sabato 29 luglio 2017

La bellezza tutta umana di Takashi Paolo Nagai nel suo «Le campane di Nagasaki»

«L'uomo non è che un giunco,
il più fragile di tutta la natura;
ma è un giunco pensante»

Blaise Pascal


Ho deciso di leggere «Le campane di Nagasaki» (ripubblicato da Luni Editrice nel 2014) attratto più dal titolo che dal tema. Ma ho fatto bene. L'autore, Takashi Paolo Nagai (1908 - 1951), era un radiologo nato in seno a una famiglia shintoista, convertito al cattolicesimo dopo avere letto Blaise Pascal e avere conosciuto Massimiliano Kolbe. Visse un lungo periodo della propria giovinezza studentesca presso i signori Moriyama, una coppia di sposi cristiani di cui sposò poi la giovane figlia Midori. A causa di un principio di meningite divenne sordo all'orecchio destro e non fu in grado di completare i suoi studi di Medicina (una volta diventato medico, del resto, non avrebbe potuto usare lo stetoscopio). Ripiegò su quelli di Radiologia. Visse in prima persona lo scoppio della bomba atomica sganciata su Nagasaki (precisamente sull'area settentrionale del quartiere di Urakami) il 9 agosto 1945, alle 11:02 (il 6 agosto era stata sganciata quella su Hiroshima).

Midori
Quella mattina, proprio mentre il cielo veniva attraversato da un nefasto B29 che s'avvicinava sempre più sinistramente, Takashi si trovava all'interno del Laboratorio di Radiologia dell'Università di Nagasaki. Tale circostanza fu la sua salvezza: il Laboratorio era schermato contro radiazioni anche molto potenti, al punto da risentire relativamente dei novemila gradi di temperatura che l'aria avrebbe raggiunto al momento della deflagrazione e della vicinanza all'ipocentro dello scoppio (fra i cinquecento e i settecento metri). Altrettanto fortunati furono i figli di Takashi poiché erano stati condotti qualche giorno prima a casa della suocera, distante circa sei chilometri dal paese. La povera Midori, allora trentasettenne, si trovava invece nella propria casa. L'11 agosto Takashi, finalmente giuntovi, rinvenne ciò che di lei era rimasto: un mucchio di ossa che egli avrebbe portato via in un secchio (e che avrebbero emesso del rumore curioso, urtando contro le pareti del contenitore, ricorda l'autore). Nel mucchio delle ossa anche il rosario di Midori, segno del fatto che la donna era morta mentre pregava (e dato che arrecò all'ormai convertito Takashi una blanda e rassicurante consolazione). Quarantamila persone furono del resto incenerite all'istante (altre sessantamila sarebbero morte nei giorni successivi), compresa quella studentessa che l'autore si sarebbe pentito di avere trattato freddamente quella stessa mattina, poco prima della catastrofe. Secondo Takashi, che aveva assunto il nome di Paolo in occasione del battesimo cristiano, la scelta di Nagasaki da parte degli americani era stata casuale in quanto determinata da un cambio di rotta dell'ultimo minuto. Però, aggiunge lo scrittore, risulterebbe singolare il fatto che proprio a Nagasaki viveva una comunità cristiana la quale non solo era la più cospicua del Giappone, ma era pure riuscita a mantenere integra se stessa e i propri usi lungo il susseguirsi delle generazioni.

Nessuno dei sopravvissuti rimase inattivo: tutti cominciarono immediatamente a dare aiuto. Toccante è il senso di solidarietà e di amore nei confronti dei propri simili spirante dalle azioni di chi, dimentico di se stesso, delle condizioni proprie e di quelle dei parenti prossimi lasciati a casa, si prodigava per soccorrere chi stava peggio nelle immediate vicinanze. Enorme la pietà nei confronti dei tantissimi mucchi di ossa e cenere che erano stati, fino a poco prima, uomini e donne. Terribili le realistiche e impietose descrizioni degli effetti delle radiazioni sui sopravvissuti, a partire dai veri e propri "arabeschi" letteralmente impressi a fuoco sulla loro pelle, e spesso replicanti il disegno della trama o dei motivi decorativi del tessuto che aveva vestito quella stessa epidermide fino al momento della deflagrazione.

Nei giorni immediatamente successivi, lo stesso Takashi iniziò a visitare, con l'aiuto della sua équipe, tutte le famiglie dei borghi circostanti. Non si fermò per ben cinquantotto giorni. Infine, mentre la leucemia che gli era stata diagnosticata già da giugno lo attaccava in modo sempre più serrato, egli decise di stabilirsi a Urakami in una sorta di baracca di
Takashi Paolo Nagai con i figli Nakoto e Kayano
pochi metri quadrati, costruita con i materiali che una volta erano stati parte della casa che lo aveva accolto insieme a Midori. Volle che la nuova residenza assumesse il nome di Nyokodo («come te stesso» con riferimento al noto monito evangelico). Vi sarebbe rimasto insieme ai due figli fino al 1951, cioè fino alla morte che lo coglierà all'età di quarantatré anni. Fu padre tenero e amorevole, almeno per ciò che era nelle sue possibilità (una notte - egli racconta - «Kayano si mosse fra le mie braccia e, istintivamente, le sue manine cercarono il mio petto. Ma quando, nel dormiveglia, si rese conto che non era quello il dolce seno materno, si mise a piangere, piano, per non farsi sentire, e si riaddormentò piangendo»).

Le macerie della Cattedrale di Urakami
«Le campane di Nagasaki» va letto (nonostante il fatto che due dei vari capitoli risultino freddi e didascalici: l'uno illustra il funzionamento di una bomba atomica mediante talune considerazioni anche sopra le righe, l'altro riguarda gli effetti che la radioattività avrebbe avuto a lungo termine sulla popolazione di Nagasaki). Ma va soprattutto meditato: si veda, in particolare, l'appassionato discorso che Takashi avrebbe pronunciato durante la commemorazione funebre delle vittime. Non è un libro di morte o sulla morte, ma un saggio narrativo e riflessivo sulla speranza e sulla rinascita. Non a caso le campane rimaste sepolte sotto le macerie della cattedrale di Urakami, prontamente recuperate dai giovani Ichitaro ed Iwanaga, tornarono a suonare la notte di Natale del 1945 e quindi, dal sorgere del sole dell'indomani, suonarono ogni giorno (avevano taciuto per tutta la durata della guerra): «Nessuno più, fino al mattino che vedrà la consumazione dei secoli, impedisca loro di benedire l'umana fatica, di annunciare la pace di un altro giorno» si augura del resto la luminosa anima di Nagai.

Ivo Flavio Abela


«Notte abissina» di Fabrizio Coscia a undici anni dalla pubblicazione

«Ricordava, mio padre, in quei giorni, la sua infanzia in Africa, le gite a cavallo, le feste spiate dal ballatoio del piano di sopra, il mito di Abebé Aregai?» dice Fabrizio Coscia nel suo «La bellezza che resta» (alla p. 31 e con riferimento a fatti esposti alle pp. 17-19). Spinto dalla curiosità in me suscitata da simili dettagli, ho deciso di leggere «Notte abissina» dello stesso autore, pubblicato nell'ormai lontano 2006 da Avagliano Editore. Già allora era peraltro una presenza forte nella vita del Coscia uomo e scrittore il padre, se è vero che il libro è dedicato a lui e dei suoi racconti - ascoltati da Fabrizio quand'era bambino - è nutrito. L'azione si sviluppa in ventiquattr'ore diluite nelle duecentosedici pagine che ci restituiscono il «ritratto dell'artista da giovane», cioè del Coscia alla lavorazione della sua opera prima. Il titolo joyciano è qui volutamente tirato in ballo non solo - lo vedremo più avanti - perché Fabrizio sembra un Dedalus che amava ascoltare i racconti del padre (ce lo ricorda anche nel già menzionato «La bellezza che resta»).

Il colonnello Domenico Meros (o Mimì, come spesso si lascia chiamare dalle figlie) vive nella residenza di un ras abissino ad Addis Abeba: una grande casa dotata di camere da letto, studio e bagno al piano superiore, di una notevole sala per ricevimenti al piano terreno, di uno splendido giardino maniacalmente curato da una delle figlie del colonnello. Sono in corso i preparativi per la festa dei diciott'anni di una di loro. A tali preparativi non partecipa la mamma che vive praticamente confinata nella sua camera da letto, in quanto affetta da una patologia mentale. Prima del trasferimento in Africa è addirittura rimasta ricoverata per ben cinque anni in una casa di cura ad Aversa.

Coscia procede in modo quasi circolare: dedica un lungo capitolo a ciascuno dei membri della famiglia (compreso il fratello spregiudicatamente donnaiolo di Domenico) a partire dal colonnello, narrando in prima persona secondo il punto di vista del singolo personaggio protagonista del capitolo, operazione implicante anche un costante e impegnativo adeguamento linguistico. Un trattamento diverso viene riservato ad Ester, la moglie mentalmente instabile di Mimì: tra un capitolo e l'altro s'inserisce appunto la donna con una sorta di volutamente monotono contrappunto - quasi uno stasimo da tragedia greca - che assume la forma di un flusso di coscienza (il pensiero corre a Molly Bloom. Del resto si è detto che il mio richiamo joyciano non riguardava soltanto il titolo dell'opera sopra menzionata). Tuttavia in tali flussi di coscienza una logica quantomeno tematica c'è: Ester sembra infatti costituire l'unica voce autonoma e lucida fra quelle cui Coscia dà consistenza; i suoi deliri, nutriti di espressioni bibliche (anzi proprio apocalittiche), sembrano il prodotto di un'ineffabile percezione non solo della tragedia che le pretese imperialistiche del regime fascista sono destinate a subire, ma anche del dramma personale che - in modo completamente inconsapevole, con menti anestetizzate, dormienti, appannate - alcuni componenti della famiglia si avviano a vivere.

I destini, i pensieri, le ansie, i desideri, i capricci, i giochi dei membri della famiglia Meros si integrano, in un dinamico quadro d'insieme, nell'ultimo lungo capitolo. Qui Coscia, da narratore onnisciente, racconta la festa (ma attenzione al finale in cui torna il colonnello che del resto ha aperto la serie dei capitoli). E lo fa con tono e stilemi che ci fanno pensare a certe grandi scene corali di stampo tolstojano o lampedusiano: si pensi, per esempio, alla cura quasi didascalica con cui vengono sciorinati i nomi francesi dei numeri e delle figure del ballo, al piglio con cui vengono riportati i dialoghi, ai dettagli dell'abbigliamento delle signore. Del resto, se si torna indietro di alcune pagine, si nota che i passatempi in comitiva dei giovani Meros evocano certe parti de «Il giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani, se non addirittura alcune scene dell'omonimo film diretto da De Sica nel 1970. E nelle caotiche riflessioni di Ester appare pure il «latte nero»: chiara citazione da un noto testo di Paul Célan; anche la giustapposizione di alcune immagini verbali prodotte dalla lucidamente dissennata mente di Ester sembra ispirata a quella dello stesso componimento del problematico e affascinante poeta.

Sul retro di copertina alcune righe di Erri De Luca che sembrano (ahimè) scritte più per se stesso che per il pubblico dei lettori, sebbene lusinghiere. Conclusa la lettura, ho la sensazione che «Notte abissina» sia un esperimento molto interessante (sono veramente lieto d'averlo letto): di certo lontanissimo dai più recenti «Soli eravamo» e «La bellezza che resta» (e non solo perché afferente a un genere completamente altro), ma appassionante, orchestrato con rigore ferreo e soprattutto scritto con grande perizia linguistica. Non so se l'autore sia contento del fatto che un lettore curioso abbia riesumato la sua opera prima. Ma io parto dal presupposto che Fabrizio Coscia sappia bene che «una volta che sia stato scritto, ogni discorso circola ovunque» (Platone, «Fedro», 275). Non me ne vorrà sicuramente.

Ivo Flavio Abela

N.B. Su questo stesso blog sono presenti le mie recensioni relative a «Soli eravamo» (http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html) e a «La bellezza che resta» (http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/04/familiarizzarsi-con-la-morte-la.html e ancora http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/06/studio-n-2-su-la-bellezza-che-resta-di.html).

mercoledì 19 luglio 2017

Fedeltà e storiografia in «Qualcosa di più dell'amore» di Orlando Figes

«Qualcosa di più dell'amore» (Neri Pozza, 2012. Titolo originale «Just send me word») narra una vicenda ricostruita mediante un carteggio di circa millecinquecento lettere. Rimaste negli archivi del KGB, furono ritrovate da Orlando Figes all'interno di tre bauli consegnati al Memoriale. Lo studioso è riuscito a ricostruire anche gli antefatti e a rintracciare i protagonisti.

È il 1935. Lev Miščenko e Svetlana Ivanov (o Sveta, come Lev preferisce chiamarla) s'incontrano nel cortile dell'Università di Mosca. Entrambi frequentano la Facoltà di Fisica. Sveta è una delle pochissime donne - solo sei - ammesse alla frequenza dei corsi. È dotata di una bellezza discreta, di una grande intelligenza e di una bella voce (canta anche nel coro studentesco). Lev ha un viso adolescenziale da cui emergono gli occhi chiari e la bocca carnosa. I due iniziano a darsi appuntamento sempre più spesso e condividono speranze e passioni. Il loro rapporto cresce al punto che Lev finisce per frequentare abitualmente la famiglia di Sveta. Gli Ivanov vivono in una casa quasi bella: «Un appartamento a se stante con due ampie camere e una cucina, un lusso quasi sconosciuto nella Mosca di Stalin, dove gli appartamenti comuni con una famiglia per stanza e una cucina e un bagno condivisi erano la norma [...] Con i suoi soffitti alti e i mobili antichi, casa Ivanov era come una minuscola isola della vecchia intelligencija russa nella capitale proletaria».

Lev, del resto, si affeziona sempre più agli Ivanov: trova in loro quel calore che gli è mancato presto, avendo perduto entrambi i genitori quando era bambino. Prima di morire erano stati arrestati dai bolscevichi poiché ritenuti collaboratori dei Bianchi. Lev era stato portato dalla nonna a far visita ad entrambi. Narra Figes a proposito delle visite alla mamma: «Andò a trovarla due volte. L'ultima volta lei gli offrì una ciotola di panna acida e zucchero che aveva acquistato dalle guardie per rendere quella visita memorabile». Non l'avrebbe più rivista neanche morta, per quanto presente al suo funerale: «Seduto su uno sgabello davanti alla bara aperta, Lev era troppo in basso per guardare dentro alla cassa e vedere il volto della madre [...] Ricorda (allora. N.d.r.) di aver pensato che il volto della Madre di Dio era uguale a quello di sua madre» (sembra quasi un'immagine "achmatoviana"). Pochi giorni dopo viene condotto dalla nonna nella stessa chiesa in cui s'è celebrato l'addio alla madre. Davanti all'iconostasi sono allineate le bare contenenti i cadaveri di dieci uomini uccisi dai bolscevichi, tra cui il padre di Lev. Il disorientamento del bambino, taciuto dall'autore ma ugualmente desumibile, richiama quello di un altro bambino posseduto da «un dolore muto», che afferra la camicia del padre defunto per difendersi dagli sguardi dei presenti e di cui ci parla Andrej Platonov in uno struggente passo del suo potente «Čevengur».

Gli ormai anziani coniugi
Lev e Svetlana Miščenko
La Russia viene attaccata dalla Germania e Lev si arruola, ma cade prigioniero dei Tedeschi che lo internano a Buchenwald. Viene poi liberato e rientra in Russia, ma lo si accusa ingiustamente di tradimento a favore della Germania. Condannato a morte, la pena gli viene commutata in dieci anni di lavori forzati in Siberia, a Pečora, all'interno di uno di quei gulag che costituiscono il metaforico arcipelago. La vita nel gulag, dove d'inverno la temperatura raggiunge i -47°, viene efficacemente ricostruita attraverso i racconti di Lev che menziona anche una serie di interessanti personaggi. Di uno colpisce il cognome, cioè Preobraženskij: esisteva anche un Reggimento chiamato così. Ma il primo Preobraženskij al quale tutti pensiamo è forse il medico andrologo e ginecologo, proprietario di Pallino in «Cuore di cane» di Bulgakov. E poi Strelkov, uomo dotato di un'anima grande quanto la sua malattia. Una delle immagini che compaiono nel libro lo raffigura insieme al suo gatto sullo sfondo di una riproduzione del celebre «Gli alatori del Volga» di Il'ja Repin, che il regime sovietico aveva reinterpretato come simbolo dell'oppressione zarista.

Già dal momento in cui Lev s'è arruolato la comunicazione con Sveta è diventata problematica fino ad interrompersi. Un giorno Lev, dopo cinque anni dall'ultimo contatto con Svetlana, scrive dal confino alla zia nella speranza che quest'ultima riesca a procurarsi - e dunque a trasmettergli - alcune notizie su Sveta e gli Ivanov. Gli viene risposto che la ragazza sta bene e continua a vivere a Mosca. Lev teme che Sveta abbia conosciuto qualcun altro e dunque non vuole che la zia riveli a Sveta che egli è vivo: teme di rovinare la presunta serenità della donna. Ma Sveta è rimasta sempre fedele a Lev poiché non ha mai smesso di sperare di potere un giorno rivederlo. S'intreccia dunque fra i due una fittissima corrispondenza che coprirà gli anni fra il 1946 e il 1954: otto anni di parole - spesso in codice per ingannare la censura - che tengono in vita la speranza di riunirsi, sposarsi e mettere al mondo un figlio. Otto anni di paziente ed eroica attesa per entrambi. Ma Svetlana non s'accontenta di sapere che Lev è in vita e di leggerne le lettere. Approfittando dell'annuale viaggio di ricerca presso una fabbrica di pneumatici, riesce ad allungare il percorso in treno per raggiungere Pečora ed entrare clandestinamente nel campo di lavoro. I due riescono a trascorrere insieme poche ore. Gli incontri, sempre brevi, si ripeteranno una volta all'anno per tutto il periodo della detenzione di Lev, con una sola eccezione.

Che Orlando Figes fosse uno straordinario conoscitore della Russia in tutte le sue sfaccettature, ci era già noto soprattutto grazie a quel suo corposo saggio dal titolo «La danza di Nataša» (Einaudi, 2008). In esso Figes aveva coniugato la profondità e il rigore del ricercatore con un felice e accattivante piglio da narratore che si estrinsecava in inserti fluidi e intriganti (a titolo esemplificativo valgano quelli dedicati alle due più importanti famiglie aristocratiche russe dopo i Romanov: gli Šeremetev e i Volkonskij. Non a caso il suo saggio era stato definito «il romanzo della cultura russa»). L'avvincente «Qualcosa di più dell'amore» conferma la bravura di Figes: la voce del narratore si mescola alle righe vergate dai due tenaci protagonisti in un saggio storiografico abilmente mascherato da romanzo.

Ivo Flavio Abela

La riproduzione di una pagina di «Qualcosa di più dell'amore».
Bella testimonianza delle passioni di Lev e Svetlana:
le lettere servivano a tenere vive pure queste

martedì 18 luglio 2017

La «poesia cupa del decadimento umano» in «Strade di notte» di Gajto Gazdanov

Protagonista e narratore di «Strade di notte» (Fazi Editore, 2017) è un tassista di origini russe (alter ego dell'autore). Ha svolto un'infinità di lavori (apprendista acrobata circense in Grecia, scaricatore di chiatte prima e poi lavatore di locomotive nel deposito delle ferrovie a Saint-Denis, insegnante di russo e francese) prima di prendere la patente ed iniziare a lavorare con il suo taxi durante le notti parigine. La capitale francese non è la romantica e gettonata meta turistico-sentimentale da oleografica cartolina, quale suole risultare nell'immaginario comune: nel buio della notte la città sembra essere fatta soprattutto di bassifondi desolati e talora sporchi, di strade in cui donne giovani o stagionate si vendono per sopravvivere (talvolta col beneplacito di un rassegnato marito disperato), di modesti bar pieni di avventori che stemperano nell'alcool il mal di vivere e talvolta vi annegano insieme ad una bizzarra tendenza alla speculazione filosofica. Strade e locali appaiono poi pieni di vagabondi, matti, esseri umani dal passato (a volte anche dal presente) regolar-borghese se non mondanamente prestigioso, strani camerieri (come quello che si reputa felice perché vive nell'unico modo in cui deve vivere), barboni che conducono una «non-vita animalesca e tragica» e suscitano rispetto e pietà in quanto sono ben lontani dalla «sifilide morale tipica dei magnaccia». E gli stessi colleghi del protagonista sono tassisti quantomeno originali: comunisti sui generis («Lui può frugare nell’immondizia perché fa il robivecchi, io no perché faccio il tassista. Ti sembra giusto? Se ci fossi io, al governo, autorizzerei tutti senza eccezione» afferma uno di loro) oppure convinti esperti di costituzionalismo e storia (una notte due tassisti litigano sulla riforma giudiziaria russa, ma «dalla riforma giudiziaria si passò ai decabristi, dopo i decabristi toccò all'ordine teutonico, dopo l'ordine teutonico agli slavofili e alla storiosofia russa; poi fu la volta di Attila»).

E lui, il tassista di notte, conduce una vita quasi virtuosa: non beve, non gioca d'azzardo, non pensa alle donne. Ma poi confessa che non regge l'alcool (infatti beve tanto latte), al tavolo verde s'annoia, invidia i dongiovanni perché manca della loro sfrontatezza. È curioso: gli piacerebbe rincorrere e pedinare gli esseri umani che ogni notte incontra, studiarne più a fondo la vita. Ma non può farlo: il tempo gli serve per lavorare e guadagnarsi da vivere («Come in altri periodi della mia vita, anche a Parigi riuscivo di rado a osservare dal di fuori, da estraneo, quanto ero costretto a vivere, e sempre e solo per qualche attimo»). Supplisce con l'immaginazione: quando rientra a casa dal lavoro, prova non solo a ipotizzare le azioni di chi - tra i clienti serviti durante il turno o tra i casi peregrini di multiforme umanità che ha scorto lungo le strade e nei bar - l'ha impressionato. Talvolta la sua mente inventa ex novo fatti densi di tensione (omicidi per esempio). A tratti riemerge dalle profondità della sua memoria e del suo animo il ricordo della madre Russia. La memoria del paese d'origine si palesa con un incedere proustiano e in forme tolstojane: «La pioggia batteva sulle assi e, con l’orecchio a quel ticchettio monotono e al suono dimenticato delle gocce sul legno, ricordai – chiarissime – le serate di pioggia in Russia, d’autunno, i campi bagnati che sprofondavano negli schizzi delle tenebre, i treni, il lume lontano dell’agganciavagoni che fluttuava nel nero dell’aria, il fischio lungo della locomotiva». Ecco il treno-feticcio che fa tanto "Anna Karenina" e che, non a caso, tornerà in un altro passo significativamente legato all'idea di un suicidio pensato più per autocompiacimento che per un effettivo disorientamento esistenziale, idea infatti subito scacciata e liquidata come nulla più di un vezzo. Spazzata via anche in nome del disincanto: a contatto con la grande varietà di tipi umani in cui s'è imbattuto, il tassista ha maturato una totale diffidenza nei confronti dell'uomo perché ha assistito - turno dopo turno, cliente dopo cliente - alla «poesia cupa del decadimento umano».

Lo svilimento, l'adulterazione, il fallimento della condizione dell'uomo (anche in quanto essere sociale e politico) sono il leit motiv che percorre il sottobosco delle duecentotredici pagine di cui il libro di compone. E si estrinsecano soprattutto in alcuni personaggi definiti quasi a tutto tondo. Monsieur Martini, per esempio, così chiamato «perché ordinava sempre un Martini», che si presenta al bancone di un caffè sempre tra le 10:00 e le 11:00 di sera, per le 2:00 del mattino è già ubriaco fradicio, finisce i soldi e viene regolarmente cacciato. Eppure ha insegnato latino, greco, tedesco, inglese e spagnolo; ha moglie e sei figli. Ma beve perché la moglie lo disprezza e ha insegnato ai figli a fare lo stesso. Suzanne, una giovane e piccola bionda che s'è fatta mettere un dente d'oro e se lo guarda in continuazione riflettendosi sul suo specchio da borsetta, prostituta che desidera una vita borghese e arriva a sposare un russo con tanto di festeggiamento canonico (quasi rimuovendo quel passato di oggetto del desiderio lungo il quale si è concessa a tutti i tipi di uomo: anche, contemporaneamente, a due ciechi che, pur se non vedevano, in compenso palpavano eccome). Platone, chiamato così perché ama la filosofia. Sposato e padre, ha conseguito una laurea ed è vissuto in Inghilterra. Poi l'idillio familiare s'è esaurito ed egli è rimasto solo e privo anche dei soldi necessari per l'affitto (al padrone di casa che pretende il mensile è solito dire che preferirebbe fare saltare in aria l'intero edificio, risolvendo così non solo il proprio problema, ma anche quello dell'esattore, il quale non avrebbe più la rogna di occuparsi di contabilità condominiale e di inquilini).

Gazdanov è capace di scrivere anche lirici passi densi di bellezza infelice, soprattutto quando parla di personaggi per i quali prova un trasporto teneramente rispettoso. È il caso di Madame Raldi, donna dal notevole passato. Un tempo famosa negli esclusivi ambienti della Parigi mondana (grazie alle sue prestigiose frequentazioni maschili), s'è poi abbassata al rango e al mestiere della prostituta matura, rassegnandosi alla nuova condizione per sopravvivere, ma guardando sempre con nostalgica amarezza ai fasti d'un tempo. Perciò ha preso sotto la propria protezione una giovane donna e cerca di educarla a quelle maniere che una donna del bel mondo deve avere (prova pure ad introdurla alla letteratura, convinta che sapere qualcosa di Flaubert o di qualche altro scrittore serva comunque in società), nella speranza che la giovane un giorno possa essere la propria erede nella Parigi buona. Le due pagine dedicate alla morte della Raldi sembrano rievocare - di certo solo per ingenua associazione istintiva - quelle dedicate alla morte di un'altra prostituta matura, Madame Hortense, la donna che il macedone Zorba finirà per sposare in «Zorba il Greco» di Nikos Kazantzakis (in entrambi i casi emerge la tenera fragilità della donna che ha goduto e vissuto ed è poi rimasta sola e priva di amore). Narra Gazdanov in particolare (e vale la pena leggere le seguenti parole, sebbene la citazione non sia brevissima): «Il sole brillava flebile oltre la finestra stretta e alta che pareva la vetrata di una chiesa. Restai a guardarla a lungo, la Raldi; e malgrado la profonda tristezza che provavo, notai che il suo viso bianco e pieno non era quasi cambiato, e che a renderlo morto e tremendo erano solo gli occhi dolci ormai spenti, rimpiazzati dal bianco immobile, duro, ottuso delle grandi pupille. Le coprii il viso col lenzuolo e uscimmo cercando di non fare rumore, come si conviene in presenza di un defunto».

«Strade di notte» è un libro affascinantissimo. E lo è anche linguisticamente (parte del merito va senza dubbio alla traduttrice Claudia Zonghetti Zandonai). Non fu mai pubblicato in Russia se non quando il regime sovietico cadde, come tutte le opere dello stesso autore. E ciò si verificò, purtroppo, alcuni anni dopo la morte di Gazdanov, avvenuta nel 1971 (fu sepolto nel Cimitero russo-ortodosso di Nostra Signora dell'Assunzione a Sainte Geneviève des Bois, accanto ad altri grandi come Andrej Tarkovskij e Feliks Jusupov, per citarne solo un paio). Sorprende un'osservazione espressa da uno dei due tassisti già citati: «Lo sa che cosa mi ricorda, l'Europa, con le sue mossette da intellettuale? Maupassant agonizzante che si nutriva dei suoi stessi escrementi». Sono parole scritte da Gazdanov agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso. Eppure sono straordinariamente attuali. Poco oltre lo stesso personaggio afferma che dopo l'età classica, il Cristianesimo, il Rinascimento, la filosofia tedesca, l'Europa ci propone «di rinunciare volontariamente a tutto quanto, di rincretinirci del tutto, di dimenticare ciò che sappiamo e di scendere al livello di un apprendista semianalfabeta». Chissà che cosa avrebbe pensato Gazdanov se - sopravvissuto per assurdo fino ad oggi - avesse notato il livello di disumanizzazione al quale l'Europa stessa è ormai giunta.

Ivo Flavio Abela

«Parigi di notte»
Foto di Daniele Cametti Aspri