lunedì 17 aprile 2017

Familiarizzarsi con la morte. «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia

«La bellezza che resta». Dalle parole di Renoir, ma il risultato è un titolo vagamente dostoevskijano. Non troppo però. Se si considera che questo libro sembra essere stato scritto per familiarizzarsi con la morte: quella del padre dell'autore, mai del tutto metabolizzata forse, se è vero che Fabrizio Coscia ha sentito la pressante necessità di scriverne così come ne ha scritto (a nulla sono serviti gli anni - per così dire - preparatori, durante i quali l'autore si è sottoposto a un trattamento psicoanalitico), quella che può colpire ciascuno di noi in qualsiasi momento e che si manifesta attraverso ogni minimo dolore procuratoci dalla vita quotidiana, quella che può colpire chi amiamo, strappandocelo e lasciandoci inermi al cospetto di un evento di enorme potenza e di quel mistero compiutosi pure davanti a Nataša Rostova, quando Bolkonskij spirò.

E proprio la scena della morte del principe tolstojano incarna lo spirito che la morte possiede per Coscia: un evento in grado di scatenare reazioni incontrollate e irrazionali, come volere gettarsi nella terra che sta accogliendo la bara del padre, il cui corpo è avvolto in un pigiama di seta blu. E sembra quasi di rileggere il racconto omerico dei riti funebri in onore di Ettore il glorioso: «... ed ecco che / Le bianche ossa raccolsero familiari e compagni / Gemendo. E il pianto scorreva abbondante lungo le guance. / Dopo averle prese, le posero in un'urna d'oro, / Avvoltele in morbidi pepli purpurei. / Quindi posero l'urna in una fossa profonda e da sopra / La ricoprirono con fitte pietre grandi» (la traduzione è mia). E già: perché pure per Coscia narrare è fare epos. Perché il modo di familiarizzare con la morte, il dolore universale in cui si raccolgono tanti dolori individuali (quello innescato dalla notizia dell'assassinio dei bambini di Beslan, il dolore provato davanti alle manciate di terra gettata sulla bara del padre, l'amarezza disperata dell'unica donna che inveisce contro gli assassini di Chadži-Murat, lo sgomento delle migliaia di persone accorse al funerale di Tolstoj, la rassegnata consapevolezza della fine vicina di Tadeusz Kantor e ancora tanti, tanti altri dolori), le vicende di scrittori, pittori, musicisti (pure quelle di Freud e del suo feticcio Mosé), sono trattati con uno spirito quasi epico (e non è un caso che proprio Omero venga chiamato in causa dall'autore).

«Rivedendo quelle immagini, riscoprivo così per l'ultima volta la bellezza di mio padre. La bellezza che resta, come diceva Renoir. Mi piaceva vederlo da giovane: mi rassicurava e leniva un poco il dolore della perdita. Il padre incupito, debole e invecchiato degli ultimi anni svaniva per sempre, lasciando il posto al giovane uomo sicuro di sé che era stato». La bellezza resiste alla morte e qui prende corpo in una scrittura luminosa e a tratti tenera, che tale si mantiene anche quando diviene struggente e lacerante. Una scrittura che è oggi necessaria perché tiene in vita la Letteratura e le restituisce quel senso e quella dignità che in tanti le hanno sottratto, perdendosi in inutili quanto patetiche controversie a chi sa più turbare e scandalizzare (ed è necessaria anche a noi per continuare a vivere): la Bellezza eterna non ha bisogno di scandalo.

Quando iniziai a leggere «La bellezza che resta», giunto alla pagina 25, riflettevo su ciò che stavo facendo. Avevo preparato il mio Moleskine per prendere appunti. Una penna. Una matita trovata nel cassetto dello scrittoio appartenuto a mio padre (che era pure lì, impresso sulla foto chiusa nella cornice d'argento). La matita era stata usata l'ultima volta da lui. Era bene appuntita (lui le lasciava appuntite per la volta successiva in cui le avrebbe usate). La usava (ne sono quasi sicuro) quando - nelle notti di gennaio, febbraio e marzo del 2008 - disegnava e scriveva perché non dormiva (a maggio sarebbe morto) a causa della malattia e della chemio. Si chiudeva nella camera in cui leggevo il libro di Fabrizio. Al mattino si trasferiva nella cucina-soggiorno e lo trovavo disteso e sonnecchiante sulla poltrona. Le gambe appoggiate su una sedia. Il plaid a quadri marroni sulle gambe. Sullo scrittoio un datario regalatogli tanti anni prima da un alunno, lasciato al 18 aprile, l'ultimo giorno da lui fissato con le proprie mani. Perché quello fu pure l'ultimo giorno in cui (barcollando con le gambe gonfie di liquido che non riusciva più ad espellere a causa della funzionalità renale ridotta e della metastasi epatica) riuscì a sedersi a quella scrivania. Poi venti giorni di inferno fino alla morte. Dicevo... giunto alla pagina 25, non avevo ancora preso un appunto. Ero solo riuscito ad apporre qualche segno su alcune pagine. E già avevo la netta sensazione - come lo stesso Fabrizio sottolinea - che la letteratura è parte della vita e non solo un mero rifugio da essa.

Da giorni preparo materiali per scrivere una sorta di recensione-saggio su questo libro, come è mia abitudine e come ho fatto per il precedente «Soli eravamo» dello stesso Coscia (qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html). Ma stasera ho preferito fare così. Scrivere in mezz'ora ciò che adesso leggete (usando anche qualche espressione da me già in precedenza vergata sul mio profilo facebookiano). Perché non riesco a fare altrimenti. Questo libro è intimamente legato a un momento strano, difficile, disorientante. E pure adulterato dalla cattiveria umana.

Insomma questa non è una recensione. E non è il testo che avrei voluto scrivere e sul quale lavoravo da un pezzo. Forse più avanti ne riparleremo... E del resto non voglio neanche rileggerlo.

Ivo Flavio Abela

N.B. Andrea Caterini è colui che ha voluto fortemente che questo libro fosse scritto. Questo testo è pure per lui.


domenica 2 aprile 2017

Il «magnifico» Arnaldo Colasanti

Lo scrittore Piero Aprile sta per partire: andrà finalmente negli States insieme alla crema della narrativa contemporanea. E potrà viaggiare in Magnifica, la business class di Alitalia, dove tutto risulta lussuoso, accessoriato all'esagerazione, splendido. Ma l'attesa per il check-in si trasforma in una complessa parentesi di analisi e autoanalisi, preludente a quella che, nelle recensioni che iniziano a circolare, viene paragonata a una discesa agli Inferi dell'editoria e del mercato librario contemporanei. Direi che, più di una discesa agli Inferi, Piero compie invece una complessa operazione di chirurgia necroscopica: una maniacale autopsia sul cadavere (una sorta di morto vivente) della letteratura di oggi, che corrisponde però ad un profondersi verso i meandri più reconditi della propria coscienza (azione rischiosissima e stressante. Il lettore si renderà conto, alla fine del libro, di quanto essa sarà risultata infelice e insostenibile per Piero).

«La magnifica» (Fazi Editore, 2017) è l'opera di uno scrittore con cui si vola alto. Egli è tale per la maestria con la quale maneggia una lingua che spazia dai registri più elevati a quelli dotati della freddezza tutta tecnica della perizia giurata, fino a quello disfemico (senza mai sprofondare in una volgarità gratuita). Si aggiunga la gioia narrativa con cui Arnaldo oscilla tra l'uso della prima e della terza persona, fino a scomodare un narratore onnisciente che talora giunge a spezzare la linea del racconto per apostrofare pure il lettore, il quale si sente quasi inerme dinanzi a tale esuberanza narrativa. Per non dire della vena creativa particolarmente prolifica che si concretizza in trame intrecciantisi in una sorta di confusione calviniana e pure umoristica (nel senso pirandelliano).

Colasanti si chiede (ma pure noi ce lo chiediamo insieme a lui) che cosa siano oggi la scrittura e la letteratura. E se sia ancora possibile dedicarsi ad esse onestamente, cioè se uno scrittore possa davvero essere autentico e dunque narrare la vita interiore secondo la verità. Perché i condizionamenti imposti in particolare dall'editore, il cui unico interesse è quello di fare soldi, hanno trasformato lo scrittore in nulla più di un mestierante che scrive soltanto storie sulla base dei gusti di un pubblico che vuole distrarsi, che non desidera riflettere attraverso la lettura, ma semplicemente essere intrattenuto nel più commerciale dei modi. Ecco dunque le staffilate che, tra le righe, Arnaldo infligge alle scuole di scrittura creativa (la Holden non viene certo risparmiata), all'appiattimento culturale e intellettuale di un pubblico che non si fa fatica a identificare con quello di Maria De Filippi o di certe fiction televisive, e che talvolta si materializza, nel corso del libro, in straordinari ritratti nell'ambito dei quali i dettagli fisici, estetici, i tentativi di apparire talora grotteschi compiuti dalla persona ritratta, i dettagli relativi ai capi di abbigliamenti e al modo in cui essi vestono soprattutto i corpi femminili, restituiscono le immagini di un'umanità stupida, banale, piatta, rispetto alla quale Mario (o Arnaldo?) si pone su un piano di superiorità tale da dargli la forza di rinunciare a quel mondo, a quel viaggio, a quella compagnia fatta di maschere (l'Esordiente, il Narratore arrivato, la Puerpera, il giovane accademico, ecc.), per vivere senza più condizionamenti ed in modo più vero. Allora pure operazioni come la ricerca di una toilette e lo svuotamento della propria vescica diventano una lotta finalizzata a liberarsi di tutte le menzogne che l'uomo, suo malgrado, si porta dietro come una zavorra. Il guaio è che l'unica forma di autenticità sembra garantita solo in una dimensione che non può affatto essere quella della vita quotidiana (se ne renderà conto il lettore, come già accennato, solo alla fine del libro. E con grande sua sorpresa).

Colasanti è stato bravissimo nel confezionare un libro che è come un vortice dal quale si viene attratti fino ad esserne riassorbiti. E da questo libro traspare la sua grande umanità, cioè la straordinaria qualità della sua natura. Perché «La magnifica» è comunque un libro in cui v'è sofferenza (anche nelle parti più umoristiche). Ho avuto la netta impressione che quel Piero Aprile non sia altro che Arnaldo. Credo che soltanto chi abbia vissuto sulla propria pelle la sofferenza dello scrittore isolato in un panorama letterario ipocrita e ostile, che è del resto quella dell'uomo condannato a stare ai margini della società in una dimensione vitale altrettanto a lui nemica, possa riuscire a scrivere in tal modo. E a toccarci così profondamente.

Ivo Flavio Abela

Il testo è dedicato a chi per primo mi ha fatto conoscere «La magnifica», cioè ad Andrea Caterini.