sabato 9 dicembre 2017

Nevrosi, delirî e sesso corrivo in «Teatro ossessivo» di Ennio Speranza

«Alcuni autori, parlando delle loro opere, dicono:
"Il mio libro, il mio commento, la mia storia ecc.".
Risentono del linguaggio dei loro concittadini borghesi
che hanno casa propria e ripetono sempre: "A casa mia".
Farebbero meglio a dire: "Il nostro libro, il nostro commento,
la nostra storia ecc.", dato che, di solito,
c'è in questi libri più roba altrui che propria»
Blaise Pascal, «Pensieri», 43


Alla fine del monologo con cui si apre «Teatro ossessivo» (Giulio Perrone Editore, 2013. Postfazione di Attilio Scarpellini), Ennio Speranza dichiara, senza mezzi termini, di avere plagiato, sfidato e omaggiato Sarah Kane, drammaturga affetta da depressione e morta nel 1999. E alquanto terenzianamente lascia intendere che in fondo i prestiti letterari sono ciò di cui si nutre e vive ampia parte della letteratura. «Neurosi delle 7 e 47» richiama infatti «4.48 Psychosis» della Kane, sebbene smorzi una condizione patologica di estrema gravità (la psicosi, che del resto avrebbe condotto al suicidio la donna) e la trasformi, non uscendo comunque fuori dall'ambito dei disturbi ossessivi, in un'altra di apparentemente contenuta pericolosità (la nevrosi, forse più adeguata a quella quotidiana routine che si presenta con una veste destinata a suscitare insofferenza e grigiore cogitativo fin dalla prima mattina), peraltro con uno scarto alimentato da un'ironia tanto debordante da indurre il fruitore del testo (tale è l'impressione che si ricava dalla lettura del monologo. Ma va ricordato che il testo è stato concepito per la scena e dunque andrebbe soprattutto ascoltato o vissuto) a reputare il personaggio recitante una sorta di istrionico giocoliere. Pur consapevole dell'ineluttabilità della propria condizione, e anzi subendola, egli riesce infatti a dominarla parzialmente sezionandola, scarnificandola, riducendola ai minimi termini con spietata (e masochistica) abilità. Essendo stata colpita la propria automobile da un'altra auto il cui conducente non ha rispettato il rosso a un incrocio, e che ha pure preteso di offendere il protagonista, quest'ultimo ha reagito colpendolo col martinetto e lasciandolo a terra privo di sensi. Costretto a prendere un autobus che non accenna a passare, egli si lascia andare a un nevrotico sfogo, ulteriormente punto dal tradimento della moglie non con un uomo qualsiasi, ma col proprio fratello (poco male in fondo: il protagonista avrebbe voluto tradire la moglie con una prostituta). Eppure quella nevrosi («specchio forse di una nevrosi collettiva», ci avvisa l'Autore) conduce ad un finale che va al di là di ogni immaginazione. E dunque le sue conseguenze sono foriere - lo si comprende appunto solo alla fine - di un male addirittura peggiore del suicidio messo in atto dall'autrice di «4.48 Psychosis».

Gabriele Sabatini interpreta «Neurosi delle 7 e 47»
Speranza vira quindi verso il mito: «Ero/Leandro Un tentativo». Ma lo fa rinnovandolo dall'interno e ponendo metateatralmente sulla scena anche il regista di un'improbabile pièce: un uomo confuso, dall'agire poco professionale, ispirato non tanto da un copione quanto dalle casualità che si verificano in sua presenza, dalle spontanee azioni dei protagonisti, dalla consapevolezza che l'amore, motore della versione originale del mito, è fin troppo aleatorio («... l'amore. Una parola del cazzo, se ci pensate. C'è dentro tutto. Anche il peggio. Ma soprattutto il meglio. Fate voi».). Sembra allora rinunciare al proprio ruolo per lasciare completa autonomia alle ipostasi di Ero e Leandro, che si sentono liberi di mostrarsi per ciò che sono: Ero una prostituta la quale ricorda ai suoi interlocutori innanzitutto di «pagare» e che, mediante il gioco di parole «Ero Ero», testimonia che dell'originale personaggio del mito altro non è rimasto che un nome coincidente nella forma (ma non solo) con uno stato dell'essere che appunto è stato e non è più; Leandro protestando, fin dalla sua prima battuta, il fatto di non essere più in quanto ormai morto e assumendo il ruolo di un'impalpabile idea poiché «i morti non parlano» (se Leandro parla, significa che «ci deve essere un errore». Per un momento egli assume, anzi, il ruolo di un impossibile Leporello dapontiano, costretto a compiacere il prossimo in qualità di tuttofare). Il regista sembra tornare ad esser tale solo quando induce i due ad interpretare l'unica scena che li contempla come attori e non più solo come ipostasi, salvo - alla fine del dramma - tornare a confondersi con le ipostasi stesse (del resto destinate ad una fine negativa dalla quale pure l'amore uscirà definitivamente svilito insieme al mito stesso).

Quasi alla conclusione del libro ecco «MeTaLlo EletTriCo (Metal Macbeth) Un delirio», anch'esso rivisitazione di una vicenda oltremodo nota e resa celebre da William Shakespeare. «Eccomi. La barba è fatta. La doccia pure. Le mutande cambiate. Sono pronto» dice Mister Macbet agli inizi della settima scena. «Me ne stavo per i fatti miei. Seduto al tavolo di un bar» aggiunge nell'incipit dell'ottava. La scossa elettrica, la macchina, il treno, l'aereo sono alcuni degli strumenti ipotetici di cui la diabolica coppia, formata dall'appena citato Mister Macbet e da Ladi Macbet, ipotizza di servirsi per ammazzare Lui (Duncan secondo la versione originale della vicenda), prima di ripiegare su un più tradizionale e rassicurante veleno. Gli stessi protagonisti hanno i nomi leggermente storpiati, come s'è visto, e alludono, mediante parole di registro basso, alla noia piombata nei loro rapporti sessuali. Nonostante, però, l'attualizzazione di cui sono prova i dettagli citati, la potenza drammatica del racconto di Ennio Speranza è notevole. Lo scarto tra la voluta prosaicità del linguaggio usato nei dialoghi, la caricaturale progettazione dell'omicidio e la riduzione pure di Duncan a una creatura insicura, quasi buffa nell'esternare vigliaccamente le proprie paure, da un lato, l'omicidio e la freddezza con la quale i due decidono di sbarazzarsi del cadavere, dall'altro, rendono ancora più palpabile e potente il senso della tragedia, del male cieco, delle ossessioni, dei delirî dei due. Peraltro, con una serie di pennellate melodrammatiche, Ennio Speranza porta sulla scena il sacco che dovrebbe contenere il cadavere di Lui. La memoria corre all'atto in cui Rigoletto, nell'omonima opera verdiana, trascina il sacco contenente quello che suppone il cadavere del Duca di Mantova, salvo poi scoprire che esso contiene la propria figlia agonizzante. Se l'opera verdiana si chiude sull'urlo del vecchio gobbo che riconosce il terribile valore della maledizione lanciatagli, nel corso del primo atto, da un padre la cui figlia è stata disonorata dal Duca, sul testo e sulla scena immaginata da Ennio Speranza scende lentamente il buio, cioè - se ancora non bastasse - altro male che finisce per fondersi con il vaneggiante canticchiare di Mister Macbet (come se il sonnambulismo della Lady Macbeth di un'altra opera celeberrima di Verdi fosse stato travasato da Ennio Speranza nel personaggio di Macbeth stesso). Speranza, del resto, ha accelerato i tempi dell'azione e semplificato l'intreccio della versione originale, rendendo l'omicidio di Duncan elemento unico attorno al quale ruota tutto il dramma, oltre il quale si verifica (variante non da poco rispetto alla versione nota) quello di Ladi Macbet, destinata fin dagli inizi della pièce a rimanere vittima delle proprie stesse macchinazioni e forse pure di una malata, torbida, volgare e a tratti annoiata intesa sessuale con Mister Macbet. Il brevissimo testo che conclude il libro, «L'estasi di santa Teresa. Uno studio», del resto torna a parlare in termini prosastici del sesso come opposto dell'estasi.

«Teatro ossessivo» trasmette a chi lo legge (anche e soprattutto a voce alta), e a chi - si può facilmente immaginare - ha la possibilità di assistere alla messinscena dei testi che lo compongono, la sensazione che Ennio Speranza abbia scritto una partitura musicale di forte impatto ritmico, nella quale la struttura delle battute contiene già in sé tutti i possibili segni convenzionali. In essa, inoltre, i numeri chiusi sono ridotti al minimo (resistono in qualità di vere e proprie arie in particolare nel «delirio» dei coniugi Macbet), non mancano le smorzature (il conto alla rovescia alla fine di «Neurosi delle 7 e 47» ne è un esempio che sconfina in un autentico morendo), né il "canto" a fior di labbro (si potrebbe immaginare che proprio a fior di labbro Mister Macbet rivolga alla sua Ladi parole appassionate prese a prestito da «Ne me quitte pas» di Jacques Brel. Del resto Speranza dà vita, nei suoi testi, a svariate intercettazioni). Tutto ciò avviene con l'ausilio di una volutamente grigia e asciutta koiné linguistica gestita con acume (e l'eleganza dello scrittore colto e poliedrico rimane comunque individuabile anche nei passaggi verbalmente più dozzinali). E poi Ennio Speranza ci offre «Teatro ossessivo» non accampando pretese di rigorosa applicazione: «Fate voi» ci dice con ironia quasi scanzonata.

Ivo Flavio Abela


sabato 2 dicembre 2017

"Leggenda privata" di Michele Mari. Che cosa diventa l'autobiografia scritta da un maestro

Sembra una confessione filtrata da un'ironia che diventa sarcasmo, anche con l'ausilio di un codice linguistico fortemente disomogeneo che vaga dal prezioso aulicismo al metaplasmo, alla mimesi più ardita di tratti parlati quasi gergali. Tutto risulta gestito da una penna raffinata e in fondo compiaciuta di se stessa, talvolta egotica, ma alla quale si finisce per guardare con compassione (nell'accezione etimologica della parola) quasi affettuosa. Probabilmente perché ci si rende conto del fatto che Mari, finora "miccia inesplosa" come egli ha definito se stesso in una intervista rilasciata a Repubblica, ha finalmente deciso di fare i conti con quel coacervo di tensioni e manie effetti collaterali delle pressioni cui è stato variamente sottoposto dai genitori fin dall'infanzia.

Fa da cornice bizzarramente gotica l'ordine ricevuto dall'Accademia dei Ciechi di scrivere una sorta di autobiografia che è appunto l'oggetto del libro. E così emergono due personaggi giganteschi: un padre ingombrante, in fondo amatissimo, duro, spietato ai limiti della crudeltà, preoccupato unicamente del fatto che il figlio non diventi una femminella, deciso a ignorare scientemente i disagi che quest'ultimo manifesta con una tardiva enuresi notturna (è una pagina memorabile quella in cui il piccolo Michele, che finora è riuscito a occultare le lenzuola inzuppute nascondendole sotto al letto o portandole subito in lavanderia, bagna non solo il materasso ma pure il pigiama del padre, durante una notte in cui è costretto a dividere con lui un letto matrimoniale); una madre talentuosa, ma frustrata (pur senza manifestarlo) dal non essere riuscita a emergere, dominata quasi dalla gigantesca presenza di un marito che ha segnato la scena artistica a lui contemporanea, una donna che ha così sviluppato un sarcasmo diventato presto corazza, abito comportamentale, freddezza anche come madre. Non è un caso il fatto che i due si separeranno presto.

Tra i due Michele, bambino prima e adolescente poi, sembra mortificato nella sua virilità: la citata enuresi prima, la fimosi poi, la passione quindi per una ragazza volgarotta (quasi che solo a una donna di tal genere potesse aspirare uno come lui, costantemente umiliato da un padre troppo maschio e da una madre pure anaffettiva).

Da questo strano quadro familiare emerge la figura del nonno paterno, di umile estrazione socio-culturale, ma maestro di vita che esercita tale ruolo solo attraverso gesti e lapidarie espressioni verbali olezzanti di certa impietosa saggezza umana e popolare: un personaggio ben diverso da quelli che popolano la bigotta, borghese in senso deteriore, famiglia materna d'origine.

A molti il Mari di "Leggenda privata" (Einaudi, 2017) potrebbe apparire campione di un vittimismo teso a suscitare pietà e a farsi perdonare anche quella strana cornice e quella lingua che rasenta, nel suo profilarsi come pastiche, l'affettazione e un barocco snervato. Ma, a ben vedere, Mari non fa psicologismo da strapazzo. Semmai mette in atto un liberatorio gioco di confessione che, almeno a chi scrive il presente testo, appare meritevole di rispetto, considerazione, quasi di affetto. È un bel libro questo. Ed è prova di quanto l'autobiografia possa diventare preziosa se vergata dalla penna di un maestro.

Ivo Flavio Abela