafka passeggiava con la propria giovane convivente, Dora Diamont, in un parco berlinese; incontrò una bambina che piangeva perché la sua bambola si era persa. Kafka le disse che non si era persa, ma s’era allontanata perché aveva deciso di vivere nuove esperienze. S’impegnò dunque a portarle una lettera al giorno, per circa una ventina di giorni, da parte della bambola: lettere che egli stesso avrebbe scritto perché «la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca». L’aneddoto kafkiano e la citazione sono tratti da «Soli eravamo», pubblicato recentemente da Fabrizio Coscia (scrittore, giornalista, insegnante).

Innanzitutto una riflessione (forse verbosa, ma per me necessaria). Le grandi narrazioni si sono esaurite. Siamo circondati da jaeggiani alfabeti di sabbia che vengono spacciati dai loro autori per romanzi (anzi per «storie». «Storia» – nell’accezione di ‘racconto’, ‘narrazione’, ‘intreccio’ – è diventata parola passe-partout. La usano tutti: pure i miei studenti. E mi arrabbio, facendo loro notare che i genericismi diventano stucchevoli quando esistono fior di non inutili tecnicismi nel linguaggio della narratologia e della critica): prodotti che nulla lasciano al lettore. Forse è il momento di tacere e di ritornare ai maestri: è il momento di rileggere il canone. Alcuni giorni fa pensavo che, se proprio si vuol scrivere, si potrebbero fare almeno dialogare fra loro gli immortali (ho sempre immaginato un romanzo epistolare del quale siano protagonisti impossibili Pavel Florenskij e Anton Čechov). O i personaggi creati dalla fantasia dei maestri (e non solo in ambito letterario): il Viandante sul Mare di Nebbia di Caspar David Friedrich con l’Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, Ifigenia (quella dell’exemplum lucreziano) con la Margherita di Bulgakov: qualcosa di molto simile a quanto realizzato da Italo Calvino allorché fece sì che il tolstojano principe Andrej Bolkonskij e il barone Cosimo Piovasco di Rondò s’incontrassero, ottenendo un effetto sublime (che Cosimo non fosse ancora entrato, per ovvie ragioni, nel gotha dei grandi personaggi di tutti i tempi importa poco). Ma forse Calvino era Calvino. E qualsiasi tentativo di ripetere l’esperimento potrebbe risultare fallimentare, se attuato dai modesti esseri umani nostri contemporanei (mi sono appena reso conto del fatto che la mia fantasia vira quasi sempre verso la Grande Madre Russia).

E a questo punto mi sento sostenuto anche da Odysseas Elytis: «Oh sì, mi sembra che la letteratura dei popoli indipendenti sia finita. Entriamo nell’era della paraletteratura delle province europee: qualcosa di leggibile, ma che non è esattamente lingua, qualcosa che riguarda il pensiero, ma che non lo tiene occupato, qualcosa ricco di fantasia, ma una fantasia pronta e confezionata come al cinema, che non ha bisogno cioè della nostra collaborazione. D’accordo. Ma, lo si voglia o meno, se nessuno chiede lamette, nessuno le fabbricherà» («Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del poeta», pp. 20-21). Ecco ciò che manca oggi alla letteratura: la qualità. E pure la capacità di coinvolgere il lettore. Forse – stando ancora a Elytis – latita il lettore stesso (ma su quest’ultimo punto non m’interessa soffermarmi).

«Soli eravamo» ha un pregio enorme: suscita movimenti incontrollabili nel lettore, ne alimenta l’immaginazione, crea uno spazio virtuale in cui la mente del fruitore è libera di muoversi e di respirare. L’apertura, la duttilità, il carattere di satura lanx (nell’accezione etimologica della formula) del libro di Coscia – saggio, narrazione, pamphlet, autobiografia – lascia il lettore libero di attribuire ad ogni pagina un significato legato alla propria esperienza. E costituisce un antidoto contro la mania di scrivere (pseudo)narrazioni – vuote, ripetitive, piatte, prive di fascino: in una parola, storie! – di cui oggi patiscono tanti sedicenti scrittori. Il procedere a sprazzi, per frammenti, il tessere e intrecciare più piani narrativi, nei quali aneddoti di cui sono protagonisti scrittori, pittori, musicisti, si fondono con episodi autobiografici, lo rendono originale, parlante, vivo, mercuriale: il lettore si trova, pagina dopo pagina, coinvolto ora in questo, ora in quell’altro groviglio di maglie della rete testuale. E così mi sto sentendo piacevolmente costretto a non scrivere una recensione tradizionale, ma un testo che non saprei neanch’io definire perché in fondo si limita a rendere ragione delle associazioni che in me «Soli eravamo» ha suscitato (e poi, a ben vedere, ogni recensione è comunque un atto ermeneutico, filtri e matrici del quale sono i retaggi di esperienze personali).

Monte Athos
Se, per esempio, guardo agli stivali di gomma di Virginia Woolf e alle cialde di Cesare Pavese, che rendono «imperfetti» i rispettivi «suicidi» e che evocano nell’autore pure il suicidio di un amico con cui s’è trovato in terra ellenica, mi sento proiettato in una dimensione geo-etica che mi è cara. Mi basta “vedere” infatti espressioni come «isola greca», «ouzo», «monastero», «muricciolo di pietra viva» per sentirmi immerso in un contesto “alla Elytis” (già citato del resto), fatto di scorci greci e ortodossi. È come avvertire un richiamo ancestrale che mi fa dire – ancora una volta – che nacqui per errore nella realtà in cui crebbi e in cui vivo. E che apparterrò sempre a una realtà fatta di Grecia, di poesia in lingua greca, di calce bianchissima, di accordi ricavati pizzicando il bouzouki e il baglamas, di infinite distese marine il cui azzurro – talora tendente all’indaco – si confonde con il cielo, di strapiombi da capogiro sui quali ci si affaccia sporgendosi oltre le ringhiere di precari ballatoi sostenuti da travi di legno, alle cui spalle – nei vani profumati d’incenso, di lavanda, di erba luisa – campeggiano icone. Da quelle icone promanano occhi e sguardi ieratici, severi, teneri, in una fissità espressiva che non è assenza di vita, semmai presenza tangibile di un Archetipo.


Franz Krüger
«Ritratto dello zar Alessandro I»
Se poi torno indietro con le pagine del libro di Fabrizio fin quasi all’incipit, mi fermo a Jàsnaja Poliàna. Il 28 ottobre 1910, dopo avere scritto una lettera alla moglie, il vecchio Lev Tolstoj l’abbandonò, salendo su un treno senza una destinazione razionalmente individuabile. Ma di colpo Fabrizio vola pindaricamente da Tolstoj ad Arthur Rimbaud che a vent’anni smise di scrivere e si trasferì in Africa. Quindi prosegue con Christopher McCandless che venne ritrovato morto in Alaska, all’interno di un vecchio autobus abbandonato: accanto al suo corpo un libro di Tolstoj. Già da questa sintesi relativa al primo capitolo il lettore, dopo avere superato un iniziale senso di straniamento, comprende che Fabrizio procede svevianamente per temi e proustianamente per associazioni indotte dalla memoria: nello specifico è la fuga il tema di queste pagine, tema del resto ricorrente più volte. Esso infatti torna con Robert Walser che dal 1932 al 1956 rimase nella clinica psichiatrica di Herisau e morì per una caduta sulla neve. La sua fu una fuga dallo stereotipo soffocante e svilente del ruolo di scrittore: smise apparentemente di scrivere, o meglio iniziò a riempire qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani di strane scritte in caratteri minuscoli (che poi si rivelarono
Lo starets Fëdor Kuzmìč
essere poesie, racconti, annotazioni). Volle gradualmente sottrarsi ad una spersonalizzante quotidianità. Non mi sarei stupito se dalla bocca di questa creatura melvilliana fossero (di colpo e poi ricorsivamente) venute fuori le parole «I would prefer not to», che avrebbe potuto pronunciare anche un altro personaggio chiamato in causa, a questo punto, da una mia libera associazione: lo zar Alessandro I di Russia (una delle entità che più di tante altre è impressa nel mio personale immaginario). Secondo una tradizione ripresa dallo stesso Tolstoj nel suo «Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmìč», Alessandro avrebbe soltanto finto di morire nel 1825. In realtà si sarebbe dato ad un ascetico ed esicastico eremitaggio e sarebbe poi deceduto in età molto avanzata («Già prima di morire lo starets Fëdor Kuzmìč, che era giunto in Siberia nell'anno 1836 e vi aveva quindi dimorato, in diversi luoghi, per ventisette anni, era divenuto argomento di strane dicerie, secondo le quali egli avrebbe tenuto segreto il proprio nome e il rango, e altri non sarebbe stato in realtà, che l’imperatore Alessandro primo»).

Sergej Volkonskij
Al tema della fuga rimanda ancora la citazione della scomparsa di Ettore Majorana. Fabrizio narra di avere fatto visita ad un maestro di Visciano che raccoglieva notizie su un tizio capitato in paese qualche decennio prima: per tutti egli non poteva che essere il fisico misteriosamente scomparso. Il maestro (cito testualmente) disse: «’O prufessore… All’inizio era sempre ben vestito, poi con gli anni il suo aspetto andò sempre più peggiorando, i vestiti si fecero logori, si lasciò crescere barba e capelli lunghissimi e finì con l’assumere l’aspetto di un asceta. Non dormiva in paese, ma nel vecchio convento di Camaldoli, che era stato abbandonato agli inizi del secolo dopo la costruzione del nuovo, dove si erano trasferiti i frati che gli offrivano da mangiare» (citazione che traggo dalla pagina 197. Da notare che il fisico sarebbe finito in un convento anche secondo Sciascia): Ettore Majorana (e qui riprendo la mia personale catena di associazioni) come Alessandro I che forse diventò asceta, ma anche come lo stesso Tolstoj che, assumendo l’aspetto del contadino, si lasciò crescere la barba e i capelli al pari degli asceti (e in qualità di “santone” venne quasi venerato da buona parte del popolo) e scelse di fuggire; Ettore Majorana come Tolstoj, ma anche come Sergej Volkonskij, il principe decabrista imparentato con Tolstoj (la madre di Lev, Maria, era una Volkonskaia), condannato ai lavori forzati in Siberia, deciso a cancellare ogni elemento formale caratteristico della sua estrazione aristocratica, al punto da assumere i tratti esteriori e lo stile di vita dei contadini e degli asceti come Lev, come Alessandro I, come il Majorana descritto dal maestro di Visciano.

Lungo il filo delle sparizioni e delle fughe vere o fittizie o ancora virtuali che sto arbitrariamente e immeritatamente tessendo insieme all’autore del libro, spicca un giovane, menzionato da Coscia nel capitolo su Brahms e Schumann. Il giovane, appassionato di musica soltanto classica, iscritto alla Facoltà di Filosofia, laureato con una tesi su Schopenhauer (peraltro pubblicata), improvvisamente accettò un incarico presso un’importante azienda dolciaria di Bruxelles. Ebbene: «Né io, né nessuno di loro potemmo mai capire il motivo di quella partenza improvvisa, di quella fuga dalle sue passioni, di quella rinuncia. I soldi non erano una spiegazione sufficiente, il suo carattere difficile nemmeno. Ricordo che aveva un’ambizione smisurata: si sentiva al di sopra di tutti – e forse lo era davvero – come destinato a un grande avvenire, ma viveva conflitti interiori irrisolti, pulsioni inconfessate. Che ne è stato di lui? Dei suoi dischi, del suo pianoforte, delle sue letture? Da che cosa è fuggito? Ci sono pezzi del nostro passato che si perdono nel nulla, senza possibilità di recupero. Ma l’oblio, a volte, è più salutare del ricordo» (citazione tratta dalla pagina 182). Accettare un impiego in un’azienda dolciaria pur di fuggire e sparire mi sembra l’equivalente dell’ipotetico destino del più volte citato Majorana. E non posso che ripensare al modo in cui Salvatore Silvano Nigro ha parlato del fisico nel suo «Il principe fulvo», associando due date (perché per Nigro «date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio»): il 1938 e il 1883 che hanno in comune tre cifre su quattro. Il 1938 è l’anno in cui il fisico fece perdere le sue tracce, mentre viaggiava su un piroscafo diretto a Napoli (come Rosario La Ciura, protagonista del tomasiano racconto «Lighea», che sparì mentre si dirigeva a Napoli sul Rex; ancora come Ippolito Nievo, scomparso la notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 al largo della penisola sorrentina, insieme a tutto l’equipaggio del vapore Ercole; e – perché no? – pure come l’avvocato Motta di Mario Soldati). Il 1883 è l’anno in cui Benito Mussolini nacque a Predappio. Ma è anche l’anno in cui scomparve il principe Fabrizio Salina, risparmiando a se stesso la visione dei «formiconi» fascisti (gli stessi dai quali forse volle prendere le distanze Majorana).

Naturalmente risulta impossibile continuare a rendere conto della varietà dei temi, degli aneddoti, delle riflessioni presenti in «Soli eravamo», la lettura integrale del quale raccomando senz’altro anche a scopo terapeutico: può costituire un proficuo antidoto contro la tendenza – che affligge ormai me e molti miei simili – a prendere le distanze dalla letteratura contemporanea a causa del livellamento qualitativo che la consuma. Risulta del resto impossibile anche verbalizzare tutte le associazioni che la lettura di «Soli eravamo» può innescare nella mente del fruitore. Tuttavia non mi spiace accennare a quello che per me è il capitolo forse più bello di tutto il testo: «Mi piace Brahms». Vi si narra l’amore provato appunto da Brahms per Clara Wieck, più anziana di lui di quattordici anni e moglie di Schumann, e del vero e proprio triangolo edipico che ne derivò, se è vero che Schumann rappresentò sempre per Brahms un importante punto di riferimento. Fra Brahms e Clara, però, non accadde concretamente mai nulla. Anzi, proprio in coincidenza con la morte di Schumann, Brahms prese le distanze dalla donna, adducendo come giustificazione il fatto che, nel momento in cui le passioni superano nell’uomo il limite, l’uomo stesso diventa un invalido che deve essere curato. Fabrizio menziona l’Adagio di Brahms del «Quintetto per archi e clarinetto» che incarna quell’«idea della musica come desiderio  metafisico», cosa che ispira in me echi manniani («La musica sveglia il tempo» afferma Settembrini ne «La montagna incantata», espressione non a caso scelta poi da Daniel Baremboim come titolo di un suo fortunato libro). E cita anche la Quarta sinfonia di Brahms, il che potrebbe anche confermare il sospetto, infiltratosi nel mio animo dalla lettura fin delle prime righe del capitolo, che Fabrizio Coscia l’abbia scritto ascoltando «Il mito dell’amore» di Franco Battiato (https://www.youtube.com/watch?v=qxT9d1kzkNM).

Ivo Flavio Abela


lunedì 16 marzo 2015

«Il primo che arriva s'accomoda». Mafia finta e mafiosità vera in «La mafia di carta» di Tino Vittorio

La mafiosità. In senso trasversale e vista nella sua ontologia. Ente superiore capace di invadere gli interstizi e le aree franche della società, per poi insinuarsi metastaticamente dall'interno in tutto il tessuto civile, facendo quasi da cuscinetto fra i cittadini e lo Stato. È il tema de «La mafia di carta» di Tino Vittorio, che rivede la luce in una nuova edizione dopo la sua prima pubblicazione risalente a circa vent'anni fa (arricchito peraltro della Prefazione di Pietrangelo Buttafuoco e della Postfazione di Giuseppe Bella). Tema non è dunque la mafia in sé: quella che i professionisti dell'antimafia – sfruttando i provvidenziali apporti di quanti vanno ad ingrossare i ranghi del pentitismo – riducono a un cumulo di atti di valore puramente burocratico, quella che i giudici individuano sistematicamente nel malaffare, chiamato mafia solo quando trova ambientazione nella Trinacria (perché se lo si ravvisa altrove non è più mafia) e su cui continuano a scrivere, quella cui i professoroni universitari «carta penna e panza», in corsa verso la cattedra, hanno conferito identità (perché qualunque cosa deve ricevere la sanzione dell'Accademia per esistere), pubblicando, pubblicando e pubblicando.

Chi più ne ha, più ne metta: «La mattina appena alzato, caffè fumante o latte e cacao, mi stiro, scorro i titoli del giornale, la Sicilia in prima pagina. Quasi quasi mi faccio uno studio sulla mafia. Il primo che arriva s'accomoda». E così i bigotti dell'antimafia producono carte e nuotano «disinvolti in un mare di mafiosità», ma scorgono «solo la pozzanghera della mafia della cronaca nera», mentre non guardano al fatto che la mafiosità alberga ovunque: nel prefetto, nell'arcivescovo, nel provveditore agli studi, nei posteggiatori abusivi, financo nei maschi che dettano legge a casa loro, ecc. ecc. Se di mafia si deve parlare – ritiene invece l'autore – che si parli di «mafia di carne». E si abbandonino al loro destino i pasticcioni, gli scunchiuruti (siamo in Sicilia e ci sarà concesso usare una parola del nostro dizionario) e pure Nando Dalla Chiesa che arrivava a dare del mafioso a Santi Correnti solo perché il professore sentiva e pensava in modo nazio-separatista, perché non voleva ammettere che «lo sviluppo economico del Nord non deve nulla al Sud che con le sue mille radici ha prodotto e produce la pianta sempreverde dell'arretratezza e dello scarso senso civico».

E poiché non c'è “letteratura” senza “geografia” – è inutile scrivere se non si parte dalle coordinate e dal dato geomorfologico tanto cari (e a ragione) alla Geografia Umana – Tino Vittorio parte dalla sua Catania, anzi da via Plebiscito, dov'è cresciuto: quella strada che attraversa mezza città vecchia, piena di putìe, che fra il 4 e il 5 febbraio si riempie di fumi prodotti dalla combustione della carne di cavallo venduta e mangiata mentre passa la santa patrona (arrust'e mangia). E dov'è cresciuto pure un uomo privo di qualsiasi connotato mafioso (non possiede un tratto fisionomico, non articola un gesto abituale, non pronuncia una parola: non fa il minimo di nulla in modo platealmente mafioso. Pure l'abbigliamento è ordinario. E pure la quotidianità: moglie, figli, mamma): l'uomo di mafia, appunto, l'intervista al quale viene riferita nella parte finale del libro (ecco la mafia vera: quella di carne. Umana e non di cavallo).

Catania. Perché un tempo si sosteneva che in Sicilia mafiosa fosse solo Palermo. Invece pure il liotru è mafioso con tutto l'obelisco: non solo in via Plebiscito (e nei dintorni che sconfinano in aree relativamente lontane dal centro storico come il Villaggio Sant'Agata) la mafiosità si è espressa al meglio attraverso le gesta sempre più eroiche di tutti quei giovani che volevano «un giubbotto di pelle e una camicia di seta, presto!», ma s'è manifestata pure attraverso le azioni di quattro noti campioni dell'imprenditoria, cioè Costanzo, Rendo, Finocchiaro, Graci (sebbene dall'elenco di quanti comandano gli imprenditori siano apparentemente esclusi. Anzi appaiono talvolta vittime). Sono tutti e quattro campioni di una classe borghese-mafiosa che ebbe l'incipit in una marsina maldestramente ornata da una Croce della Corona d'Italia: quella dello sciacalletto Calogero Sedara, stando almeno all'opinione di Sciascia, alla cui interpretazione del fenomeno mafioso Tino Vittorio dedica una cospicua parte del suo libro.

Peraltro Sciascia individuava il paradosso (ma perché dovrebbe essere un paradosso poi?) per cui solo in epoca fascista i ceti più umili in Sicilia furono liberi di produrre per migliorare le proprie condizioni, cosa mai avvenuta né prima né dopo, con buona pace dei professoroni accreditati: Diego Gambetta, secondo cui il mafioso vende protezione privata (eppure – dice Vittorio – «non c'è un episodio riportato nel libro di Gambetta e tratto dalla stampa quotidiana presente in ogni edicola del suolo patrio, da Gela a Casalpusterlengo, che comprovi l'assunto della mancanza di fiducia quale terreno su cui si innalzerebbero le cattedrali della mafia»); Nicola Tranfaglia che s'inerpica su per un pericoloso quanto inconsistente sentiero, facendo risalire l'origine della mafia alla dominazione spagnola (salvo essere sarcasticamente smentito da Vittorio che reputa quantomeno strano il fatto che la Spagna non conosca fenomeni mafiosi all'interno dei propri confini); Luciano Cafagna (sorta di terrone leghizzato ante litteram, per il quale «l'Unità non deve andare in frantumi»), secondo cui il Sud non volle approfittare della ricchezza generosamente elargita dal Nord, preferendo dirottarla verso il clientelismo, anziché finalizzarla a progetti autenticamente miranti alla crescita; l'intoccabile Giuseppe Giarrizzo che insistette sulla formazione di un ceto politico siciliano, emerso intorno al 1870 con l'avvento al potere della Sinistra storica.

E adesso diamo fuoco alle polveri. Tempo fa Luciano Mirone, nel suo «A Palermo per non morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa», riportò le seguenti parole di Riccardo Orioles: «Un sedicente intellettuale catanese, Tino Vittorio, poco dopo il delitto, scrisse un libro, La mafia di carta, per dichiarare che Fava era stato ucciso per questioni di donne, non certo per mafia. E lo stampò con i soldi dell'Università». A parte l'inflazionata espressione «sedicente intellettuale» (talmente cristallizzata ormai da apparire quasi idiomatica), non risulta che Tino Vittorio si sia mai autodefinito «intellettuale» (è del resto piuttosto nota la sua idiosincrasia per qualsiasi etichetta, com'è agevole desumere dal suo «Melenzanologia», edito da Bonanno nel 2014). Non risulta neanche che il professore Vittorio abbia mai attinto a fondi universitari per pubblicare "carta" dal dubbio valore, come tanti suoi colleghi. Non risulta infine che abbia affermato chiaramente che Fava fu ucciso per questioni di donne (lo afferma invece il suo intervistato). Risulta invece che Orioles non ha tenuto sufficientemente conto (malafede? Peloso moralismo ipocrita?) di un'ipotesi all'epoca formulata a proposito del delitto Fava: esso sarebbe stato ordito per colpire indirettamente, tra gli altri, i «Quattro Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa», cioè i quattro imprenditori sopra citati, come peraltro lo stesso Fava li aveva definiti. Alcuni piccoli dettagli: Fava aveva diretto «Il Giornale del Sud» (il primo numero era stato pubblicato il 4 giugno 1980), di cui era comproprietario proprio Gaetano Graci. L'aveva quindi abbandonato nell'ottobre 1981. Dal dicembre del 1982 aveva diretto un'altra rivista, cioè «I siciliani». Nel corso del 1983 su «I siciliani» fu pubblicata un'intervista dal titolo «L'impresa Costanzo, l'industria e la Sicilia» (le risposte furono fornite dall'avvocato Daniele Rodagno in qualità di responsabile dell'ufficio legale dell'azienda di Costanzo). Ci si chiede allora come mai Fava avesse diretto un giornale di cui era comproprietario Graci, come mai avesse pubblicato un'intervista rilasciata dal portavoce di Costanzo e in cui si parlava di mafia, economia, banche. Orioles si è mai posto simili domande?

È ora di fermarsi. Sia spazio alla lettura di un testo difficilmente inscrivibile in un genere letterario dai contorni definiti (è un po' saggio e un po' pamphlet, ma anche narrazione dai risvolti thriller e noir) e sostenuto da una scrittura scolpita, impressa, spigolosa, tagliente, martellante, terribilmente persuasiva (basta leggere l'emblematico capitolo dal titolo «I bigotti della mafiologia»: ogni enunciato ha il suono del bronzo brunito). Su questo blog Camilleri non è amato. Istintivamente, per libera associazione, per cortocircuito mentale, senza alcuna logica, si è pensato però a lui mentre il libro di Tino Vittorio veniva letto. Bene: se Camilleri mettesse da parte la sua minchioneria linguistica e scrivesse ogni tanto come qui scrive Vittorio, si finirebbe senz'altro per amare «Montalbano».

Ivo Flavio Abela

Appendice. La copertina del libro è gradevole e razionale, sebbene capace di stimolare le pulsioni e le associazioni psichiche più irrazionali. L'autore, lo sconosciuto (almeno in ambito culturale) Maurizio Zappalà, propone un Narciso in abiti borghesi, magrittianamente (molto magrittianamente) reinterpretato. Alle sue spalle il Male (creatura di per sé esistente ovvero ombra distorta proiettata dall'essere umano. Non fa molta differenza, in fondo), di cui non s'accorge colui che riduce il proprio universo alla contemplazione di se stesso e del proprio ombelico: il Narciso ingenuo. Nonostante quanto detto, la copertina del libro non merita di essere riprodotta in questa recensione. La rovina infatti un testo molto discutibile e un po' delirante (riportato nel primo dei due risvolti di copertina), scritto dallo stesso Zappalà: egli avrebbe forse voluto dire tanto o tutto. Ma alla fine ha affermato il nulla, come capita a chi ha insufficiente dimestichezza con la scrittura. Consigliargli di continuare a fare il suo mestiere (pare sia architetto)? Direi di sì. Ma ciò che risulta più interessante è la formula «street copertina» da lui usata. La copertina di (o da) strada... Anzi, considerata l'origine etnea dell'ideatore di tale espressione linguistica, gli consigliamo di tradurla in catanese per usarla in futuro: «a copertin'i strata». Suona bene. E poi fa tanto piscarìa e acqua a linzolu.

sabato 31 gennaio 2015

Epos e mythos

Di seguito alcune mie traduzioni dal greco antico (disposte volutamente in modo casuale). Sottolineo fin d'ora che il modello delle traduzioni "a calco" di Sanguineti mi torna spesso utile. Ed anch'io – finché posso, cioè finché le strutture della lingua italiana me lo consentano e l'efficacia comunicativa della traduzione non ne risulti inficiata – cerco di mantenere inalterato pure l'ordo verborum del testo di partenza. Conclude la breve rassegna un'appendice dedicata al saggio di un amico, tematicamente legato a una delle traduzioni qui presentate.


«Riti funebri in onore di Ettore il glorioso» (febbraio 2014)

«Così parlò. E quelli buoi e giovenche ai carri
Aggiogarono. E subito si riversarono fuori dalla città.
Per nove giorni trasportarono legna in abbondanza;
Ma quando sorse la decima Aurora che luce dà ai mortali,
Proprio allora portarono Ettore il coraggioso versando lacrime,
Posero il morto sull'altissima pira, vi appiccarono il fuoco.

Quando tornò a mostrarsi l'Aurora - figlia del mattino - dalle dita rosate,
Proprio allora il popolo di Ettore il glorioso si radunò intorno alla pira.
Allorché, ormai convenuti, tutti si ritrovarono insieme,
Spensero innanzitutto la pira con vino chiarissimo:
Tutta per quanto spazio ne aveva attaccato la furia del fuoco; ed ecco che
Le bianche ossa raccolsero familiari e compagni
Gemendo. E il pianto scorreva abbondante lungo le guance.
Dopo averle prese, le posero in un'urna d'oro,
Avvoltele in morbidi pepli purpurei.
Quindi posero l'urna in una fossa profonda e da sopra
La ricoprirono con fitte pietre grandi.
Subito un tumulo v'innalzarono, mentre intorno guardie dappertutto s'appostavano,
Affinché gli Achei dagli schinieri belli non tentassero insidie anzitempo.
Innalzato il tumulo, se ne tornarono indietro. E dunque,
Ben raccolti tutti insieme, consumarono uno splendido banchetto
Nella reggia di Priamo, il re da Zeus nutrito.

Così onorarono il sepolcro di Ettore domatore di cavalli»

Testo originale

«Ὣς ἔφαθ', οἳ δ' ὑπ' ἀμάξῃσιν βόας ἡμιόνους τε
ζεύγνυσαν, αἶψα δ' ἔπειτα πρὸ ἄστεος ἠγερέθοντο.
ἐννῆμαρ μὲν τοί γε ἀγίνεον ἄσπετον ὕλην•
ἀλλ' ὅτε δὴ δεκάτη ἐφάνη φαεσίμβροτος ἠώς,
καὶ τότ' ἄρ' ἐξέφερον θρασὺν Ἕκτορα δάκρυ χέοντες,
ἐν δὲ πυρῇ ὑπάτῃ νεκρὸν θέσαν, ἐν δ' ἔβαλον πῦρ.

Ἦμος δ' ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,
τῆμος ἄρ' ἀμφὶ πυρὴν κλυτοῦ Ἕκτορος ἔγρετο λαός.
αὐτὰρ ἐπεί ῥ' ἤγερθεν ὁμηγερέες τ' ἐγένοντο
πρῶτον μὲν κατὰ πυρκαϊὴν σβέσαν αἴθοπι οἴνῳ
πᾶσαν, ὁπόσσον ἐπέσχε πυρὸς μένος• αὐτὰρ ἔπειτα
ὀστέα λευκὰ λέγοντο κασίγνητοί θ' ἕταροί τε
μυρόμενοι, θαλερὸν δὲ κατείβετο δάκρυ παρειῶν.
καὶ τά γε χρυσείην ἐς λάρνακα θῆκαν ἑλόντες
πορφυρέοις πέπλοισι καλύψαντες μαλακοῖσιν.
αἶψα δ' ἄρ' ἐς κοίλην κάπετον θέσαν, αὐτὰρ ὕπερθε
πυκνοῖσιν λάεσσι κατεστόρεσαν μεγάλοισι•
ῥίμφα δὲ σῆμ' ἔχεαν, περὶ δὲ σκοποὶ ἥατο πάντῃ,
μὴ πρὶν ἐφορμηθεῖεν ἐϋκνήμιδες Ἀχαιοί.
χεύαντες δὲ τὸ σῆμα πάλιν κίον• αὐτὰρ ἔπειτα
εὖ συναγειρόμενοι δαίνυντ' ἐρικυδέα δαῖτα
δώμασιν ἐν Πριάμοιο διοτρεφέος βασιλῆος.

Ὣς οἵ γ' ἀμφίεπον τάφον Ἕκτορος ἱπποδάμοιο»

Omero, «Iliade», XXIV, 782 – 803

Scena da un sarcofago romano
Fine III sec. d.C.
Louvre
«Il corpo di Ettore viene riportato a Troia»
(E chissà quante deposizioni di Cristo sono derivate da un simile modello)


«Inno a Bacco» (Sofocle, «Antigone», V Stasimo, vv. 1115 – 1152; 29 giugno 2014)

Statua bronzea di Dioniso
ritrovata nelle acque del Tevere
e conservata a Roma

(età adrianea o antonina)
«Dio dai molti nomi, orgoglio della figlia di Cadmo
E prole tonitruante
Di Zeus, tu che proteggi la nobile
Italia, tu che regni
Nel grembo ospitale
Di Demetra Eleusina, o Bacco, l'invasata
Città-madre Tebe
Abitando presso le liquide
Correnti del selvaggio Ismeno sopra il seme del drago,
Tu che sulla rupe dalla duplice cima scorgono la sfavillante
Caligine densa, quando le Coricie
Ninfe Baccanti v'ascendono,
E le correnti di Castalia.
E te inviano
Le coste coperte di edera e la rigogliosa sponda
Ricca di vigneti dei monti Nisei,
Quando parole immortali
T'invocano, a visitare le strade di Tebe:
Tu la onori come la più nobile fra tutte le città
Insieme alla Madre colpita dal fulmine;
E adesso che tutta la città è prostrata
Da un male spietato,
Valica col piede che dona purezza il monte Parnaso
Ed il braccio gemente del mare.
Tu che guidi la danza degli astri che spirano fuoco, custode
Delle voci notturne,
Giovane sangue di Zeus, mostrati,
Signore, con la tua corte di
Baccanti che, smaniando per tutta la notte, inneggiano
A Bacco dispensatore di gioia»

Testo originale

«Πολυώνυμε, Καδμείας νύμφας ἄγαλμα
καὶ Διὸς βαρυβρεμέτα
γένος, κλυτὰν ὃς ἀμφέπεις
Ἰταλίαν, μέδεις δὲ
παγκοίνοις, Ἐλευσινίας
Δῃοῦς ἐν κόλποις, Βακχεῦ Βακχᾶν
ὁ ματρόπολιν Θήβαν
ναιετῶν παρ᾽ ὑγρῶν
Ἰσμηνοῦ ῥείθρων ἀγρίου τ᾽ ἐπὶ σπορᾷ δράκοντος
σὲ δ᾽ ὑπὲρ διλόφου πέτρας στέροψ ὄπωπε
λιγνύς, ἔνθα Κωρύκιαι
στείχουσι νύμφαι Βακχίδες,
Κασταλίας τε νᾶμα.
Καί σε Νυσαίων ὀρέων
κισσήρεις ὄχθαι χλωρά τ᾽ ἀκτὰ
πολυστάφυλος πέμπει,
ἀμβρότων ἐπέων
εὐαζόντων Θηβαΐας ἐπισκοποῦντ᾽ ἀγυιάς•
τὰν ἐκ πᾶσαι τιμᾷς ὑπερτάταν πόλεων
ματρὶ σὺν κεραυνίᾳ•
καὶ νῦν, ὡς βιαίας ἔχεται
πάνδαμος πόλις ἐπὶ νόσου,
μολεῖν καθαρσίῳ ποδὶ Παρνασίαν ὑπὲρ κλιτὺν
ἢ στονόεντα πορθμόν.
Ιὼ πῦρ πνειόντων χοράγ᾽ ἄστρων, νυχίων
φθεγμάτων ἐπίσκοπε,
παῖ Διὸς γένεθλον, προφάνηθ᾽
ὦναξ, σαῖς ἅμα περιπόλοις
Θυίαισιν, αἵ σε μαινόμεναι πάννυχοι χορεύου
σιτὸν ταμίαν Ἴακχον»


«Il sogno di Atossa» (Eschilo, «Persiani», I episodio, vv. 176 – 214; 30 giugno 2014)

«Sempre con molti sogni notturni
Vivo quasi in simbiosi, da quando mio figlio, disposto un esercito,
È in viaggio, volendo devastare la terra degli Ioni;
Però mai ne vidi uno così chiaro
Come la notte precedente: te lo narrerò.
Parve a me che due donne riccamente vestite,
L'una munita di pepli persiani,
L'altra invece di dorici, si mostrassero,
Molto più notevoli per statura delle donne di adesso,
Perfette in bellezza, e sorelle di un sangue
Medesimo; come patria abitavano l'una la terra
Di Grecia, avutala in sorte, l'altra una terra straniera.
Esse una lite, come credevo di vedere,
Accendevano fra sé; mio figlio, accortosene,
Le tratteneva, le calmava, ai carri
Le aggioga e redini ai colli
Pone. E si rizzava superba in quella guisa
L'una che aveva bocca facile a essere dominata dalle briglie,
L'altra si dibatteva, e con le mani i ferri del carro
Lacera e trascina a forza,
Ormai libera dal morso, e rompe a mezzo il giogo.
Mio figlio cade, e appare il padre
Dario compiangendolo. Quando lo vede,
Serse strappa i pepli che gli cingono il corpo.
Ripeto che ho visto di notte tutto ciò.
Quando m'alzai e con le mani una fonte
Dalla bella corrente toccai, con mano sacrificatrice
Mi accostai ad un altare, agli dèi che allontanano i mali
Volendo offrire una libagione, di cui questi sono i compimenti.
Vedo un'aquila che fugge verso l'ara
Di Febo; rimasi muta per la paura, amici;
Quindi un falco vedo che di corsa
Con le ali si slancia e la testa con gli artigli
Le dispiuma; quella nient'altro che abbassarsi
Faceva: tali cose sono terribili per me a vedersi,
Per voi ad essere ascoltate. Lo sapete bene: mio figlio
Se avesse buona sorte, potrebbe diventare uomo in grado di destare ammirazione,
Ma se la sorte non l'assiste – non tenuto a giustificarsi al cospetto della città,
Indenne comunque, ugualmente di questa terra rimane signore»

Testo originale

«Πολλοῖς μὲν αἰεὶ νυκτέροις ὀνείρασιν
ξύνειμ᾽, ἀφ᾽ οὗπερ παῖς ἐμὸς στείλας στρατὸν
Ἰαόνων γῆν οἴχεται πέρσαι θέλων•
ἀλλ᾽ οὔτι πω τοιόνδ᾽ ἐναργὲς εἰδόμην
ὡς τῆς πάροιθεν εὐφρόνης• λέξω δέ σοι.
Ἐδοξάτην μοι δύο γυναῖκ᾽ εὐείμονε,
ἡ μὲν πέπλοισι Περσικοῖς ἠσκημένη,
ἡ δ᾽ αὖτε Δωρικοῖσιν, εἰς ὄψιν μολεῖν,
μεγέθει τε τῶν νῦν ἐκπρεπεστάτα πολύ,
κάλλει τ᾽ ἀμώμω, καὶ κασιγνήτα γένους
ταὐτοῦ• πάτραν δ᾽ ἔναιον ἡ μὲν Ἑλλάδα
κλήρῳ λαχοῦσα γαῖαν, ἡ δὲ βάρβαρον.
τούτω στάσιν τιν᾽, ὡς ἐγὼ ᾽δόκουν ὁρᾶν,
τεύχειν ἐν ἀλλήλῃσι• παῖς δ᾽ ἐμὸς μαθὼν
κατεῖχε κἀπράυνεν, ἅρμασιν δ᾽ ὕπο
ζεύγνυσιν αὐτὼ καὶ λέπαδν᾽ ὑπ᾽ αὐχένων
τίθησι. Χἠ μὲν τῇδ᾽ ἐπυργοῦτο στολῇ
ἐν ἡνίαισί τ᾽ εἶχεν εὔαρκτον στόμα,
ἡ δ᾽ ἐσφάδᾳζε, καὶ χεροῖν ἔντη δίφρου
διασπαράσσει, καὶ ξυναρπάζει βίᾳ
ἄνευ χαλινῶν, καὶ ζυγὸν θραύει μέσον.
Πίπτει δ᾽ ἐμὸς παῖς, καὶ πατὴρ παρίσταται
Δαρεῖος οἰκτίρων σφε• τὸν δ᾽ ὅπως ὁρᾷ
Ξέρξης, πέπλους ῥήγνυσιν ἀμφὶ σώματι.
Καὶ ταῦτα μὲν δὴ νυκτὸς εἰσιδεῖν λέγω.
Ἐπεὶ δ᾽ ἀνέστην καὶ χεροῖν καλλιρρόου
ἔψαυσα πηγῆς, σὺν θυηπόλῳ χερὶ
βωμὸν προσέστην, ἀποτρόποισι δαίμοσιν
θέλουσα θῦσαι πέλανον, ὧν τέλη τάδε.
Ὁρῶ δὲ φεύγοντ᾽ αἰετὸν πρὸς ἐσχάραν
Φοίβου• φόβῳ δ᾽ ἄφθογγος ἐστάθην, φίλοι•
μεθύστερον δὲ κίρκον εἰσορῶ δρόμῳ
πτεροῖς ἐφορμαίνοντα καὶ χηλαῖς κάρα
τίλλονθ᾽• ὁ δ᾽ οὐδὲν ἄλλο γ᾽ ἢ πτήξας δέμας
παρεῖχε. Ταῦτ᾽ ἔμοιγε δείματ᾽ ἔστ᾽ ἰδεῖν,
ὑμῖν δ᾽ ἀκούειν. εὖ γὰρ ἴστε, παῖς ἐμὸς
πράξας μὲν εὖ θαυμαστὸς ἂν γένοιτ᾽ ἀνήρ,
κακῶς δὲ πράξας - οὐχ ὑπεύθυνος πόλει,
σωθεὶς δ᾽ ὁμοίως τῆσδε κοιρανεῖ χθονός»


«Come curare le opere di Demetra» (Esiodo, «Le opere e i giorni», vv. 383 - 392; 3 luglio 2014)

«Quando le Plèiadi, figlie d’Atlante, si levano,
Iniziate la mietitura, quando tramontano invece l'aratura.
Esse per quaranta giorni e quaranta notti
Rimangono nascoste, e di nuovo, compiendosi il giro dell’anno,
Quando s'arrota la lama, riappaiono.
Questa è dunque la legge dei campi, per quelli che al mare
Vicino dimorano e per quelli che valli profonde,
Lontano dal mare spumoso, e terra pingue
Abitano: di seminare nudi, di arare nudi,
Di raccogliere nudi, se a tempo compiute tutte
Le opere di Demetra si vogliano approntare»

Testo originale

«Πληιάδων Ἀτλαγενέων ἐπιτελλομενάων
ἄρχεσθ᾽ ἀμήτου, ἀρότοιο δὲ δυσομενάων.
αἳ δή τοι νύκτας τε καὶ ἤματα τεσσαράκοντα
κεκρύφαται, αὖτις δὲ περιπλομένου ἐνιαυτοῦ
φαίνονται τὰ πρῶτα χαρασσομένοιο σιδήρου.
οὗτός τοι πεδίων πέλεται νόμος οἵ τε θαλάσσης
ἐγγύθι ναιετάουσ᾽ οἵ τ᾽ ἄγκεα βησσήεντα
πόντου κυμαίνοντος ἀπόπροθι, πίονα χῶρον,
ναίουσιν· γυμνὸν σπείρειν, γυμνὸν δὲ βοωτεῖν,
γυμνὸν δ᾽ ἀμάειν, εἴ χ᾽ ὥρια πάντ᾽ ἐθέληισθα
ἔργα κομίζεσθαι Δημήτερος»

In foto «Il giardino fatato», cioè un "minigiardino" che non solo mi ha ricordato (per il contesto verbale in cui l'immagine era stata inserita quando mi fu inviata) i versi di Esiodo, ma mi ha anche richiamato alla mente la tradizione relativa alla realizzazione dei cosiddetti giardini di Adone durante le Adonie, feste ateniesi della durata di otto giorni. Sembra peraltro che lo stesso Canova abbia tenuto presente tale tradizione quando realizzò «Venere e Adone» (Musée d'Art et d'Histoire di Ginevra. La genesi del mito avrebbe un'origine fenicia). E grazie all'amico che mi ha inviato l'immagine.


«La danza di Ares» (Omero, «Iliade», VII, 233 - 241; 12 gennaio 2015)

«Gli rispose allora il grande Ettore agitatore d'elmo:
"Nobile Aiace Telamonio, signore di genti,
Non tentarmi quasi fossi un ragazzino fragile
O una donna che ignora azioni guerresche.
Io bene infatti conosco battaglie e stragi di uomini;
So alla destra, so alla sinistra dirigere lo scudo
Rigido, combattere armato di scudo mi è proprio;
So provocare lo strepito delle cavalle veloci;
So cantare danzando a pie' fermo per il terribile Ares"»

Testo originale

«Τὸν δ' αὖτε προσέειπε μέγας κορυθαίολος Ἕκτωρ·
"Αἶαν διογενὲς Τελαμώνιε κοίρανε λαῶν
μή τί μευ ἠΰτε παιδὸς ἀφαυροῦ πειρήτιζε
ἠὲ γυναικός, ἣ οὐκ οἶδεν πολεμήϊα ἔργα.
αὐτὰρ ἐγὼν εὖ οἶδα μάχας τ' ἀνδροκτασίας τε·
οἶδ' ἐπὶ δεξιά, οἶδ' ἐπ' ἀριστερὰ νωμῆσαι βῶν
ἀζαλέην, τό μοι ἔστι ταλαύρινον πολεμίζειν·
οἶδα δ' ἐπαΐξαι μόθον ἵππων ὠκειάων·
οἶδα δ' ἐνὶ σταδίῃ δηΐῳ μέλπεσθαι Ἄρηϊ"»


«Ettore e Andromaca» (Omero, «Iliade», VI, 407-439; 466-502. 15 gennaio 2015)

Sergej Petrovič Postnikov
«Ettore e Andromaca»
«Infelice, ti ucciderà il tuo coraggio, né hai compassione
Del figlio piccolo e di me misera, che presto vedova
Di te sarò: presto infatti ti uccideranno gli Achei
Assalendoti tutti; sarebbe meglio per me
- Privata di te - finire sotto terra: infatti non più altro
Conforto vi sarà, allorché tu abbia seguito il destino,
Ma solo dolori; non ho più il padre e l'augusta madre.
L'inclito Achille uccise infatti mio padre,
Distrusse peraltro la bene abitata città dei Cilici,
Tebe dalle alte porte; uccise Eezione,
Ma non lo spogliò delle armi: n'ebbe rispetto in cuore
E subito lo bruciò con le armi ben lavorate
E un tumulo vi pose sopra; intorno poi piantarono olmi
Le ninfe dei monti, figlie di Zeus egioco.
I sette fratelli che avevo in casa
Tutti in un sol giorno andarono nell'Ade:
L'inclito Achille dai piedi veloci li uccise infatti tutti
Presso i buoi dai piedi striscianti e le candide pecore.
La madre, che regnava sotto il Placo selvoso,
Dopo che qui la condusse insieme agli altri beni,
Presto la liberò accettando immenso riscatto,
Ma Artemide arciera la colpì nella casa del padre.
Ettore, tu insomma mi sei padre e madre augusta
E fratello, tu mi sei florido marito:
Abbi dunque pietà e resta qui sulla torre,
Non rendere orfano il figlio e vedova la moglie;
Schiera l'esercito presso il fico selvatico, dove al massimo
Accessibile è la città e il muro s'erge superabile.
Tre volte infatti, giunti qui, hanno già fatto la prova i migliori
Che erano con i due Aiaci e l'illustre Idomeneo,
Con gli Atridi e il valoroso figlio di Tideo:
O che qualcuno bene esperto di oracoli lo abbia detto loro,
O che il loro stesso coraggio li eccita e li aizza»

[...]

Avendo così parlato, il nobile Ettore si protese verso il figlio;
Subito il bimbo al seno della nutrice ben cinta
Si trasse strillando, atterrito alla vista di suo padre,
Temendo il bronzo e il cimiero dalla cresta equina,
Vedendolo oscillare terribile alla sommità dell'elmo.
Risero il caro padre e la nobile madre;
Subito dal capo l'elmo tolse l'illustre Ettore
E lo pose - tutto scintillante - a terra;
Subito il caro figlio baciò e cullò con le mani.
Disse, pregando Zeus e gli altri dèi:
«O Zeus e voi altri dèi, concedete che sia questo
Mio figlio, come lo sono io del resto, insigne fra i Troiani
E che, valoroso per coraggio, domini potentemente su Ilio;
E qualcuno possa dire un giorno: "Costui di gran lunga è migliore del padre"
Quando torni dalla guerra; porti le spoglie insanguinate
Avendo ucciso un uomo nemico. Ne goda in cuore la madre».
Avendo così parlato, fra le mani della cara moglie pose
Suo figlio: quella lo accolse allora sul seno profumato
Sorridendo tra le lacrime; guardandola lo sposo n'ebbe pietà,
L'accarezzò con la mano, le rivolse parola e la chiamò per nome:
«Infelice, non dolerti troppo nel cuore:
Infatti nessun uomo mi scaglierà nell'Ade contro il destino;
Dico che nessuno tra gli uomini è mai sfuggito al fato,
Né cattivo, né valoroso, non appena sia nato.
Ma tornando a casa, dedicati alle tue faccende,
Al telaio e alla rocca, e alle serve ordina
Che il lavoro sia mandato avanti: la guerra sarà oggetto di cura per gli uomini
Tutti - e soprattutto per me - che ad Ilio nascemmo».
Avendo detto così, l'illustre Ettore prese l'elmo
Dalla chioma equina; sua moglie s'avviò verso casa
Volgendosi indietro di tratto in tratto, versando pianto abbondante.
Quando giunse alla casa bene abitata
D'Ettore sterminatore, all'interno trovò molte
Ancelle: in tutte loro instillò il pianto.
Quelle ancora vivo Ettore piangevano nella sua casa:
Infatti dicevano che di ritorno dalla guerra non
Sarebbe giunto, sfuggendo all'ira e alle mani degli Achei.

Testo originale

«δαιμόνιε, φθίσει σε τὸ σὸν μένος, οὐδ' ἐλεαίρεις
παῖδά τε νηπίαχον καὶ ἔμ' ἄμμορον, ἣ τάχα χήρη
σεῦ ἔσομαι· τάχα γάρ σε κατακτανέουσιν Ἀχαιοὶ
πάντες ἐφορμηθέντες· ἐμοὶ δέ κε κέρδιον εἴη
σεῦ ἀφαμαρτούσῃ χθόνα δύμεναι· οὐ γὰρ ἔτ' ἄλλη
ἔσται θαλπωρὴ ἐπεὶ ἂν σύ γε πότμον ἐπίσπῃς
ἀλλ' ἄχε'· οὐδέ μοι ἔστι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ.
ἤτοι γὰρ πατέρ' ἁμὸν ἀπέκτανε δῖος Ἀχιλλεύς,
ἐκ δὲ πόλιν πέρσεν Κιλίκων εὖ ναιετάουσαν
Θήβην ὑψίπυλον· κατὰ δ' ἔκτανεν Ἠετίωνα,
οὐδέ μιν ἐξενάριξε, σεβάσσατο γὰρ τό γε θυμῷ,
ἀλλ' ἄρα μιν κατέκηε σὺν ἔντεσι δαιδαλέοισιν
ἠδ' ἐπὶ σῆμ' ἔχεεν· περὶ δὲ πτελέας ἐφύτευσαν
νύμφαι ὀρεστιάδες κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο.
οἳ δέ μοι ἑπτὰ κασίγνητοι ἔσαν ἐν μεγάροισιν
οἳ μὲν πάντες ἰῷ κίον ἤματι Ἄϊδος εἴσω·
πάντας γὰρ κατέπεφνε ποδάρκης δῖος Ἀχιλλεὺς
βουσὶν ἐπ' εἰλιπόδεσσι καὶ ἀργεννῇς ὀΐεσσι.
μητέρα δ', ἣ βασίλευεν ὑπὸ Πλάκῳ ὑληέσσῃ,
τὴν ἐπεὶ ἂρ δεῦρ' ἤγαγ' ἅμ' ἄλλοισι κτεάτεσσιν,
ἂψ ὅ γε τὴν ἀπέλυσε λαβὼν ἀπερείσι' ἄποινα,
πατρὸς δ' ἐν μεγάροισι βάλ' Ἄρτεμις ἰοχέαιρα.
Ἕκτορ ἀτὰρ σύ μοί ἐσσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ
ἠδὲ κασίγνητος, σὺ δέ μοι θαλερὸς παρακοίτης·
ἀλλ' ἄγε νῦν ἐλέαιρε καὶ αὐτοῦ μίμν' ἐπὶ πύργῳ,
μὴ παῖδ' ὀρφανικὸν θήῃς χήρην τε γυναῖκα·
λαὸν δὲ στῆσον παρ' ἐρινεόν, ἔνθα μάλιστα
ἀμβατός ἐστι πόλις καὶ ἐπίδρομον ἔπλετο τεῖχος.
τρὶς γὰρ τῇ γ' ἐλθόντες ἐπειρήσανθ' οἱ ἄριστοι
ἀμφ' Αἴαντε δύω καὶ ἀγακλυτὸν Ἰδομενῆα
ἠδ' ἀμφ' Ἀτρεΐδας καὶ Τυδέος ἄλκιμον υἱόν·
ἤ πού τίς σφιν ἔνισπε θεοπροπίων ἐῢ εἰδώς,
ἤ νυ καὶ αὐτῶν θυμὸς ἐποτρύνει καὶ ἀνώγει»

[...]

Ὣς εἰπὼν οὗ παιδὸς ὀρέξατο φαίδιμος Ἕκτωρ·
ἂψ δ' ὃ πάϊς πρὸς κόλπον ἐϋζώνοιο τιθήνης
ἐκλίνθη ἰάχων πατρὸς φίλου ὄψιν ἀτυχθεὶς
ταρβήσας χαλκόν τε ἰδὲ λόφον ἱππιοχαίτην,
δεινὸν ἀπ' ἀκροτάτης κόρυθος νεύοντα νοήσας.
ἐκ δ' ἐγέλασσε πατήρ τε φίλος καὶ πότνια μήτηρ·
αὐτίκ' ἀπὸ κρατὸς κόρυθ' εἵλετο φαίδιμος Ἕκτωρ,
καὶ τὴν μὲν κατέθηκεν ἐπὶ χθονὶ παμφανόωσαν·
αὐτὰρ ὅ γ' ὃν φίλον υἱὸν ἐπεὶ κύσε πῆλέ τε χερσὶν
εἶπε δ' ἐπευξάμενος Διί τ' ἄλλοισίν τε θεοῖσι·
«Ζεῦ ἄλλοι τε θεοὶ δότε δὴ καὶ τόνδε γενέσθαι
παῖδ' ἐμὸν ὡς καὶ ἐγώ περ ἀριπρεπέα Τρώεσσιν,
ὧδε βίην τ' ἀγαθόν, καὶ Ἰλίου ἶφι ἀνάσσειν·
καί ποτέ τις εἴποι πατρός γ' ὅδε πολλὸν ἀμείνων
ἐκ πολέμου ἀνιόντα· φέροι δ' ἔναρα βροτόεντα
κτείνας δήϊον ἄνδρα, χαρείη δὲ φρένα μήτηρ».
Ὣς εἰπὼν ἀλόχοιο φίλης ἐν χερσὶν ἔθηκε
παῖδ' ἑόν· ἣ δ' ἄρα μιν κηώδεϊ δέξατο κόλπῳ
δακρυόεν γελάσασα· πόσις δ' ἐλέησε νοήσας,
χειρί τέ μιν κατέρεξεν ἔπος τ' ἔφατ' ἔκ τ' ὀνόμαζε·
«δαιμονίη μή μοί τι λίην ἀκαχίζεο θυμῷ·
οὐ γάρ τίς μ' ὑπὲρ αἶσαν ἀνὴρ Ἄϊδι προϊάψει·
μοῖραν δ' οὔ τινά φημι πεφυγμένον ἔμμεναι ἀνδρῶν,
οὐ κακὸν οὐδὲ μὲν ἐσθλόν, ἐπὴν τὰ πρῶτα γένηται.
ἀλλ' εἰς οἶκον ἰοῦσα τὰ σ' αὐτῆς ἔργα κόμιζε
ἱστόν τ' ἠλακάτην τε, καὶ ἀμφιπόλοισι κέλευε
ἔργον ἐποίχεσθαι· πόλεμος δ' ἄνδρεσσι μελήσει
πᾶσι, μάλιστα δ' ἐμοί, τοὶ Ἰλίῳ ἐγγεγάασιν».
Ὣς ἄρα φωνήσας κόρυθ' εἵλετο φαίδιμος Ἕκτωρ
ἵππουριν· ἄλοχος δὲ φίλη οἶκον δὲ βεβήκει
ἐντροπαλιζομένη, θαλερὸν κατὰ δάκρυ χέουσα.
αἶψα δ' ἔπειθ' ἵκανε δόμους εὖ ναιετάοντας
Ἕκτορος ἀνδροφόνοιο, κιχήσατο δ' ἔνδοθι πολλὰς
ἀμφιπόλους, τῇσιν δὲ γόον πάσῃσιν ἐνῶρσεν.
αἳ μὲν ἔτι ζωὸν γόον Ἕκτορα ᾧ ἐνὶ οἴκῳ·
οὐ γάρ μιν ἔτ' ἔφαντο ὑπότροπον ἐκ πολέμοιο
ἵξεσθαι προφυγόντα μένος καὶ χεῖρας Ἀχαιῶν.


APPENDICE

I versi (sopra riportati) relativi alla danza di Ares sono gli stessi da cui prende spunto il professore Ignazio E. Buttitta per il suo «La danza di Ares. Forme e funzioni delle danze armate» (Bonanno Editore) di recentissima pubblicazione: eccellente saggio in cui l'epos (soprattutto) greco, l'ethos sotteso a certi rituali romani, il carattere popolare di alcune tradizioni ancora oggi vive, si fondono restituendoci un quadro il cui supporto è la tela dello "studio dell'uomo". Attraverso il dipanarsi di una sorta di narrazione ininterrotta (che ha il sapore dei rilievi continui "arrotolati" sulle colonne coclidi), l'autore ci accompagna insieme ad Ares lungo tremila anni di "storia dell'uomo".

Ivo Flavio Abela