venerdì 31 marzo 2017

«Passaggio in Sicilia» di Massimo Onofri. Riflessioni e cortocircuiti associativi

Sono stato invitato a presentare «Passaggio in Sicilia» di Massimo Onofri due settimane prima della presentazione stessa. Lo avevo acquistato in tempi non sospetti, quando non immaginavo certo che un giorno avrei dovuto parlarne con l'autore, peraltro presso il Liceo in cui sto insegnando. Ma l'avevo messo da parte, ripromettendomi di leggerlo se i ritmi della quotidianità mi avessero permesso di farlo. Ricevuta la richiesta, sono corso ai ripari. Diversamente da quanto immaginavo, leggere le trecentonovantuno pagine scritte da Onofri non mi è costato fatica: le ho consumate in un solo giorno, una domenica, concedendomi anche qualche intervallo dedicato a un'altra lettura che avrei pure dovuto completare in tempi brevi. Se ciò è stato possibile, significa che il libro lo permette (è scritto con accattivante leggerezza). Eppure è denso di dati, citazioni e riferimenti bibliografici, dettagliate descrizioni di luoghi (città, strade, edifici, locali nei quali si possono mangiare specialità gastronomiche e dolciarie), vicende storiche, personaggi vivi e morti.

«Passaggio in Sicilia» è un resoconto di viaggio: quello che Onofri ha compiuto in Sicilia, insieme ad alcuni amici e allievi, seguendo un percorso antiorario quasi sempre coincidente con il perimetro dell'isola (da Palermo a Messina, con qualche deviazione dovuta a motivi logistico-geografici). È una dotta guida turistica. Ma pure una summa della Letteratura Siciliana di oggi, che contempla soprattutto autori e titoli poco o per nulla noti ai siciliani stessi come, solo per riportare un esempio significativo, Michele Perriera (che a me stesso oggi è noto grazie innanzitutto a un conoscente, Domenico Calcaterra, che ha del resto pubblicato una monografia dal titolo «Perriera sentimentale»).

La Sicilia di Massimo non è affatto oleografica. Lo sottolineo per motivi che appariranno chiari più avanti. In questa mia riflessione, al momento sento di dovere tornare indietro di qualche anno, cioè al 2012. Il 31 dicembre di quell'anno Francesco Merlo pubblicava su «Repubblica» un articolo dal titolo «La sicilitudine e l'imbroglio dell'identità. Siamo tutti melanzane confuse». Ecco che cosa racconta: «Quando lavoravo a Milano ho conosciuto un correttore di bozze che invitava a casa solo siciliani, il menù era pasta alla norma, baccalà alla messinese e cannoli di ricotta, sul giradischi metteva "Ciuri ciuri", aveva la casa decorata come un teatro dei pupi, ci chiamava tutti "mpare" e incoraggiava il figlio sempre allo stesso modo: "Ricordati che sei siciliano". Gli feci notare che il ragazzo era cresciuto a Milano, era nato a Como, la madre era di Piacenza. Mi guardò storto: "Il sangue siciliano non è acqua". E certe volte mi diceva: "Ti parlo da siciliano". Oppure: "Scusa le mie contorsioni da siciliano". Prima pensai che non era siciliano ma scemo. Poi decisi che, nel suo caso, ‘siciliano’ e ‘scemo’ erano sinonimi».

Qualche anno fa (credo fosse il 2010) seppi della presentazione, alle Ciminiere di Catania, di «Sicilia, o cara» di Giuseppe Culicchia. Conoscendo il libro, immaginai che il viale Africa di Catania fosse, quella sera, percorso da tanti carretti siciliani sui quali sedevano comari con gli scialli orlati di merletto e tirati su fino alla fronte, in un tripudio di pizzi e fazzoletti ricamati e di caviglie appena scoperte. I loro uomini (coppola in testa, marranzanu appeso al collo e all'uopo portato alla bocca, coltello al fianco, fasciona rossa a cingere le vita) sedevano accanto alle loro mogli e, con fare spertu (tanti compari Alfî insomma), reggevano le redini con cui guidavano i cavalli. Tenevano però a bada con lo sguardo le donne e guai se le poverette avessero volto gli occhi, avidi come succose pesche vulviformi, verso la strada. Era tutta una festa di sonorità tipiche miste a versi di canzoni siciliane, di fichi d'India che venivano privati della scorza spinosa da scalzi viddani disposti ad ogni angolo di vanedda e di trazzera, ad ogni pizzuddu libero di piazza, di bummuli dipinti che venivano lanciati in aria e riacciuffati con maestria da ominazzi (nenti omini, menzi omini, ominicchi, quaquaraquà. Men che meno pigghianculu) cu a facci tagghiata. «Immaginai» dicevo prima. Perché «Sicilia, o cara» di Giuseppe Culicchia recava, praticamente stampata su ogni pagina, la cartolina della Sicilia in bianco e nero (o sovradipinta a posteriori) con la scritta «Saluti da...». Forse quella sera s'erano dati appuntamento pure tutti i camillerian-montalbaniani (un po' meno, forse, i camillerian-redigirgentani). Perché solo certi terremotati cognitivi non hanno ancora compreso che la globalizzazione ha toccato pure la Sicilia. E che una cosa è scrivere con la consapevolezza che, pur parlando di una Sicilia da Malavoglia, quella Sicilia comunque non esiste più, un'altra è scrivere ignorando scientemente (e non è un ossimoro) che i Malavoglia esistono ormai solo sulle pagine di Verga o di certe guide turistiche vendute insieme ai souvenir in pietra lavica e dotate del profumo di fiori di zagara ormai irrimediabilmente marciti.

Ecco: Camilleri. E il grande bluff Montalbano, la cui lingua andrebbe riconsiderata: una parlata che non sta né in cielo, né in alcun luogo della terra di Trinacria. Inautentica, ruffiana, stucchevole. Se si pensa che Camilleri è stato anche sceneggiatore della serie televisiva con Montalbano protagonista, si ha la prova di quanto egli sia pertinace nel proporre un modello linguistico discutibile (non mi serve sapere che la lingua di Camilleri venga spacciata per lingua d'arte) e una Sicilia fatta di macchiette, di residenze dai soffitti alti e dalle ampie camere una dentro l'altra (arredate con mobili d'epoca generalmente ispirati a certo barocco palermitano), di donne vestite e acconciate come Maria Callas all'epoca in cui sperava di sposare Aristoteles Onassis. E nel pensare in simili termini a Camilleri, mi sento alquanto confortato dallo stesso Onofri che non gli ha invero dimostrato tanta stima, se lo stesso empedoclino, nel libro 
«Il nipote del negus» del 2010, lo avrebbe ridimensionato, anzi (direi) proprio rimpicciolito, inserendo un personaggio di nome Minimo Onofri, reo di appropriazione indebita proprio - pensa Massimo - della professione di critico.

Mi sono lasciato prendere la mano. Ma l'ho fatto perché amo la Sicilia tratteggiata da Onofri: non quella appunto da cartolina, ma un'isola non diversa da tante altre, in più connotata da una dimensione individualistica. Massimo si distacca, cioè, dalla categoria sciasciana della sicilitudine (in 
«Sicilia e sicilitudine» Sciascia - è noto - affermava che la sicilitudine è il risultato di quel complesso di abitudini, di modi di pensare e di elaborare la realtà, tipica appunto dei siciliani, quasi l'essere siciliano si trasmetta, come lo stesso Massimo ricorda, attraverso il liquido seminale). Sceglie invece la categoria bufaliniana della isolitudine, riferita all'universo di chi vive in qualsiasi contesto isolano. L'isolitudine è una sorta di doppia solitudine: quella insita nel vivere all'interno dei confini dell'isola, oltre i quali non v'è più terra, e quella implicita nel vivere isolati. E l'isolitudine ha pure un doppio risvolto: l'azione positiva che essa provoca sull'isolato, il quale deve darsi da fare per essere sufficiente a se stesso, e la solitudine che può farne un essere frustrato, talvolta roso dal delirio d'onnipotenza.

Che, ad onta di questioni bizantine quali quella relativa all'identità, l'isolitudine sia la condizione tipica di chi vive su un'isola qualsiasi, del resto emergeva già dal volume «Isolitudine. Scrittrici e scrittori della Sardegna» (Iacobellieditore, 2010) di Laura Fortini e Paola Pittalis, in cui si affrontava lo sviluppo della Letteratura Sarda da Grazia Deledda a contemporanei come Michela Murgia. E proprio il concetto di isolitudine si attaglia perfettamente, per fare un esempio, alla situazione in cui versa il servizio di trasporto offerto dalla Tirrenia nel tratto che collega la Sardegna alla Sicilia: «ascensori guasti, cabine consegnate per pulite e invece coi letti disfatti, saponette usate e capelli nei lavandini. E non voglio parlare dell'odore di muffa perenne, ormai metafisico, che emana dalle poltroncine di seconda classe, o quello di legno scrostato dei tavolini del bar» (contro il quale il vanitoso autore chic sfodera e spruzza, in una sorta di climax, un campioncino di Royal Oud di Creed, poi «il fiorentino Lorenzo Villoresi, fragranza Uomo; il parigino Mancera Lemon Line. Profumi da usare così, in successione ascendente, per sconfiggere ogni puzzo»).

Mi attrae quel gioco di ossimori che Massimo concepisce: la nostalgia per una donna che comunque si possiede, la Palermo che non esiste, la Messina "senza". Palermo, nell'edizione parigina del 1765 dell'
«Encyclopédie», risulta così definita: «In latino "Panormus"; città distrutta della Sicilia, nel val di Mazara, con un arcivescovado e un piccolo porto. Palermo, prima della sua distruzione causata da un terremoto, disputava a Messina il titolo di capitale» (ed ecco dunque una Palermo che c'è e non c'è). Messina fu privata di se stessa in particolare dal sisma del 1908, che distrusse, a causa del maremoto abbattutosi sulla città, innanzitutto la palazzata: il primo elemento scorto da chi veniva dal mare, la cui costruzione era stata iniziata il 27 agosto del 1622 (ed eccoci al cospetto della Messina senza se stessa o parte di se stessa).

Esiste anche una città gaudente: Catania che è infatti felix, se è vero che il suo centro storico ospita serenamente il quartiere della prostituzione. E a questo punto non posso non pensare a un libro di Domenico Trischitta (uno dei tanti scrittori che infestano ormai, come tante bibliche cavallette, l'etra editoriale siculo), cioè «Una raggiante Catania» (così intitolato da una canzone di Carmen Consoli, autrice e interprete che, ad onta della sua sgradevole voce, delle sue insopportabili moine, viene pure portata in palmo di mano - mi si dice - nell'ambito accademico catanese). In tale libro quella Catania carnale si manifesta compiutamente (sebbene vi si faccia riferimento più al nuovo San Berillo. Peraltro, qualche anno fa, Trischitta fu intervistato da Fulvio Abbate, citato da Massimo Onofri in «Passaggio in Sicilia», nel corso di una puntata di quello strano contenitore dall'atmosfera - non so quanto sinceramente - proletaria che è Teledurruti. E Abbate narrava proprio di una sua visita a Catania, dove Trischitta gli aveva fatto da guida in quelle "bellissime" aree cittadine gravitanti intorno alla via Di Prima e alla via delle Finanze. E, a proposito di ossimori, si pensi al fatto che la città dedita al sesso mercenario considera propria protettrice una giovane donna, Agata, che preferì subire il martirio pur di non rinunciare alla purezza che Quinziano voleva violare).

Concludo. «Passaggio in Sicilia» segue «Passaggio in Sardegna», ancora di Massimo: due libri e due isole. «Se in Sardegna il silenzio e la solitudine s'increspano in paesaggio, in Sicilia, invece, anche la natura più remota t'appare sempre come il risultato di una qualche civiltà, d'un coro di voci e di echi. Difficile non sentire, anche percorrendo il più impervio dei sentieri, il sospetto di un'orma, fosse quella d'un sicano, un normanno o un saraceno» scrive del resto l'autore (anche sul retro di copertina). E lo fa a suggerirci che, se in Sardegna sembra dominare la fissità di una natura nella quale tutto viene riassorbito fino all'annullamento del tempo, in Sicilia, invece, tutto si fa Storia: tutto è scorrere incessante del tempo stesso.

Ivo Flavio Abela

Alla presentazione, avvenuta il 1° febbraio 2017, partecipava anche il prof. Ignazio E. Buttitta, amico e già collega di Massimo all'Università di Sassari (peraltro è anche personaggio di «Passaggio in Sicilia» insieme a tutta la famiglia Buttitta, a partire dal celebre nonno poeta). Ma soprattutto cito qui Ignazio in veste di fraterno amico al quale sono davvero grato. Ciò che fin qui è stato detto è anche ciò che quella sera è stato discusso nella mia breve relazione di presentazione. Quantomeno è ciò che ricordo di avere detto...