domenica 19 agosto 2018

Promemoria relativo al bellissimo «Lauro» di Eugenij Vodolazkin

«Lauro» di Eugenij Vodolazkin: una piacevole sorpresa. Ambientato nella Russia del XV secolo, è di una visionarietà semplice ed essenziale. Scritta da uno specialista di Russia medievale, il romanzo (perché di romanzo si tratta, anche se ciò farà storcere il naso a tutti i letterati e critici d'avanguardia) è diviso in quattro parti ed è pieno di riferimenti all'affascinante universo dei folli russi di Dio. Questa non è una recensione, ma semplicemente una summa delle prime tre parti ad uso soprattutto personale: temendo di dimenticare presto tanti dettagli di «Lauro», ho deciso di fissarne qui alcuni.

Inizio dalla prima parte intitolata «Libro della conoscenza». Arsenio, il protagonista, nacque a Rukina, un villaggio presso il monastero di San Cirillo. Spesso si recava a casa del nonno Cristoforo, vedovo già da un po' di tempo, il quale aveva costruito la propria casa accanto al cimitero, poiché gli era stato consigliato da uno stareč. Arsenio e Cristoforo avevano un bel rapporto. E quando il bambino aveva iniziato a comprendere, il nonno aveva preso ad insegnargli molte cose, tra cui i segreti della sua arte: egli era un raffinato conoscitore di erbe e le usava per curare - sempre con risultati positivi - quanti si rivolgevano a lui. Giunse però il tempo di una pestilenza che uccise molta gente del posto e pure entrambi i genitori del piccolo Arsenio. Il bambino andò definitivamente a vivere con il nonno (in passato il nonno aveva chiesto ai genitori di Arsenio di trasferirsi a casa sua, così da poter vivere tutti insieme, ma il padre di Arsenio, figlio di Cristoforo, aveva rifiutato non perché gli dispiacesse, ma perché aveva necessità di vivere più vicino al luogo in cui lavorava da contadino, altrimenti non avrebbe saputo come mantenere se stesso, la moglie e il figlio).

Cristoforo e Arsenio si comprendevano bene. Cristoforo continuava a insegnare tante cose ad Arsenio. E pure a leggere. Egli usava scrivere tutto ciò che lo colpiva su alcune tavolette ricavate mediante la lavorazione di corteccia messa a bollire, così da attutirne la friabilità e da incrementarne la compattezza. Quindi Cristoforo la lavorava in modo da formarne appunto alcune tavolette che erano un valido sostituto della carta. Scriveva su queste ultime e poi, in modo casuale, le disseminava per la piccola casa costituita solo da due camere: una molto calda e l'altra molto fredda. Spesso i due passeggiavano nel bosco, approfittando di quei momenti per raccogliere erbe. E proprio durante una di tali passeggiate, un lupo si parò loro davanti. Arsenio comprese che quell'apparentemente temibile animale non voleva fare loro alcun male, ma desiderava solo rimanere in loro compagnia. E così fu: il lupo iniziò a vivere con loro e la sera, quando veniva letto un libro, rimaneva placidamente disteso quasi come se ascoltasse. Purtroppo, a causa di un'aggressione subìta in quella casa, il lupo rimase ferito. Nonostante le cure amorevoli del nonno e del nipote, un giorno egli sparì perché era andato a morire lontano.

Intanto Arsenio era già un adolescente. Un giorno anche il nonno morì. E per Arsenio fu una tragedia. Rimase solo. Ma in un certo senso volle pure rimanere solo: rifiutò le offerte, da parte di alcune persone del villaggio, di andare a vivere da loro. Preferiva rimanere lì. E del resto anche per la gente del circondario ciò fu un fatto positivo, poiché il giovane era diventato abilissimo come il nonno nell'uso delle erbe a fini terapeutici, per cui tanta gente si recava da lui per farsi curare proprio come aveva fatto con il nonno. In cambio gli offrivano tanta roba da mangiare, per cui Arsenio non aveva neanche la preoccupazione di dovere procurare e cucinare il cibo.

Ogni mattina si recava al cimitero che, lo abbiamo visto, era proprio accanto alla casa. Sedeva su una panca di legno costruita per lui da un uomo del luogo proprio a ridosso della sepoltura di Cristoforo; cominciava allora a parlare col defunto narrandogli tutto ciò che faceva. E prima dell'inverno egli coprì il tumulo con un vello di pecora perché, pur sapendo che il corpo di un defunto non sente più nulla, tuttavia lo confortava l'idea che il nonno fosse coperto e dunque in una condizione simile a quella dello stesso Arsenio, che in una delle due stanze di casa aveva caldo a volontà.

Un giorno, proprio mentre si trovava al cimitero, vide una ragazza bisognosa d'aiuto e la invitò a entrare in casa propria. La giovane, il cui nome era Ustina, rifiutò poiché veniva da un luogo in cui v'era la peste e dunque nessuno avrebbe mai voluto accoglierla, temendo che fosse portatrice di contagio. Ma Arsenio le disse che non aveva paura, soprattutto ora che il nonno non era più in vita. In casa egli la fece lavare con grande discrezione e gentilezza, si prese cura di lei e delle sue piaghe, ma cominciò anche a innamorarsi di lei. I due iniziarono a vivere come marito e moglie, ma Arsenio stava ben attento: non voleva che alcuno di quanti venivano a chiedergli aiuto s'accorgesse della presenza della donna; quando si sentiva bussare alla porta, egli chiedeva a Ustina di andare nell'altra stanza e di chiudervisi dentro. Tuttavia non fu del tutto possibile nascondere la presenza della giovane.

Ella scoprì d'attendere un figlio d'Arsenio. La loro gioia fu grande e Ustina cominciò a tagliare e cucire tutto ciò che avrebbe dovuto usare per il nascituro, servendosi di vecchia stoffa appartenuta a qualche misero abito di Cristoforo. Ma la gioia pian piano venne meno. Quando fu compiuto il tempo della gravidanza, Ustina cominciò a star male. Arsenio si sentiva responsabile poiché, quando Ustina gli aveva chiesto di mandare per una levatrice, le aveva risposto che da soli ce l'avrebbero fatta: ne era sicuro. Ma le condizioni di Ustina cominciarono a peggiorare ed ella si rese conto che non sentiva più il bambino e che doveva essere morto, cosa di cui anche Arsenio fu sicuro quando pose la propria mano sulla parte del ventre di Ustina, toccando la quale in genere riusciva a sentire il battito del piccolo. Stavolta non lo sentì. Ma volle incoraggiare la donna, dicendole che tutto andava bene e che presto si sarebbe sgravata. Ma il parto fu orribile e Ustina, dato alla luce un bimbo morto, morì pure.

Arsenio non si rassegnava. Inizialmente lascio il bimbo a terra e Ustina sulla panca, cioè sulla stessa superficie su cui era spirata. E subito pensò che forse era solo un'impressione la sua: magari la donna si sarebbe risvegliata. Iniziò a leggere tutto ciò che poteva, così com'era stato solito fare certe sere anche per intrattenere Ustina, pensando di poterne attrarre così l'attenzione. Ma dopo giorni e giorni Ustina s'era solo gonfiata: soprattutto il ventre appariva enorme. Intanto Arsenio non apriva mai a nessuno. Quindi chi stava male era costretto a tornarsene indietro senza avere ricevuto alcuna cura. Ma un giorno due uomini buttarono a terra la porta e, turandosi il naso per l'acre e pestilenziale lezzo di cadavere, entrarono a forza. Dissero subito che la donna e il nato dovevano essere portati nella fossa comune. Qui venivano sepolti tutti coloro i quali erano deceduti in disgrazia agli occhi di Dio. Venivano gettati lì e ricoperti di fronde, ma non di terra. Quando la neve, che comunque contribuiva a ricoprire le salme in inverno, iniziava a sciogliersi, era già il periodo pasquale. E il primo giovedì dopo Pasqua un prete compassionevole si recava presso la fossa per pregare sulle salme decomposte. Quindi la fossa veniva ricoperta e un'altra ne veniva creata che sarebbe stata usato fino al primo giovedì dopo Pasqua dell'anno successivo. Coloro che qui venivano gettati erano ritenuti dall'opinione popolare responsabili dei raccolti andati male.

Arsenio non poteva sopportare l'idea che la sua donna e il suo bambino fossero gettati lì. Ma lo stareč parlò con lui. Gli consigliò di assecondare il volere popolare poiché - diceva - al primo raccolto riuscito male le gente sarebbe andata a esumare madre e bimbo, se fossero stati sepolti nello stesso cimitero in cui giaceva Cristoforo, e li avrebbero comunque portati alla fossa comune. E poi gli disse che in fondo Ustina viveva ormai in lui: dal momento in cui i due s'erano congiunti, erano divenuti la stessa persona. Insomma Ustina sarebbe vissuta in lui insieme al bimbo. Arsenio si lasciò convincere, ma non superò mai il senso di colpa per non avere chiamato la levatrice, come la povera defunta gli aveva chiesto, e decise di dedicare alla sua amata e al bimbo ogni istante della propria vita da allora in avanti. Intanto la peste giunse dalle sue parti. E la gente cominciò a recarsi da lui per le cure. Ma non lo trovarono in casa: egli se ne'era andato chissà dove, portando con sé soprattutto alcune tavolette vergate dal nonno (e non tutte per motivi pratici).

Prosegui con la seconda parte dal titolo «Libro dell'abnegazione». Gli aneddoti citati verso la conclusione sono chiari prestiti dalle biografie di Simeone (scritta da Leonzio di Neapoli nel VII secolo) e da quella di Andrea (scritta da Niceforo nel X secolo). Arsenio iniziò vagare di villaggio in villaggio curando, e spesso guarendo, molti ammalati di peste. La sua fama si diffondeva al punto che, quando arrivava in un nuovo villaggio, già tutti sapevano che cosa lui avrebbe detto e ciò di cui avrebbe avuto necessità per curare la gente. Inoltre insegnava a quanti guarivano a curare a loro volta i malati. Un giorno una slitta venne a prenderlo da Berozelsk: era stata inviata dal principe poiché la fama di Arsenio era giunta fino a lì. La moglie e la figlia del principe avevano contratto la malattia. Arsenio fu invitato a salire sulla slitta e fu condotto nella casa del principe che affidò a lui le vite delle donne da lui amate. Dopo giorni le due guarirono e il principe regalò ad Arsenio una pelliccia di ermellino. Volle inoltre che il guaritore si stabilisse presso di lui. Arsenio però non gradiva la vita di corte e preferiva vivere in modo più indipendente. Il principe comprese e lasciò che egli si trasferisse in un modesto alloggio lì vicino. Una sola cosa impose ad Arsenio: egli non avrebbe mai dovuto lasciare il paese.

Si presentò poi ad Arsenio un bambino di nome Silvestro che aveva sette anni. Gli chiese di visitare sua madre che dal giorno precedente stava male (il papà era morto l'anno prima). Arsenio si sentì costretto a seguire il bimbo che lo condusse a casa sua. La donna era molto ammalata ed Arsenio non nutriva particolari speranze di salvarla e dovette dirlo al bambino, che del resto manifestava una certa maturità nel modo di parlare e di agire. Silvestro chiese ad Arsenio di fare tutto il possibile e volle pregare con grande ardore insieme a lui per la guarigione della mamma. In effetti, sebbene dopo giorni e con grande fatica, la donna - il suo nome era Xenia - guarì, ma fu allora che si ammalò Silvestro. Ed anche le sue condizioni apparvero subito gravissime. Ma la pazienza, la competenza e la fede di Arsenio ebbero successo anche in questo caso. Il bimbo sopravvisse. Arsenio era ormai affezionato a lui, ma capiva bene d'essere anche attratto da Xenia, cosa che non lo faceva stare tranquillo poiché reputava che lo separasse da Ustina. Un giorno lo disse a Xenia, la quale lo pregò almeno di rimanere presso di lei come fratello e gli disse che insieme - lei, lui e Silvestro - avrebbero sempre pregato per Ustina. Ma Arsenio non poteva accettare tale situazione che, se da un lato non gli dispiaceva affatto, era del resto per lui imbarazzante poiché non avrebbe mai cancellato la sua colpa nei confronti di Ustina e del figlio nato morto.

Una notte Arsenio scelse di fuggire. Indossò l'ermellino e pose nelle tasche alcune tavolette di Cristoforo che aveva dimenticato di mettere nella borsa. Si spinse fino alla porta del paese e sperò che qualcuno l'aprisse per lui, così da consentirgli di uscire. Giunto presso la porta, trovò un uomo su un cavallo che, come se lo stesse aspettando, lo fece appunto uscire, salvo poi rendersi conto che Arsenio non era l'uomo che aspettava. Egli infatti aveva appuntamento con un malvivente, Spilorcio, e quando Arsenio s'era avvicinato, lo aveva scambiato per Spilorcio stesso. Ecco perché l'aveva fatto uscire. Arsenio, dal canto suo, pur sorpreso dalla circostanza d'aver trovato un uomo ad attenderlo, aveva in un primo tempo creduto che egli fosse un angelo. Solo dopo, quando i due si erano allontanati insieme dalla città, s'era accorto che non di un angelo, ma di un delinquente si trattava. In ogni caso il delinquente lo minacciò, poi gli tolse la pelliccia (e Arsenio non badò al fatto che, costretto a cedergliela, gliel'aveva data senza ricordare di trattenere le tavolette di Cristoforo contenute nelle tasche). Successivamente era fuggito, approfittando del fatto che il delinquente l'aveva lasciato libero. Ma voleva rivederlo e, accortosi appunto che alcune tavolette erano rimaste nella pelliccia, Arsenio tornò indietro. Ma notò che il delinquente era stato ammazzato proprio da Spilorcio, nel frattempo evidentemente giunto. Insomma l'intreccio si complicava a quel punto. Perché Arsenio riusciva allora ad attaccare il defunto sul cavallo che questi gli aveva prima lasciato. Quindi spediva il cavallo alla volta del paese col cadavere perché pensava che in paese il defunto avrebbe avuto sepoltura. Arsenio svenne allora poiché del resto Spilorcio l'aveva colpito con una mazza poco prima. Quando rinvenne comprese che della gente l'aveva soccorso. Da quel momento in poi disse di chiamarsi Ustino a chiunque gli chiedesse il proprio nome.

Appena ne fu capace, riprese il cammino finché non si fermò presso un cimitero frequentato dalle monache di un vicino convento. Da allora fu preso per un uomo di Dio. E conobbe due folli di Dio. Il primo si chiamava Tommaso ed era incredibilmente vivace e piantagrane, oltreché manesco. Appena vide Arsenio, gli disse che pure lui doveva essere un folle in Cristo. Tommaso prese Arsenio per la mano e lo condusse di corsa lungo il fiume Pskova, che a sua volta alimentava le acque del fiume Velikaja. Tommaso disse che dall'altra parte del fiume Pskova viveva un altro folle in Cristo di nome Karp, il quale a volte ripeteva ricorsivamente il proprio nome: «Karp, Karp, Karp...». Tommaso era solito picchiarlo poiché Karp aveva la brutta abitudine di attraversare il fiume e venire in paese, ma il paese era territorio di Tommaso il quale non accettava ingerenze e dunque malmenava Karp affinché se ne tornasse nel suo settore al di là del fiume. Tommaso, da autentico folle in Cristo, conosceva tutto di Arsenio a partire dal nome e gli leggeva pure nel pensiero. Gli disse che il nome di battesimo sta scritto sulla fronte di ogni uomo, quindi non è difficile potere leggerlo. Gli disse inoltre: «Dunque fai il folle, mio caro, e non vergognartene. Altrimenti con la loro venerazione quelli ti snerveranno. La loro venerazione non si concilia con i tuoi scopi. [...]». Aggiunse poi che era bene Arsenio tornasse nel cimitero dove aveva già pernottato, poiché nel convento femminile adiacente Ustina avrebbe potuto trovare posto, ma non ebbe il tempo di arrivarvi. Invece già v'era giunto Arsenio e quindi era cosa buona che vi rimanesse. Inoltre egli avrebbe potuto soggiornare serenamente nel cimitero stesso. E infatti Arsenio si stabilì proprio lì, creandosi una sorta di dimora con una delle pareti che faceva da ingresso (le altre tre erano rappresentate da un punto in cui due querce s'intrecciavano, dal muro del cimitero e da una parete che egli stesso riuscì a costruire con materiali raccolti lungo il fiume).

Pavel Svedomskij
«Il folle di Dio»
Fine XIX secolo
E la terza e la quarta parte? Non voglio spoilerare più del dovuto. Leggetele da voi. Io, per conto mio, ho raggiunto il mio scopo: fissare i dettagli che più m'interessano. Ma vi assicuro: questo libro merita d'essere letto.

Ivo Flavio Abela



Appendice di citazioni

1) «Camminando per la strade di Zaveličje, Arsenio prendeva a sassate le case delle persone pie. I sassi centravano le travi con un rumore sordo. Gli abitanti uscivano fuori e Arsenio s'inchinava davanti a loro e si segnava. Quindi si avvicinava alle case dei depravati o di quelli che si comportavano in modo indecente. Cadeva ginocchioni, baciava i muri e poi bofonchiava qualcosa a bassa voce. E quando molti si meravigliarono di tale comportamento, il folle in Cristo Tommaso disse: "A pensarci bene, cosa c'è di tanto strano? Il nostro fratello Ustino ha ragione, quando tira i sassi alle case delle persone pie e dignitose. Gli angeli hanno già cacciato da quelle case tutti i demoni. E quelli per paura di entrarvi, come sappiamo per esperienza, si aggrappano agli angoli degli edifici". Il folle in Cristo Tommaso indicò una delle case: "Non vedete forse una moltitudine di demoni appiccicati agli angoli?". "Non la vediamo" risposero gli astanti. "Ma egli la vede. E' per questo che tira i sassi. Nelle case delle persone ingiuste i demoni si trovano ancora dentro, perché gli angeli che sono destinati a custodire l'anima umana lì non possono abitarci. Gli angeli stanno davanti alla porta e piangono per quelle anime perdute. Il nostro fratello Ustino si rivolge agli angeli e chiede loro di non interrompere le preghiere, affinché le anime non muoiano definitivamente. E voi, maledetti, pensate che lui parli ai muri..."» (pp. 131-132).

2) A proposito del fatto che Arsenio era stato picchiato e ferito: «"Non è detto" obiettarono gli abitanti di Zaveličje. "In Russia tutti sanno che picchiare i folli in Cristo è proibitissimo". Tommaso rise di gusto. "Per spiegarvi quel che penso, ricorro a un paradosso. I folli vengono picchiati proprio perché è proibito. Lo sanno tutti: chiunque picchi un folle in Cristo è un delinquente". "Che altro?" confermarono i presenti. "Ora" disse il folle in Cristo Tommaso "l'uomo russo è pio. Egli sa che un folle in Cristo deve patire la sofferenza, per questo è disposto a peccare pur di offrirgli quella sofferenza. Qualcuno deve pur fare il delinquente, no? Deve esserci qualcuno capace di picchiare o, mettiamo, di ammazzare un folle in Cristo, o no? Che ne dite?"» (p. 139).

3) «Egli (il podestà. N.d.r.) andò da Arsenio e in presenza delle suore gli consegnò un sacchetto pieno d'argento. Si sorprese quando Arsenio lo accettò. Il podestà se ne andò ma lasciò nel convento uno dei suoi uomini per osservare come avrebbe disposto il folle in Cristo del denaro consegnatogli. La sera dello stesso giorno l'uomo si presentò al podestà Gabriele e gli riferì che il folle in Cristo Ustino prima di tutto si era recato dal mercante Negoda. In particolare, fece notare, nella casa del mercante il folle in Cristo era entrato con il sacchetto in mano, uscendone senza. Allora il podestà ritornò a trovare Arsenio e gli domandò perché non avesse dato i soldi ai poveri bensì al mercante. Arsenio guardà il podestà in silenzio. "E che c'è di strano?" si meravigliò il folle in Cristo Tommaso che se ne stava sulla breccia del muro. "Il mercante Negoda è andato in rovina e la sua famiglia ha fame. Egli si vergogna a chiedere l'elemosina perché si ritiene una persona perbene. Così patirà, quel figlio di puttana, finché non creperà lui con tutta la sua famiglia. Ecco perché Ustino gli ha dato i soldi. Riguardo ai poveri, loro se la caveranno da soli: l'accattonaggio è una professione anche quella"» (pp. 142-143).

4) «Il podestà Gabriele va da Arsenio [...] A lui e al podestà Gabriele viene servita una coppa di vino francese. Il podestà beve, Arsenio invece s'inchina e volgendosi a nord-est lentamente versa il suo vino a terra [...] "Come mai non capisci" domanda al podestà il folle in Cristo Tommaso "perché il servo di Dio Ustino ha versato il tuo vino verso nord-est?". Il podestà non lo capisce e neanche vuole nasconderlo. "Ma tu, pover uomo" dice il folle in Cristo Tommaso "semplicemente non sai che la Grande Novgorod oggi è in fiamme e il servo di Dio Ustino vuole spegnere l'incendio con qualsiasi cosa abbia in mano". Il podestà Gabriele manda gli uomini alla Grande Novgorod per sapere cosa sta succedendo. Al ritorno gli uomini del podestà Gabriele riferiscono che la mattina di quel giorno a Novgorod è scoppiato davvero un fortissimo incendio che verso mezzogiorno si è spento per cause ignote» (pp. 150-151).

5) «Arsenio si reca alla taverna indossando i vestiti ricevuti in dono. Gli avventori della taverna lo spogliano e con il denaro che guadagnano vendendo i suoi vestiti decidono di bere per tre giorni e tre notti. Arsenio ha con sé un fagotto con i suoi vecchi panni che indossa subito, e si sente sollevato. Gli avventori della taverna ordinano i primi bicchieri. Vedendo ciò Arsenio con un colpo rovescia i bicchieri che rotolano con rumore di latta versando il contenuto sul pavimento. Gli avventori ordinano un secondo bicchiere, ma Arsenio di nuovo non lascia loro la possibilità di bere. Uno di loro vorrebbe picchiare Arsenio, ma l'oste glielo impedisce [...] Quelli se ne tornano ciascuno a casa propria sobri e con i soldi in tasca. I familiari, visti i soldi nelle loro tasche, non trovano una spiegazione ragionevole all'accaduto e rimangono nell'ignoranza più assoluta» (p. 151).