lunedì 10 ottobre 2016

«Il destino del papa russo» di Mauro Mazza

Quando lessi, navigando su Internet, le prime recensioni su «Il destino del papa russo» di Mauro Mazza, decisi di acquistare il libro poiché mi attrae tutto ciò che parla della Russia. Così come la possibilità - al momento piuttosto fantascientifica - che un giorno possa essere eletto un pontefice russo. Dunque ordinai il libro, pur non aspettandomi di leggere un capolavoro di narrativa (di regola mi riesce difficile trovare un giornalista che sia anche un vero scrittore).

La storia in sintesi. Papa Bergoglio è morto. Viene convocato il conclave, ma i signori cardinali non riescono ad accordarsi sul nome di qualcuno che valga la pena eleggere e che sia capace di guidare la Chiesa in un'epoca talmente complessa: quella in cui si tenta di far trionfare il Nuovo Ordine Mondiale, con la complicità della Massoneria che campeggia in alcuni luoghi del libro, a partire da un prologo in cui un cosiddetto Referente controlla sistematicamente (minuto per minuto), anche grazie a una serie di monitor disposti alla sinistra dell'ingresso della stanza in cui lavora, tutto ciò che avviene nel mondo, ma soprattutto nel cuore di questo conclave al quale stanno partecipando tre cardinali segretamente massoni.

Per evitare che il conclave si protragga, col rischio di dare ai cattolici - esternamente - la sensazione che il collegio cardinalizio sia spezzato, uno dei cardinali esprime un'idea risolutiva: far venire a Roma l'arcivescovo russo di San Pietroburgo, amico fin dall'adolescenza di Vladimir Putin, ed eleggerlo pontefice in nome di un regolamento formalizzato da Giovanni Paolo II nel 1998 (sulla base del quale non è necessario che debba essere eletto pontefice esclusivamente un cardinale).

L'arcivescovo accetta e raggiunge Roma il giorno dopo avere ricevuto la comunicazione, dopo avere compiuto un'ultima, nostalgica passeggiata per le vie della città russa. Viene dunque annunciato l'«Habemus Papam» e non passa inosservato il fatto che non venga pronunciata, nel corso dell'annuncio, la parola «cardinalem», ma - correttamente - «archiepiscopum».

Noia. Ritmo lento ed estenuante. Tutti sembrano nuotare in un mare di difficoltà, compresa la Massoneria che appare affetta dalla stessa "minchionerìa" della quale don Rodrigo risulta malato nel romanzo manzoniano (e che denuncia - nel suo caso - un'impotenza forse fisiologica più che metaforica).

Alla fine non si può fare altro che ammazzarlo questo papa Metodio, soprattutto quando (dopo un incontro segreto con il patriarca Kirill di Mosca) fa trasparire il progetto di una riunificazione della Chiesa Cattolica con quella Ortodossa, con grave scorno per la Massoneria minchiona. E pure per gli States.

Inutile dire quanto tutto ciò ricordi la morte di Albino Luciani, peraltro spesso citato dall'autore, anche per la menzione del metropolita russo ortodosso Nikodim, morto realmente fra le braccia di papa Giovanni Paolo I (durante un colloquio forse finalizzato a comunicare al pontefice il suo passaggio alla fede cattolica). Singolare risulta poi il fatto che l'autore premetta al libro un elenco dei personaggi (anche alquanto nutrito). Io - lettore ingenuo... - ho pensato: «Vuoi vedere che questo è un romanzo polifonico, in puro stile tolstojano?». Se tale fosse la presunzione dell'autore, ebbene... il fallimento risulterebbe ancora più evidente.

Una grande bluff. Enorme. Frutto del più bieco noir impastato di infantile complottismo. Chi mi risarcisce ora 16.00 euro?

Ivo Flavio Abela

venerdì 8 luglio 2016

«Impara a pronunciare bene la realtà»: «La preghiera della letteratura» di Andrea Caterini

«Una traslitterazione del suono fatta dallo sciabordare
Delle piccole onde quando la luna si allontana e la casa
Si avvicina alla riva, ci potrebbe rivelare molte cose. Sulle
Vette dei sensi prima di tutto. Dove la gentilezza arriva
Sempre prima, scavalcando la forza: un luminoso celeste
Color pistacchio, il ciottolo incandescente, passi solitari del
Vento sulle foglie. O altrimenti: una metopa, una cupola
Che rendono lineare la natura come lo sciabordìo rende
Universale la lingua greca.

Impara a pronunciare bene la realtà»

Odysseas Elytis, «Incenso al migliore», XXV

Ho definito un breve canone di libri – fra i tanti che ho letto – da me molto amati. Non ho mai fatto mistero della potente attrazione su di me esercitata da tutto ciò che è ortodosso. E ciascuno di quei libri mi ha offerto la chiave per interpretare il significato della contemplazione e il desiderio di ascesi: i «Racconti di un pellegrino russo» (lettura affrontata per la prima volta nei giorni immediatamente seguenti un evento traumatico, quando – scomparso un punto di riferimento – cercavo di ritrovare quel Nord che avevo perduto) mi introdussero alla preghiera del cuore e al modo in cui ogni respiro può diventare – ritmicamente, sistemicamente e ontologicamente (mi si perdoni l'uso reiterato degli avverbi) – parte della preghiera stessa; «Teologia della bellezza» di Pavel Evdokimov mi svelò l'equivalenza fra arte figurativa e preghiera; «Le porte regali» di Pavel Florenskij mi insegnò che il passaggio dall'umano al divino può avvenire anche nella quotidianità; «Autobiografia di uno starec» di Paisij Veličkovskij mi fece comprendere quanto sia faticoso riconoscere una vocazione e perseguirla; «Santi di tutti i giorni» di Tichon Ševkunov, più recentemente, mi ha aiutato a guardare con leggerezza, arguzia, tenerezza, umanità, amore, alle vite dei monaci russi e di tanta gente comune che ha fatto della preghiera (perché vivere lasciando respirare il divino in se stessi è preghiera) il proprio stile di vita. E – nota ludica – mi sembra simpatico il calembour facente sì che il cognome dello "zar" Vladimir Vladimirovič risulti contenuto in quello del diabolico starec al quale era tanto devota la zarina Alexandra Fëdorovna Romanova, se è vero che Ševkunov viene oggi definito «il Rasputin di Putin».

Aggiungo oggi un sesto libro: «La preghiera della letteratura» di Andrea Caterini. Avevo già letto il suo commento a «Il sogno di un uomo ridicolo» di Fëdor Dostoevskij. L'efficacia espressiva priva di orpelli, fresca, pulita (che del resto ravvisavo in molte sue recensioni) me l'aveva fatto apprezzare. Anche perché quel commento era stato scritto con la foga di chi è pressato dall'urgenza di esprimersi, dalla necessità di comunicare e di condividere, dall'amore per quanto è letteratura e bellezza.

Ma che cosa può avere in comune il saggio scritto da un critico (giovanissimo, ma già dotato di invidiabile formazione e di raffinate competenze ermeneutiche) con l'Ortodossia, con la contemplazione e l'ascesi? Lo trovo – e non è tautologia – semplicemente molto ortodosso. Soprattutto lungo la prima settantina di pagine. E poi nel capitolo conclusivo, dedicato anch'esso, come il commento già citato, a Dostoevskij. Il colore, la singolarità, le isotopie di un testo passano attraverso la lingua. E nella lingua di Andrea prende forma una dimensione ieratica che rende "credo" l'ontologia della letteratura: chi affida se stesso ai misteri e ai dogmi della letteratura professa una fede; chi – esercitandola – pronuncia la letteratura (leggendola o scrivendola, cioè attualizzando in segni precisi il magma concettual-verbale racchiuso nel proprio animo e all'interno dei libri) prega. E può, tale preghiera (enfovirgole volute), diventare incessante quando è esercizio continuo. Tutto ciò passa anche attraverso riferimenti a testi e ad autori che non necessariamente sono legati ad atmosfere ecclesiastiche orientali: la «Genesi», Giovanni della Croce, Shabtai, Betocchi, Tolstoj, Grossman, Lewis, l'Achmatova, Čechov (colui che, a differenza di Tolstoj, mai giudicò, limitandosi a ritrarre ciò che vedeva, secondo la citazione di Irène Némirovskij, riportata da Andrea alla pagina 45. Anche «perché solo riconoscendo le miserie degli altri come fossero nostre si può pensare di "diventare migliore"», p. 47).

Fin dalle prime pagine del libro, quello della preghiera si profila come un linguaggio imparato a posteriori rispetto alla lingua materna. Se quest'ultima ci consente di nominare ciò che ci circonda, fungendo anche da strumento conoscitivo usato per impadronirci della realtà, il linguaggio della preghiera ci aiuta a tornare alla dimensione edenica cui siamo stati strappati dai nostri biblici progenitori. Dacché Eva ha ceduto alla tentazione del serpente e Adamo l'ha maldestramente assecondata, l'uomo ha assunto la consapevolezza innanzitutto della propria nudità, poi di tutto il male insito nella fatica del vivere. Dio ne ha comunque avuto misericordia, se è vero che in «Levitico» 25 si ricorda come abbia concesso all'uomo una tregua: «Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi». Per un anno all'uomo Dio concede di vivere come Adamo ed Eva erano vissuti nell'Eden.

«Sacrificio di Enea ai Penati»
(Ara Pacis Augustae, Roma)
Analogamente il Pius Aeneas (il concetto di pietas viene rivisitato, nel contesto creato da Caterini, sulla scorta delle riflessioni di Simone Weil e di T. S. Eliot), mantenendosi fedele alla missione decisa per lui dal Fato, reduce dalla distrutta Ilio, abbandona il proposito di una possibile, comoda vita da re di Cartagine, sposo della regina Didone, pur di approdare alle coste del Lazio per compiere quello che Andrea definisce un atto di fondazione-fecondazione, cioè – ancora una volta e per dirla in termini sempre biblici – per ricostruire l'Eden perduto (il pensiero corre a Tito Livio e al primo Proemio ad «Ab Urbe condita libri», in cui è ben illustrato il senso di una concezione provvidenzialistica della Storia, sulla base della quale Roma non poteva che diventare la Caput mundi). La ricostruzione viene avviata anche a costo della perdita del senso di comunità da parte di quanti avrebbero abitato il nuovo Eden latino: la pace imposta loro da Enea avrebbe senz'altro sottratto ai romani l'idea della necessità di una reciprocità, di un rapporto interpersonale da gestire con acume ed equilibrio per garantire la pace stessa. Tale dettaglio rientra in quell'assenza di consapevolezza che Caterini sottolinea essere una delle caratteristiche più significative dello stato edenico, se è vero che in esso Adamo non si rendeva neanche conto d'essere nudo.

«Anástasis» dalla Chiesa del Salvatore di Chora (Istanbul)
Nonostante tutti i tentativi ("confessionali" o laici) di ripristinare lo stato edenico – ci avvisa Caterini quando parla di Betocchi (si veda in particolare la pagina 88) – la disobbedienza dei nostri progenitori ha scavato un solco profondo fra noi e la nostra vita, anzi una voragine («E so quanto la vita sia discorde / con se stessa», stando alle parole di Betocchi stesso) che non ci permette di vedere compiuta e unita in noi la vita stessa (è il "diabolico", nell'accezione etimologica dell'originaria parola greca, ovvero "ciò che separa", l'elemento che fa soffrire l'essere umano). La letteratura diventa allora una preghiera mediante la quale l'essere umano cerca di restaurare il proprio Eden perduto, ripristinare l'unità infranta, tornare a contemplare il divino.

Alphonse Mucha
«Russia restituenda»
Per "pregare" la letteratura è necessario però scendere agli inferi della condizione umana e della coscienza, umiliandosi: l'umiliazione (il riconoscimento del proprio errore, della vergogna del proprio corpo, di ciò che di torbido s'è impresso nell'anima) apre le porte all'umiltà che ci riconduce al divino, non diversamente da quanto accade a Dostoevskij [stando anche alla lettura che Gide dà della "resurrezione" dello scrittore russo, reinterpretata dallo stesso Caterini alla pagina 116. E a me non può non tornare in mente il magnifico affresco dell'Anástasis dalla Chiesa del Salvatore di Chora (Istanbul), in cui Cristo discende agli inferi (umiliando se stesso pur di liberare Adamo ed Eva) per poi gloriosamente risorgere]. E analogamente a quanto avviene nella trasfigurazione di Anna Achmatova che «nei versi di Requiem non somiglia, ma appunto è la "Madre di Dio", un simbolo, una realtà – un'icona insomma – sul cui volto si esprime l'eternità, la luce di ogni madre che ora la osserva e vi si riconosce – riconosce la forma stessa di una patria vergine: il paradiso che ha sognato» (p. 71). Il capitolo sulla poetessa russa è altamente suggestivo, coraggioso, ardito, se è vero che l'Achmatova viene identificata – per dirla grecamente – con la Panaghìa in nome della purezza e del mistero magnifico della maternità.

In un mondo ormai privo di punti di riferimento, di modelli positivi, in una società rosa dall'odio (anche religioso) e dall'arrivismo, dalla vacuità e dalla fiacchezza tanto intellettuale quanto spirituale, Andrea Caterini restituisce dignità alla parola e alla necessità di concentrarsi su essa. Ci invita a scandirla come si fa quando si recita una preghiera, perché proprio la preghiera consente all'uomo di ritrovare quella parte divina di sé dalla quale è stato separato. Parlare, inoltre, equivale a pronunciare la realtà, per usare un'espressione di Odysseas Elytis. Pronunciare bene la realtà è ripristinare la possibilità di tornare a vivere, in essa, con Dio. Perché di fatto – ci ricorda Andrea – Adamo ed Eva hanno creduto di avere perduto l'Eden. In verità non se ne sono mai allontanati: hanno soltanto smarrito la possibilità di coabitarvi con Dio. Dunque fiat verbum. Nunc et semper.

Ivo Flavio Abela


lunedì 27 giugno 2016

«Giordano» di Andrea Caterini. Un caso di rinascita attraverso la Letteratura

Diego era uno studente universitario, appassionato di letture impegnate, avvezzo alle scorribande con i coetanei e alle ubriacature, leggermente snob come tale spesso risulta chi sa tanto perché tanto legge e tanto impara. Adesso, a distanza di una decina d'anni dai fatti, è un uomo ancora giovane, ma ha acquisito quella maturità e quella saggezza che gli sono state verosimilmente trasmesse proprio dalle humanae litterae, per usare un'espressione verbale che viene spesso (e a ragione stando alla radice) associata all'humus di cui l'uomo è fatto. Decide dunque di rivivere le sofferenze che hanno segnato la vita del padre: il fallimento di un'attività artistico-commerciale (per Giordano quella del fabbro è un'arte per la quale sa di possedere un autentico talento), la malattia giunta di colpo e poi ripresentatasi ricorsivamente e ossessivamente nell'animo impaurito dell'uomo, la crisi del proprio matrimonio con una donna profondamente amata e desiderata, il senso di deprimente immobilità insito in un lavoro di ripiego, compiuto negli inferi di una sotterranea rimessa per auto di ogni tipo. Diego, violentandosi, soffrendo, facendosi male, sceglie di rivivere sulla propria pelle, nella propria anima, tutto il dolore di quel padre che egli non ha saputo comprendere all'epoca dei fatti, e verso il quale ha talvolta manifestato un certo sprezzante snobismo dovuto alla presunzione tipica del brillante studioso di Lettere e di Filosofia. Ma - e qui risiede il nucleo magnifico del suo scritto - scegliendo di rivivere i tormenti paterni, compie un atto d'infinito amore: riesce a "ripagare" umanamente Giordano. Ed è facile e bello potere immaginare che Giordano sia fiero di Diego perché Diego è il più bel traguardo raggiunto nella propria vita.

A partire dalle primissime pagine, che si aprono con un incipit capace di inchiodare subito l'attenzione del lettore e di spingerlo a consumare l'atto della lettura con lo stesso ritmo incalzante col quale il libro stesso appare scritto, ci si trova proiettati in un ambiente chiuso: una sorta di carcere esistenziale in cui si rifugia l'uomo che sente di avere fallito. Ma la vita è scritta nel nome stesso di Giordano, che è peraltro quello del fiume in cui il Precursore battezzò Cristo. L'acqua di una provvidenziale pioggia scrosciante farà il resto. La rinascita è vicina. Inizia a desiderarla Giordano. La vuole per lui Diego che, quasi assolvendo al ruolo di un nuovo Precursore, usa la parola per somministrare al padre il battesimo della salvezza. Perché la Letteratura ha il potere di risarcire ed è capace di fare rinascere a nuova vita.

Ivo Flavio Abela