lunedì 16 luglio 2018

Una riflessione su Dostoevskij e Optina all'indomani della vittoria dei mondiali da parte della Francia

L'animo di Dostoevskij, salvato sul patibolo dalla pena di morte, commutata in quella dell'esilio in Siberia quando già i suoi occhi erano stati bendati, straziato dalla perdita del figlio Aleksej di appena tre anni non ancora compiuti (a causa del soffocamento sopravvenuto durante un attacco di epilessia, nel pieno di un febbrone), si placa ad Optina Pustyn', dove gli viene assegnato un piccolo alloggio all'interno della skete, non lontano dalla cella del reverendissimo Amvrosij (che diventa Zosima nelle pagine del più celebre romanzo di Dostoevskij). L'ampia citazione che segue riguarda Alëša (che - e non è un caso - porta lo stesso nome del bimbo defunto), ma chi cade a terra come in estasi, in una condizione di beatitudine sovrumana, è lo stesso Dostoevskij. E ciò avviene proprio nel quadro che qui egli dipinge e che costituisce l'unica - ma magnifica - illustrazione, calata nel romanzo, delle quinte sceniche di Optina. Forse nessuno mai ha sottolineato la straordinaria importanza che questo monastero riveste per l'anima russa: per le genti di tutte classi sociali, per la storia, per la letteratura. Studiare Optina non è solo calarsi in una realtà religiosa (come pensano i razionalisti dei miei stivali: Dio mio, quanto può risultare limitante la ragione!), ma è profondersi nell'antropologia stessa dei russi. Qualsiasi specialista di cultura russa dovrebbe studiare attentamente tutto di questo monastero. E vi troverebbe pure quello stesso senso d'identità nazionale, di orgoglio d'essere figli della Madre Russia, che portò ogni singolo russo (cittadino e non solo militare) e ogni singola russa, a fare ritirare Napoleone. Macron può urlare di gioia quanto vuole, dopo ieri sera. La sua Francia "radicalchiccamente" multietnica (quanta ipocrisia...) può vincere in Russia tirando coi piedi un pallone, ma solo così. Per il resto è nulla al cospetto della Russia. Ed è bene che pure gli italiani che amano la Russia studino approfonditamente Optina. O si perderanno la metà della bellezza della cultura russa. Strano che in Italia nom sia mai stato pubblicato uno studio scientifico su Optina (sebbene esistano pubblicazioni riguardanti gli starcy di Optina, ma con tali studi non ci si stacca dall'ambito teologico. Invece è necessario uno studio di respiro ampio, che consideri storia e letteratura, perché è in tali ambiti che Optina gioca le sue migliori carte). La parola a Dostoevskij:

«Non si fermò nemmeno sul terrazzino, ma scese velocemente giù. La sua anima piena di estasi bramava libertà, spazio, vastità. Su di lui si stendeva la volta celeste, vasta e impossibile da guardare tutta, piena di quiete stelle splendenti. Dallo zenit fino all'orizzonte si biforcava la Via Lattea non ancora ben chiara. Una notte fresca e quieta fino all'immobilità aveva rivestito la terra. Le torri bianche e le cupole dorate della cattedrale brillavano su un cielo di zaffiro. Nelle aiuole presso la casa si erano addormentati  i lussureggianti fiori d'autunno aspettando il mattino. Il silenzio della terra era come rifluito in quello del cielo, il mistero della terra aveva toccato quello delle stelle. Alëša era lì, guardava e all'improvviso come fulminato si buttò giù, sulla terra.

Non sapeva perché la stesse abbracciando, non si rendeva conto perché desiderasse così irrefrenabilmente baciarla, baciarla tutta, eppure la stava baciando piangendo, singhiozzando e, irrorandola con le sue lacrime, giurava in estasi di amarla, amarla nei secoli dei secoli. "Irrora la terra con le lacrime della tua gioia e ama queste tue lacrime..." risuonò nella sua anima. Per cosa piangeva? Oh, nella sua estasi piangeva perfino per quelle stelle che gli splendevano dall'abisso e "non si vergognava di quell'esaltazione". Come se i fili di tutti quegli innumerevoli mondi divini si fossero uniti insieme nella sua anima ed essa trepidasse, "al contatto con i mondi altri". Gli venne voglia di chiedere perdono a tutti e per tutti, oh! non per sé, ma per tutti, per tutto e per ogni cosa, mentre "per me saranno gli altri a chiederlo", risuonò di nuovo nella sua anima. Ma ad ogni istante sentiva chiaramente e quasi tangibilmente  che qualcosa di saldo e irremovibile, come quella volta celeste, era penetrato nella sua anima. Una specie di idea gli aveva preso la mente e ormai era per tutta la vita e per i secoli dei secoli. Era caduto a terra debole ragazzino e si era alzato saldo guerriero per la vita e ne ebbe coscienza all'improvviso in quello stesso minuto di estasi. E in seguito mai, mai nella sua vita, Alëša poté dimenticare quel minuto. "Qualcuno ha visitato la mia anima in quel momento", diceva poi con una salda fede nelle proprie parole...» (dai «Karamazov» ovviamente).

Ivo Flavio Abela


sabato 14 luglio 2018

Verità e letteratura in «Vita di un romanzo» di Andrea Caterini

Uno scrittore decide d'essere stanco: stanco di leggere narrazioni i cui schemi appaiono inflazionati, stanco di storie che potrebbero funzionare ma sono improbabili e finte, stanco  senza riuscire a trovarla  di cercare la verità. Arriva il momento in cui si rende conto del fatto che essa sta altrove: la si può trovare nella vita di ciascuno di noi, in quel vero che viviamo con chi popola il nostro stesso mondo, interagendo con gli elementi, i fatti, le situazioni che caratterizzano la quotidianità. Ma la verità risiede anche in ciò che accade in noi stessi, portandoci a prendere le armi per combattere un duello con(tro) noi stessi, il cui scopo è tranciare la barriera che si frappone fra noi e quanto di più profondo esiste nella nostra (in)coscienza. Allora perché scrivere l'ennesimo romanzo? Perché, invece, non provare a imprimere la forma "romanzo" nel flusso della propria esistenza, rendendo tale forma una matrice che ci consenta di interpretare tutto ciò che dell'esistenza stessa fa parte, cioè la vita e la letteratura? È ciò che Andrea Caterini prova a realizzare proprio con «Vita di un romanzo» (Castelvecchi, 2018). Se aveva già dato prova di buone doti di scrittore e critico con «Patna», «Giordano», «La preghiera della letteratura», adesso il risultato è migliore. Andrea ha trovato la cifra distintiva, originale, personale, simile solo a se stessa, che rende unico questo libro, facendolo spiccare rispetto alla media di quei libri che provano a fondere vita e letteratura e che appaiono compilati da qualcuno che sa solo scrivere scolasticamente dell'una e dell'altra.

Ecco che sotto i nostri occhi si dipana una trama fitta, tessuta con una sicurezza: ogni sintagma, ogni parola, ogni elemento verbale e noetico appare ben delineato. E tutto ciò viene compiuto con quella competenza che tradisce tanto lo scrittore formatosi sui grandi della narrazione (Proust in testa), quanto il critico acuto. Ricordi di letture si mescolano con avvenimenti della propria vita, quasi a dare conferma del fatto che la letteratura spiega la vita poiché quest'ultima è in fondo quello stesso flusso da cui sono stati attraversati coloro che hanno fatto la grande letteratura. Si giunge poi a dettagli struggenti, come l'episodio relativo alla necessaria soppressione della mascotte felina di casa.

Ma un appunto va fatto ad Andrea in questa recensione scritta estemporaneamente. I dettagli relativi alle frequenti masturbazioni praticate dallo scrittore quando svolgeva il servizio militare (periodo in cui, del resto, avvenne la vera e propria scoperta della letteratura da parte sua), del resto agìte non nei momenti in cui egli si trovava solo in una caserma deserta, ma quando erano presenti i commilitoni che avrebbero pure potuto coglierlo sul fatto, risultano eccessivi. È come se lo scrittore avesse voluto dare prova di quanto forti fossero la voglia di trasgressione e il gusto per il rischio in un contesto anche spersonalizzante, quale quello del servizio militare. Ma a me  lettore – rimane l'impressione che egli abbia voluto solo dare sfogo a una certa voglia di esibizionismo che ritengo disturbante: del resto a me - lettore - nulla interessa del seme disperso dall'autore. Anzi direi che il dettaglio mi fa pure schifo. E allora mi chiedo quanto sia lecito o fruttuoso  sottolineo che la mia riflessione non ha affatto nulla da spartire con il moralismo  neutralizzare la barriera tra la nostra intimità e ciò che di noi è pubblico. In altri termini, da che cosa nasce l'esigenza di rivelare dettagli intimi? Perché farlo? Non sarebbe anche bene che ogni tanto ci si ponesse un limite almeno per rispetto a se stessi? Pure questa è forse una conseguenza del vivere in un mondo nel quale tutto viene messo in piazza? Il dubbio mi resta.

Ivo Flavio Abela