domenica 14 luglio 2019

«Isolitudini» di Massimo Onofri. Appunti su un viaggio letterario intorno al pianeta Terra

Tanti anni fa trascorsi un paio di lunghi periodi a Paphos, sulla costa sudoccidentale dell'isola di Cipro. Acquistai una spilla d'argento che avrei regalato a mia madre e che raffigurava l'idoletto, come si era soliti chiamarlo, cioè una maschera lapidea esposta nel museo della capitale dell'isola, Nicosia. La comprai presso il negozio di gioielli e argenti di Stephanidis (vi si trovavano oggetti - soprattutto piatti da esposizione - in argento di Lefkara, un piccolo e delizioso paese dell'interno che ebbi pure modo di visitare): ecco una delle prime associazioni partorite dalla mia mente quando, giunto alla pagina 18 del bel libro di Massimo Onofri Isolitudini. Atlante letterario delle isole e dei mari (La Nave di Teseo, 2019), mi sono imbattuto nella menzione del dottor Stephanides, protagonista de Il labirinto oscuro (1958) di Lawrence Durrell. Il mio personale ricordo non può di certo essere rilevante per il lettore del presente testo e del libro di Onofri, ma chi ha conosciuto la Grecia e il nugolo di isole disseminate nell'Egeo, chi ha visitato Creta, chi ha vissuto la quotidianità di un'isola come Cipro - che è Grecia comunque, ad onta della propria quasi totale indipendenza e di una parziale sottomissione alla Turchia - non può che rimanere affascinato dalle pagine incipitarie che Onofri, nel suo "atlante", dedica appunto alle isole elleniche. Stephanides viene ancora menzionato poiché avrebbe parlato a Henry Miller di Ghiorgos Katsimbalis, ovvero il colosso di Marussi, cui lo stesso Miller avrebbe dedicato l'omonimo libro scritto dopo un soggiorno in terra greca e pubblicato nel 1941. Di quel soggiorno sono testimoni alcune carte di Ghiorgos Seferis, altro personaggio de Il colosso di Marussi, tra le quali si annidava un taccuino sulle cui pagine lo stesso Miller aveva appuntato i dettagli di quella permanenza.

Antoine Watteau
Pellegrinaggio per l'isola di Citera (1717)
Per lunghi minuti la mia mente si perde nell'immaginare «l'onde / del greco mar» che s'infrangono contro dirupi di arenaria chiara, alla sommità dei quali insistono - audacemente abbarbicati - antichi monasteri da cui promanano suoni mistici. E ripenso alla luna piena sull'acropoli ateniese, quale viene cantata dallo stesso Seferis nel suo unico e onirico romanzo, Sei notti sull'acropoli, nonché a Nettuno che batte il tridente con forza, come lo ritrae Odysseas Elytis. Poi mi fermo e continuo a leggere le pagine di Onofri: lord Byron muore a Missolungi consumato dalla passione per il quindicenne di Cefalonia Lukas Chalandritsanos. E ripenso a Dionysios Solomòs, intimamente legato alla stessa piccola città in cui Byron finì di consumarsi, quindi al protagonista del film di Anghelopoulos L'eternità e un giorno, che proprio di Solomòs vorrebbe completare uno dei poemi lasciati interrotti (cfr. su questo stesso blog http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2014/08/il-tempo-e-un-bambino-che-gioca-ai.html). Ed è meglio che mi fermi. Anzi non posso. Perché Onofri menziona quindi Viaggio a Citera a proposito del pittore Antoine Watteau, il quale dedicò tre dipinti all'isola in cui Afrodite sarebbe nata, e cioè L'isola di Citera (1709-10), Pellegrinaggio per l'isola di Citera (1717), L'imbarco per Citera (1718-19). E menziona anche la poesia Un viaggio a Citera che Baudelaire inserì nella raccolta I fiori del male del 1857. Ma - chissà se a Onofri sarà venuto in mente - Ταξίδι στα Κύθηρα è anche il titolo di un malinconico film del già citato Angheolopoulos, dal finale doloroso, uscito nel 1984. E dunque la meraviglia dell'isola greca in cui tutti i sogni potrebbero trovare realizzazione si mesce, nella mia mente, alla musica e ai versi che Eleni Karaindrou scrisse per lo stesso film («Άρρωστη καρδιά δε βρίσκει γιατρειά στη λησμονιά / χάνεται στ’ αγιάζι μέσα στο βοριά στα ξένα μακριά...»: https://www.youtube.com/watch?v=mekzEV206Ho).

Leonard e Marianne
Poi Onofri scrive che Katsimbalis e Seferis approdarono, insieme a Miller, a Idra per fare visita al pittore Nikos Ghikas. Ma Idra fu teatro di ben altro. Leonard Cohen, canadese ebreo di madre russa, vi giunse nel 1960 e, grazie all'eredità che gli era giunta dalla nonna, v'acquistò un'abitazione in pietra grigia e bianca, pagandola 1500 dollari. Aveva ventisei anni e due raccolte di poesie alle spalle: Let us compare mythologies, pubblicata nel 1956, e The Spice-Box of Earth, che sarebbe stata data presto alle stampe. E fu a Idra che s'innamorò di Marianne Ihlen. Lei v'era giunta col marito, lo scrittore norvegese Axel Jansen, il quale poi l'abbandonò per un'altra, la pittrice americana Patricia Amlin, nonostante il fatto che fosse nato, sei mesi prima, il loro figlio Axel Joachim, lasciato naturalmente alla stessa Marianne. Axel e Marianne avevano raggiunto Idra dopo avere visto Il ragazzo sul delfino, film del 1957, in cui Sophia Loren cantava Ti ine aftò, duettando con l'autore del pezzo, cioè Tonis Marandas (https://www.youtube.com/watch?v=e9Sf04zxIpo). Chissà se Onofri sia a conoscenza del fatto che la professoressa Elsa Guggino, madre del comune e carissimo amico Ignazio Buttitta da lui citato - insieme, del resto, ai membri della famiglia - in Passaggio in Sicilia, raccontava che suo marito, il compianto antropologo Antonino Buttitta, le cantava proprio questa canzone prima del loro matrimonio. Come si fa a non amare la Grecia? Molto più avanti, Onofri ricorda che Henry David Thoreau, tra il 1849 e il 1855, scrisse Cape Cod. E vi pose queste parole: «Di quando in quando inserisco una citazione in greco in parte perché è una lingua che ha un suono molto simile a quello dell'oceano - anche se dubito che il Mediterraneo di Omero sia mai stato così rumoroso». E aggiunge Onofri: «Bellissima idea, d'immaginazione per così dire eziologica, questa d'una lingua che si costruisce restituendo i suoni dei luoghi che l'hanno generata». Elytis sarebbe andato oltre nel definire le peculiarità della lingua greca (ne fornisco ragione qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2015/11/sublime-e-voli-daquila-nella-poesia-in.html). Io mi limito ad amarla visceralmente e ringrazio Massimo Onofri per avere parlato di Grecia.

Spostiamoci a Egina, l'isola recante il nome della ninfa che fu madre di Eaco per virtù di Zeus, il quale la possedette trasformatosi in aquila. La gelosissima Era inviò dunque sull'isola una pestilenza che falciò quasi tutta la popolazione. Eaco ottenne da Zeus che tutte le formiche dell'isola fossero mutate in uomini, così da rimpinguare il popolo ucciso dal morbo: i Mirmidoni, dunque, non sono altro che formiconi (del resto più avanti, a proposito del labirinto cretese, il mito tornerà: sarà ricordato da Massimo che la figlia di Agenore di Tiro e Telefassa, cioè Europa, fu rapita da Zeus trasformato in toro. Dalla loro unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone). E chissà perché (in verità è scontato per me) mi torna in mente Il principe fulvo di Salvatore Silvano Nigro, in cui il grande italianista rileva che Tomasi di Lampedusa, dopo un'iniziale adesione al fascismo, se ne distaccò e individuò negli uomini implotonati in camicia nera... proprio dei formiconi! Appunto contro quei formiconi fascisti s'abbatte la palinodia del fascismo stesso messa in opera dal cantore di Fabrizio Salina (cfr. su questo stesso blog http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html).

Non posso però rendere di certo conto di Isolitudini in modo dettagliato. Mi limiterò ancora, per le isole greche, a commuovermi per avere letto che Massimo cita uno dei miei cantanti greci preferiti, cioè Ghiannis Parios (a cui del resto devo personalmente l'emozione che mi coglie quando ascolto le sue versioni di due pezzi tra i più belli partoriti, musicalmente, dal genio di Mikis Theodorakis e - in quanto ai testi - da due glorie della poesia nazionale ellenica moderna, cioè il già citato Odysseas Elytis e Iakovos Kampanellis. I due pezzi sono Marina e Margarita Maghiopoula, rispettivamente ascoltabili qui https://www.youtube.com/watch?v=daYgui6RYyw e qui https://www.youtube.com/watch?v=4k1Ix8bJWno). E cito ancora Patmos, da Onofri menzionata poiché l'evangelista Giovanni vi concepì l'Apocalisse: quel Giovanni immaginato e immortalato da Hieronymus Bosch intorno al 1505. Ancora ecco El Greco, al secolo Dominikos Theotokopoulos che (val la pena ricordarlo) andò letteralmente (cioè fisicamente) incontro al Rinascimento spagnolo: se infatti quel movimento culturale, in cui l'uomo trionfò nella sua pienezza insieme alla prospettiva pittorica (segno e simbolo della conquista del proprio "punto di vista", cioè della propria centralità, dopo un Medioevo cristiano e mistico e un Umanesimo che al Rinascimento aveva spianato il cammino), aveva lasciato vergine la Grecia diventata bidimensionale grazie a un ethos ortodosso sovrappostosi a quello plastico di una classicità greca e di un ellenismo espressionista, El Greco però lo conobbe perché lascio Creta. Si recò infatti in Occidente, mettendo a frutto la maestria maturata presso gli iconografi cretesi, ma calandola in un connubio con la maniera artistica occidentale. Ne verranno i grandi capolavori cui tutti guardiamo con ammirazione e sacro rispetto.

Voglio concludere rapidamente l'excursus sulle cronache "geo-critiche" di Onofri su quella Grecia che tanto amo. Egli menziona ancora Theodorakis, Camus ed altri per affrontare infine l'inabissamento dell'isola di Elice (ne parlerà Saverio Scrofani in Viaggio in Grecia del 1799), che perciò risulta «isola all'ennesima potenza» e ci ricorda il destino della nostra piccola Ferdinandea che, nella struttura ad anello di Isolitudini, dopo circa quattrocento pagine (e non a caso, mi pare), assurgerà a dignità di protagonista del finale del libro.

Voglio saltare un po' e andare al Giappone e a La nave delle onde (1954) di Yukio Mishima, romanzo ambientato a Ute-jima, avendo l'autore compiuto un viaggio in Grecia e volendo ispirarsi al romanzo di Dafni e Cloe, cui Onofri associa del resto la xilografia di Hokusai Kotsushika, cioè Il monte Fuji visto da Kanagawa e nota anche come La grande onda. Debussy la volle sulla copertina della partitura per orchestra di La mer. Mishima aveva pubblicato, all'età di ventiquattro anni, l'autobiografia Confessioni di una maschera, in cui dedica alcune pagine al San Sebastiano di Guido Reni, legandolo al proprio primo atto autoerotico. Del resto Mishima si sarebbe fatto ritrarre  nella posa del San Sebastiano dal fotografo Eikoh Hosac, nel 1963, forse in una ricerca di identificazione con qualcosa o con qualcuno che avrebbe finito per coinvolgere anche l'ideologia dello scrittore, poi suicidatosi ritualmente a soli quarantacinque anni.

M'imbatto pure nella citazione di Bernardin de Saint-Pierre e del suo Paul e Virginie, a proposito della natura piuttosto vergine della quasi indiana Île de France. Mi sovviene allora uno sceneggiato che vedevo da bambino, tratto proprio dal libro citato, e ricordo pure che ho in casa il libro stesso, in un'edizione del 1953 brutalmente recante il titolo di Paolo e Virginia. Più avanti leggo di Eugenio Turri e ancora di Jean-Marie Gustave Le Clézio e delle mascelle di animali marini da lui descritte. Istintivamente riguardo alcune foto di una mia visita di sei anni fa alle Fortificazioni Timoleontee del disgraziato paese in cui vivo. In quell'occasione fotografai qualcosa: i resti di una carcassa animale. Qualcosa di bianco come gli ossi di seppia... Tutto gira, a quanto pare. Ed è vero che vita e letteratura tendono a mescersi. Ma è anche vero, come ricorda Onofri, che la letteratura genera letteratura. «Questa ricurva mascella non rise / ma morse e morse e adesso è un cenotafio».

Isaak Levitan
Vladimirka
E adesso salto verso l'altro mio grande amore: la magnifica Russia presovietica, quella in cui i prigionieri politici venivano però (e ahimè...) inviati in una terra ingrata che era isola solo per caso, essendo il suo Nord quasi legato al continente per via di un fondale di profondità non importante, cioè Sachalin. Ed è magnifico il modo in cui Onofri ci guida lungo il percorso che Anton Čechov vi realizzò. Ma vorrei compiere un passo indietro, mettendo in campo alcuni appunti la cui stesura proprio Onofri mi ha ispirato. Quando infatti Massimo era impegnato nella composizione di Isolitudini, in molti avemmo modo di leggere su Facebook ciò che egli andava concependo su Čechov e Sachalin. E una sera mi venne voglia di rileggere Il gabbiano. Grazie anche agli studi di Orlando Figes dei quali mi sono nutrito, scoprii quindi che il suicidio, prima soltanto tentato, di Treplëv nel dramma del grande russo fu ispirato da un fatto realmente accaduto a Isaak Levitan. Quest'ultimo, nato in una famiglia ebrea lituana e rimasto presto orfano, era stato fraternamente adottato da Anton Čechov e da suo fratello Nikolaj, che sarebbe morto di tubercolosi prima di Anton, come prezioso amico. Peraltro era stato collega dello stesso Nikolaj presso la Scuola di Pittura di Mosca. Anche l'episodio relativo all'uccisione del gabbiano (quello che sarebbe poi stato impagliato, diventando metafora dell'infelice vita e della fragile identità della protagonista) pare fosse stato ispirato da un analogo episodio della vita di Levitan. Morto Nikolaj, l'amicizia che legava Anton ad Isaak divenne ancora più salda. Paradossalmente proprio la profonda conoscenza di Isaak da parte di Anton spinse quest'ultimo a sconsigliare alla sorella Marija, che s'era innamorata di Isaak e aveva chiesto ad Anton il suo parere su un eventuale matrimonio, di sposare l'amico. Infatti Levitan in gioventù amava trascorrere il tempo proprio come Anton, cioè frequentando lupanari e donne dalla dubbia moralità. Isaak decise di accompagnare Anton a Sachalin, la già menzionata isola situata a 800 Km a Nord del Giappone, dove Anton intendeva recarsi, dopo essersi esageratamente documentato soprattutto sulle asprezze del regime punitivo instaurato dagli zar. Volle recarvisi forse per compiere qualcosa di memorabile prima di morire: Čechov sapeva già d'avere contratto la tubercolosi e d'essere dunque condannato, anche se riuscirà a sopravvivere ancora per quattordici anni. Ma di fatto, compiuta la prima tappa del viaggio, il pittore preferì tornarsene indietro: diceva che gli pesava il fatto di dovere rimanere lontano per tanto tempo dalla sua amante, Sofi'ja Kuvšinnikova (e anche dal marito di lei). Čechov non gradì. Per tre anni i rapporti tra i due rimasero interrotti. Anzi Čechov alluse smaccatamente e rabbiosamente al pittore e alla sua amante nel suo «La sventata». La lite fu poi ricomposta. E Čechov scrisse a Levitan di Sachalin. Del resto il pittore era già interessato a tutto ciò che riguardava la Siberia. Fu così che (stando al racconto proprio della Kuvšinnikova), trovandosi per caso Isaak insieme alla donna sulla Vladimirka, la strada che i condannati ai lavori forzati dovevano percorrere per giungere in Siberia, egli fu pervaso da un senso di smarrimento e di colpa. Decise allora di raffigurare la stessa strada sotto un cielo immobile, freddo, che appare particolarmente esteso anche grazie allo stratagemma dell'abbassamento della linea d'orizzonte. Fa da contraltare al dipinto di Levitan, in letteratura ovviamente, il racconto «La steppa» dello stesso Čechov. Massimo Onofri non dovrà volermene se mi sono indegnamente permesso di "integrare" (parola grossa) quanto egli stesso narra di Čechov e Sachalin. Personalmente mi pare che tale integrazione sia un atto di omaggio allo stesso Onofri, atto che è prova di quanto Isolitudini sia in grado, nel lettore, di provocare la messa in moto dell'immaginazione e la voglia di continuare a studiare.

Adesso citerò altri spunti che emergono da Isolitudini. Tra le decine e decine di nomi e di luoghi che costituiscono le tappe umane e geografiche del libro, scelgo di ricordare Saramago con i Quaderni di Lanzarote, pubblicati poco dopo la morte e ovviamente scritti nell'isola del titolo; le isole Fortunate o dei Beati, identificate con le Canarie e citate da Esiodo, Omero, Pindaro, Orazio. Ancora certe isole in cui convergono i fantasmi della vita di un uomo, come Masafuera in cui Jonathan Franzen si rifugiò dopo la morte dell'amico David Foster Wallace, proprio con le ceneri di quest'ultimo, in un eremitaggio laico dal quale emersero «le potenzialità salvifiche della letteratura». Poi c'è Fårö, isola che mi coinvolge affettivamente non tanto e non solo perché vi morì Bergman, ma soprattutto perché un albero della stessa isola fu immortalato da Andrej Tarkovskij nel suo Sacrificio del 1986. Posso continuare con l'isolotto di Grand Bé, a 400 metri da Saint-Malo, in cui François-René de Chateaubriand volle essere sepolto, cosa che avvenne il 4 luglio 1848; l'isolotto di Skelling Michael, in Britannia, con il suo monastero medievale abbandonato e i clochans, cioè sorta di igloo lapidei che fecero da rifugio ai primi santi asceti. Degna di interesse mi appare ancora la menzione delle Azzorre, vero e proprio confine tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, tanto più che fino al 1970 - ricorda Onofri - Horta, sull'isola di Faial, era il porto da cui si snodava il cavo sottomarino che garantiva le comunicazioni telegrafiche fra i due Mondi e che a me ricorda quanto letto in Geografia umana. Teoria e prassi di Adalberto Vallega, a proposito di una prima forma di globalizzazione coincidente proprio con il collegamento, tramite un cavo depositato sul fondale oceanico, tra l'Europa e l'America. Proprio dirimpetto Horta ecco Pico con l'imponente vulcano che, situato proprio appena varcate le Colonne d'Ercole dal bacino del Mediterraneo, potrebbe richiamare la collina del Purgatorio dantesco che sarebbe anche quella vista da Ulisse, secondo il racconto che Dante fa dell'estrema impresa fallimentare del Laertiade nel XXVI canto del suo Inferno. E ancora la Corsica e l'esilio di Seneca, la Sardegna e quello di Ponziano (primo papa ad abdicare nel 235 e poi condannato ad metalla in Sardegna, dove morì insieme all'antipapa Ippolito). Non manca Ventotene, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi avrebbero concepito, nel 1941, il famoso Manifesto, conferendo all'idea di Europa uno statuto quasi ontologico, sebbene ancora embrionale, e dove la virtuosa Agrippina Maggiore, ivi confinata da Tiberio, aveva trovato la morte per fame. E ancora... meglio che io mi fermi.

Non so esattamente che cosa sia questo mio scritto. Recensione? Minisaggio? Tentativo di sistematizzare quanto mi è rimasto della lettura di Isolitudini? Uno strumento per legare alcuni dati a quanto prima della lettura rientrava già tra le mie conoscenze? Non lo so. So bene però che il libro di Massimo Onofri mi sembra pionieristico. Mi risulta infatti che solo raramente sia stata tentata l'impresa di comporre un atlante letterario, cioè un corpus in cui romanzi, saggi, raccolte di poesie, drammi, ecc., unitamente ai loro autori, fossero collocati su uno spazio fisico che, nella fattispecie, è quello delle isole di tutto il mondo. Il lettore viene, così, guidato in un viaggio virtuale che coincide con una vera e propria circumnavigazione del globo terrestre: si parte dalla Grecia e si procede quindi in direzione orientale, finché non si approda alle isole della Campania e del Mediterraneo, tornando quasi al punto di partenza. Del resto se Ischia, Procida, ecc., accolgono le avventure dei grandi personaggi della letteratura nazionale (si pensi ai magnifici inserti riguardanti Amendola, la Morante, la Serao), è pure vero che esse sanno di Grecia poiché alla Magna Graecia appartennero. Le 476 pagine effettive di Isolitudini costituiscono un magnifico atlante che tutti gli appassionati di letteratura e tutti gli amanti dei viaggi dovrebbero possedere, leggere e - perché no? - consultare prima di partire per una di quelle isole o uno di quegli arcipelaghi che spesso, nel nostro immaginario, assumono un'identità soltanto oleografica e folcloristica. Se la formula avviata da Onofri con i precedenti Passaggio in Sardegna e Passaggio in Sicilia aveva convinto ed era piaciuta, essa viene adesso portata alle estreme conseguenze con risultati esaltanti (e alle estreme conseguenze viene condotto il senso di un termine - isolitudine appunto - coniato da Gesualdo Bufalino che, per così dire, reagiva alla sicilitudine sciasciana). Se a ciò si aggiungono la luminosa leggerezza e l'arguzia che connotano la scrittura di Onofri, se si guarda anche alla veste grafica, si può affermare che Isolitudini è un libro la cui presenza, nelle nostre librerie, è necessaria.

Ivo Flavio Abela




domenica 31 marzo 2019

«Lo spolverio delle meccaniche terrestri» di Maurizio Soldini

«come la trama che disegna il ragno
sopra la tela è la geometrica
tensione a tessere il cammino della vita»
Dalle meccaniche celesti a quelle terrestri. Dal cosmo all'uomo. Ma per tornare al cosmo stesso, cioè alla sede del Cervello del Sistema, alla dimora dell'Intelligenza Suprema che tutto regola e che infonde moto a quello stesso Sistema, cristallino e terso come i cieli del Paradiso dantesco. Mi sembra tale l'itinerarium mentis al quale Maurizio Soldini invita il lettore della sua ultima raccolta di poesie: «Lo spolverio delle meccaniche terrestri» (Il Convivio Editore, 2019, con risvolto firmato da Giuseppe Manitta).

Ricorre in più di un luogo, nel testo in discussione, il rapporto fra lo spazio (e la velocità) e il tempo. In «Non cedere», per esempio, la velocità di un treno che, nella sua corsa, avanza lungo una linea ortogonale rispetto a quella percorsa dal «verbo del tempo», smorza l'attesa. E l'atmosfera da stazione ferroviaria torna in «Per amor di sé», in cui il rapido avanzare dei treni giunge fino al deragliamento implicito nella fuga «da una logica binaria», in un complesso di pensieri, immagini ed anche sensazioni uditive, come lo «stridore di una cantilena» (nient'altro - forse - che la cantilena delle ruote che frenano sulle rotaie, restituendoci un fermo-immagine della vita).

E del resto, il fatto che le sensazioni uditive siano fortemente volute dall'autore è testimoniato, ancora in «Per amor di sé», dal gioco dei richiami fonico-morfologici, quali la sequenza di «astenia», «afasia», «nenia» (che quasi verrebbe voglia di leggere accentando la i), «disbasia»; ma anche la sequenza «balba», «falba», nonché «sera», «tiritera». Così come significativo, per fare un altro esempio, è il graduale divenire fono-morfologico ravvisabile, in «Lungo il muro», nella sequenza vagamente circolare «musica > muschio > schiocca». E ancora in «Belligeranza» i «comandi di cheti appostamenti / sulle schermate degli scherani [...] con andamento lento di schermaglie» inducono nel lettore una sorta di straniamento ipnotico.

Non mancano poi echi che ci portano indietro nella storia della poesia italiana: la «petrosità» di uno dei testi sembra richiamare il Dante appunto petroso, il «bubbolio» di un altro fa quasi fisiologicamente tornare in mente la descrizione del temporale di una nota poesia pascoliana, «anime animali e gente» di «Là» forse contiene reminiscenze foscoliane e ancora dantesche. Tali echi sembrano rispondere al principio secondo cui la ricostruzione del senso e delle forme (in filologia) colma il vuoto lasciato dal tempestoso inverno della memoria (e dunque dalla distruzione implicita nella dimenticanza), fino a far rinascere il canto, come Soldini osserva in «Dove scoliasti»; del resto la dimenticanza stessa è sempre in agguato, soprattutto nel secolo breve: la definizione di Hobsbawn ritorna in «Aporia di un secolo passato», in cui del resto Soldini insiste sullo scorrere della vita cosmica delle età, cioè sul passare degli anni e dei secoli. In esso sembra riassorbirsi il passare della vita degli uomini, su cui l'autore si è soffermato in alcuni dei testi precedenti.

Dalla raccolta di Soldini emerge dunque una lettura del mondo, della vita, dell'uomo, realizzata attraverso la lente di una sorta di micro- (a volte macro-) scopio poetico. Attraverso tale lente fatti e stati d'animo vengono privati della loro carica di sofferenza e restituiti al lettore quali elementi componenti un Sistema (il Sistema-Vita) in modo incolpevole, quasi essi fossero regolati da una Meccanica Superiore. Ciò li rende innocui: incapaci di causare male all'uomo. Dunque la sofferenza di cui sono latori è solo apparente, nella misura in cui essa nasce e risiede nell'uomo e non in ciò che, apparentemente, la provoca. Accettare la vita così com'è senza porsi troppe domande sembra l'imperativo conseguente: le prove cui la vita stessa ci sottopone sono il prodotto di un Sistema più alto e più sublime di quello (illusorio) in cui l'uomo crede di vivere e che egli pretende di spiegarsi; sono generate da un Sistema misterioso e impenetrabile, eppure bello, proprio come misterioso e bello è il meccanismo che regola il funzionamento di un orologio a corda. Ecco perché è necessario iniziare se stessi alla normalità (si legga il testo intitolato, non per caso, «Riti iniziatici»). Vivere tutto pienamente e basta, dunque. In quell'accettare, in questo vivere tutto sta lo scopo (e non è un gioco di parole) del vivere stesso. Tale appare il senso ultimo, epicureo e lucreziano, della raccolta di Maurizio Soldini. Anzi (di più) bisogna vivere tutto pienamente e freddamente (sembra un ossimoro, ma non lo è). Poiché la freddezza non necessariamente è indifferenza, ma è soprattutto equilibrio. Di rado un lettore esce quasi straniato, ma pure rinfrancato, dalla lettura di una raccolta poetica, come può accadere al lettore de «Lo spolverio delle meccaniche terrestri».

Ivo Flavio Abela

martedì 26 febbraio 2019

«Del perfetto scrittore-lettore. Ovvero di Massimo Onofri nel suo "Fughe e rincorse"»

«Che secolo è stato, in prosa, il Novecento nazionale?». Se lo chiede Massimo Onofri introducendo il lettore al suo «Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento» (Inschibboleth, dicembre 2018). Attraverso i saggi che lo compongono, distribuiti lungo due sezioni («Saggi» la prima, «Paesaggi» la seconda, che starebbero - in una proporzione molto ideale e poco matematica - a «Persone» e «Idee generali» del Baldacci maestro dello stesso Onofri), l'autore fornisce una risposta in forma di panoramica sul romanzo novecentesco, passando in rassegna gli scrittori che lo hanno problematizzato, quindi quelli che lo hanno degradato o, col proposito di nobilitarlo, l'hanno trasformato in un genere populista e dall'ethos piccolo-borghese. E lo fa individuandone i rapporti pure con il genere elzeviristico e con la critica letteraria tout court (anticipo fin d'ora che mi sembra rivesta un particolare senso il saggio dedicato ad Elsa Morante, poiché vi si menziona la morte del «romanzo-romanzo di vocazione epica e popolare» attraverso «La storia» del 1974, per non dire del carattere straordinario di una scrittrice che compone romanzi diversissimi tra loro, oltre ad essere ella stessa una sorta di monade in nulla somigliante ai suoi colleghi del Novecento). Conclude il libro un'Appendice dedicata al Renato Guttuso non solo pittore, ma pure scrittore dall'indole inguaribilmente comunista: in lui - sottolinea Onofri - ideologia e arte (o letteratura) fanno tutt'uno.

Mi si conceda un'inserzione quasi autobiografica

Salvatrice Forgia Abela (mia madre)
nel costume di Orgosolo
(dove insegnava intorno
alla seconda metà degli anni '50 del '900)
L'etrusco estinto autore di «Fughe e rincorse», com'egli stesso ama definirsi, ha una seconda patria: la Sardegna, in cui ormai vive quasi stabilmente e insegna da anni. E proprio dall'isola, di cui ha già ampiamente scritto nel suo pregevole «Passaggio in Sardegna», egli parte con un calembour: «Sardinia Deledda est?». Prima richiama la critica negativa, soprattutto di Giuseppe Dessì, sulla presunta incapacità o sulla mancata volontà della scrittrice di crearsi un linguaggio che apparisse letterariamente accettabile. Poi propone di considerare l'incidenza che i codici agro-pastorali hanno avuto sulla produzione della scrittrice, ma attraverso il filtro della matrice femminile che ne ha segnato la ricezione. In altri termini, la prospettiva di genere è, per Onofri, ciò che allontanerebbe la Deledda dal verghismo e dal dannunzianesimo dai quali, pure, avrebbe preso le mosse, per poi distaccarsene del tutto ed immergersi nello stesso universo contemplato tanto dall'uno quanto dall'altro, ma - ancora una volta - con gli occhi della donna: quella condannata dagli schemi socio-culturali a rimanere legata alla propria essenza biologica, nel cui alveo il piacere, allorché venga scoperto, risulta però integrato in un sistema di totem e tabù; va dunque rimosso, taciuto, cancellato, poiché manifestazione malefica da condannare.

«Corrado Alvaro distopico: "L'uomo è forte"» è il secondo saggio ed è dedicato a un romanzo distopico di Alvaro, apparso sette anni prima de «La fattoria degli animali» e nove anni prima di «1984», i due celeberrimi romanzi distopici di George Orwell (a me molto cari, se penso che «Est ed Ovest negli anni cinquanta-settanta del Novecento» fu la traccia che a me - classicista - fu imposta all'orale del Concorso a Cattedra). Onofri considera anche i romanzi con cui quello alvariano potrebbe avere rapporti, tra cui «Il mondo nuovo» di Aldous Huxley. In esso «si celebra e stigmatizza il dominio della tecnica», mentre «in Alvaro siamo alla denuncia lucida della tirannia dell'ideologia». Ma (anche qui ecco qualcosa che mi sta particolarmente a cuore) il nostro critico sottolinea anche il rapporto tra il romanzo alvariano e quello di Evgenij Zamjatin «Noi» (del 1921), in cui si ipotizza l'esistenza di uno Stato Unico. Naturalmente non si può non pensare alla collettivizzazione voluta dal regime sovietico. Ma c'è di più: nel 1942 viene proiettato nei cinema «Noi vivi/Addio Kira», celeberrimo film con Alida Valli e Rossano Brazzi, adattamento cinematografico di «We the Living» di Ayn Rand (1936). Alvaro partecipò alla stesura della sceneggiatura. Il film è ambientato nella rigida e umanamente monocromatica Russia sovietica (di quell'appiattente monocromia sociale, ideologica, pure esistenziale, imposta dal regime), ma è sorprendente la sua somiglianza con l'Italia mussoliniana. La mano di Alvaro si percepisce chiaramente: essa restituisce un'atmosfera molto simile a quella del romanzo «L'uomo è forte». E che cosa accomuna questi prodotti distopici e il film? Semplicemente - dice Onofri - «la malattia diffusa della paura».

Auguste Rodin
«Il Poeta e la sirena»
1909, Parigi, Musée Rodin
Foto Herve Lewandowskij
«Mario Soldati o del viaggiare» è il terzo saggio della prima sezione. Lascio per un momento la parola all'autore per quello che mi sembra un passo emblematico: «Ma torniamo alla definizione di Bassani: non c'è forse modo migliore di questo - e cioè la registrazione di un'ostinata persistenza del narratore nell'altrove - per rappresentarsi quel balzo in avanti - quel controbalzo di stile - cui Soldati si costringe ogni volta, precipitandosi, prensile e velocissimo, nella naturalezza solo apparente della sua prosa, che è, invece, come il risultato d'un procurato allarme: per un sussulto, per un turbamento, per un'inquietudine, che sono all'origine di quel movimento di scrittura, ma che, in quel movimento, vengono come dissimulati. Sta anche qui, in questo procurato allarme, se vogliamo, una delle motivazioni, non so se la più profonda, del più volte sottolineato istrionismo dello scrittore: e che, appunto, indirizza la sua prosa verso una parola tutta recitata, ma recitata perché di valore innanzitutto esorcistico». Non vorrei cadere in un'immagine retorica e inflazionata, ma corro volentieri il rischio, se dico che tali righe sono la prova della scarnificazione cui Onofri sottopone la materia trattata, servendosi della parola come di un bisturi. In questo saggio, peraltro, si respira la stessa atmosfera di «Passaggio in Sardegna» e di «Passaggio in Sicilia» dello stesso Onofri: sembra dominarvi quella cura del dettaglio veritiero, cui Soldati si votava quando narrava gli episodi e le tappe della propria permanenza in Sardegna. Massimo ricorda che Bassani scrisse un saggio dal titolo «Mario Soldati o dell'essere altrove», in cui alludeva alle fughe e alle rincorse (ecco anche l'origine del titolo del libro di Onofri) che lo stesso Soldati avrebbe compiuto. A me torna in mente il suo «La verità sul caso Motta», in cui mi pare che Soldati si sia dato a una fuga ideale e definitiva addirittura in un mondo altro, attraverso il personaggio di quel Motta che un giorno sparisce e comincia a vivere nel mondo sottomarino delle sirene, non diversamente dal professore di latino e greco del tomasiano racconto «Lighea».

Alberto Sordi ne «I vitelloni» (regia di Federico Fellini, 1953)
Ancora di Soldati parla Massimo nel saggio «Una finestra sulla città delle donne: appunti su Soldati, Fellini e altro», sottolineando il fatto che per il vulcanico Mario il miglior film di Fellini fu «8 e mezzo»: il regista, infatti. vi si manifestava fedele alla propria ispirazione, cioè quella di «essere cinema» senza mediazioni esplicative o razionali. Onofri si profonde poi nell'analisi del vitellonismo italiano: ne individua le origini dongiovannesche, ma - ad onta del collezionismo di donne di qualsiasi età e condizione, quale risulta giocosamente simboleggiato dal catalogo dapontian-mozartiano letto da Leporello a Donna Anna, vittima anch'ella della seduzione proprio di don Giovanni - il vitellonismo appare più la condizione di chi non solo sceglie di vivere in modo godereccio la propria vita, ma anche tutte le vite possibili in una simultaneità che - se non reale - appartiene comunque allo spirito. Proprio di Soldati scrive Massimo: «Ha una moglie, Marion Rieckelman, che ha sposato nel 1931, e tre figli, Frank, Ralph e Barbara, l'ultima nata nel 1934. Ma si rapporta a sé, al proprio mondo sentimentale, come se non avesse avuto mai vincoli [...] La famiglia, quella che vivrà come la sua unica e vera, la conoscerà soltanto diversi anni dopo: con Giuliana Kellermann, Jucci, che conosce nel 1941, ed i figli Volfango, Michele e Giovanni. [...] No, nel 1940 Soldati non pare mostrare i segni d'un complesso tipico di tanti padri italiani, che chiamerei il complesso d'Enea; non avverte lo schiacciante peso delle responsabilità che, in questo nostro Paese, ci lasciamo sovente imporre dai Penati». E del resto il vitellonismo è poi identificato da Massimo con una forma di puerilismo mai risolto e permeante di sé il mondo di Fellini a partire dal suo celebre film: coincide con lo sperpero di vita e di tempo cui si votano quanti - mai cresciuti realmente - sono impermeabili appunto al senso di responsabilità. E quel già ricordato don Giovanni privo del catalogo è del resto il protagonista de «La finestra» di Soldati. La lettura di Massimo giunge a una conclusione: Soldati ebbe paura di incontrare "personalmente" (cioè intimamente) Fellini, quasi come talvolta si teme di guardare il proprio viso allo specchio. Forse poiché sentiva che in quel vitellonismo felliniano egli era immerso fino al collo.

Carlo Cassola con la figlia Barbara
Seguono il saggio, bellissimo e già citato (ragione per cui non mi vi soffermo), su Elsa Morante e «Un romanzo di Carlo Cassola». «Io sono un ingenuo, e mi accorgo tardi delle cose, ma comincio finalmente a rendermi conto del mio isolamento. Che è dovuto solo a questo: che io continuo a credere nella poesia, e gli altri non ci credono più. Ma lasciamo perdere»: Carlo Cassola in una lettera a Italo Calvino del 18 marzo 1964 delinea così il rapporto, appunto, tra isolamento e poesia che - dice Massimo Onofri - gli avanguardisti non potevano comprendere. E che pure lo stesso Calvino, in fondo, non avrebbe compreso del tutto, se è vero che, nello stesso anno, stava tessendo contatti con il Gruppo 63 e avrebbe presto fatto approdo «all'idea di letteratura come giuoco combinatorio» (quell'idea, cioè , di una letteratura cervellotica, artificiale, meccanicistica, che chi sta vergando queste righe detesta al punto di non avere più piacere alcuno nella lettura di alcuni libri di Calvino, quali «Il castello dei destini incrociati», indicato non a caso da Massimo come momento topico nello sviluppo, da parte di Calvino, di quella stessa idea). Sicché non ci meraviglia quanto Onofri rileva successivamente, allorché cita le parole di Cassola sull'immobilità solo apparente dei personaggi, semmai condizione di dinamismo sostanziale sebbene non plateale, contenente già in sé ogni sviluppo possibile, un po' come l'entelechia è aristotelicamente la condizione vitale contenente in sé già tutto lo sviluppo successivo del soggetto, fino al limite naturale. E se, usando un procedere - ahimè - calviniano, «isolamento» sta a «immobilità», «poesia» sta allora a «dinamismo», sebbene tale proporzione sfuggisse evidentemente proprio agli avanguardisti, presi com'erano più dal gusto della scomposizione e della ricomposizione, che da quello della relazione profonda fra le parti prima smontate e poi a loro piacimento rimontate.

Garboli
Ed ecco ancora i saggi «Qualcosa su Garboli» e «Qualcosa su Baldacci». Nel primo Onofri tesse una riflessione partendo dal fatto che Garboli stesso scrisse d'essere interessato, più che ai libri, alle persone. E a queste ultime in modo molto personale: «forse non m'interessavano le persone, quanto il mistero ch'esse detengono, sole al mondo: il rapporto fra l'essere e il fare, o, che che è lo stesso, tra il non essere e il fare. Il rapporto tra le persone e le loro "opere", tra le persone e il loro equivalente oggettivo». E così la critica diventava per lui la strategia per cogliere proprio tale rapporto, partendo però dal presupposto che la letteratura è «concepita come assenza di qualcosa, come negazione di sé stessa». Nel secondo saggio appena citato Massimo muove dalla considerazione che Baldacci spiegò l'immensa fortuna dell'Ottocento come secolo sì della letteratura, ma anche della musica e dei quadri (e non è un caso che il critico abbia scritto pure di pittura e di libretti d'opera). E sono proprio questi ultimi i saggi in cui mi pare che Onofri tributi un omaggio personalissimo e denso di affettuosa ammirazione ai due - pur così diversi - critici. Non a caso sono tra i saggi più belli dell'intero libro: sarebbe un delitto cercare di sintetizzarne qui il contenuto, per cui rimando senz'altro a una meditata lettura integrale. Si conclude la prima sezione di «Fughe e rincorse».

In quanto alla seconda, non passerò dettagliatamente in rassegna tutti i saggi in essa contenuti, poiché è la sezione che preferisco: quella che si legge con maestoso divertimento per l'intelletto. E dunque sarà bene che il lettore la scopra da sé nei particolari anche minimi. Ma qualcosa dirò ugualmente. Tra un Natoli incolpevole cantore di un sistema di valori che sarà un giorno adottato dalla mafia, un genere difficilmente classificabile (frammento, capitolo, prosa d'arte?) quale l'elzeviro (ma spero che Onofri si renda conto del fatto che, se oggi esiste un magnifico interprete di un genere tanto poliedrico, quello è lui stesso. E tale appare peraltro senza cadere mai neanche nel più larvato calligrafismo, che pure rappresenta il limite e, in certi casi, l'esito degenerato di tale tipologia di scrittura), critici che traducono «verbalmente un valore pittorico», uno sciasciano «Affaire Moro» arditamente reinterpretato come «apologo sulla critica letteraria» (perché «la stilistica, ormai completamente risolta in critica e filologia della vita, può diventare ANCHE un modo dell'ontologia»), emerge innanzitutto l'Onofri che letteralmente «alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue» il Gruppo 63. O quantomeno i risultati cui pervennero gli avanguardisti che lo animarono, in un saggio dal significativo titolo: «Il Gruppo 63: un equivoco italiano». Ed ecco che tali signori, nell'epoca del trionfante neocapitalismo, cioè quando tutto sembrava destinato a soccombere sotto i colpi inferti da una livellante omologazione, si proponevano come gli scardinatori delle convenzioni, a partire da quelle linguistiche, finendo poi per chiudersi nella torre d'avorio (olezzante di manieristica supponenza) di una ribellione a tutti i costi agìta più di per sé, che come concreto atto palingenetico. Il tanto discusso Sanguineti (di cui pure io ebbi modo di apprezzare certe traduzioni di testi classici, talmente pedanti da rispettare pure l'ordo verborum dei testi originali, come accadde per la «Fedra» - originariamente «Ippolito coronato» - di Euripide. E le apprezzavo poiché erano in grado di restituire la natura altra dell'antico rispetto al contemporaneo) finisce così per ripiegare su un marxismo di maniera, che egli usa quale spada che non riconosce come «spuntata e miseramente arrugginita». Ma Onofri sottolinea pure che qualcuno fece in tempo a liberarsi dalla zavorra avanguardistica: Eco, per esempio, che fu acuto indagatore di ciò che il mercato richiedeva e che cominciò a prodursi, conseguentemente, in un genere in cui il romanzo d'appendice di tradizione si combinava con un linguaggio che poteva facilmente diventare di dominio internazionale, attraverso le traduzioni, ben sapendo - come del resto Calvino aveva compreso perfettamente - che bisognava scrivere in una lingua facilmente traducibile per assicurarsi lettori in tutto il mondo. Perché in fondo - dice Onofri - gli avanguardisti del Gruppo 63 «tutti insieme non raggiungono il valore storico e letterario del "Giardino dei Finzi-Contini" di quel Bassani che hanno tanto disprezzato».

Salvatore Niffoi
Il divertimento, per il mio intelletto, è cresciuto a dismisura, vedendo profilarsi sulla carta di Inschibboleth le sferzate onofriane - inferte senza pietà, sebbene talvolta anche col sorriso sulle labbra - contro il giallo italiano e Camilleri in particolare, sebbene in «Fughe e rincorse» Massimo sia stato, in fondo, piuttosto misericordioso con lo pseudo-giallista empedoclino che a lui si riferì ne «Il nipote del Negus» chiamandolo, per cavalleresca rappresaglia tra dei dell'intelletto, «Minimo Onofri» (ma - sia chiaro - per me Camilleri rimane un manovale dell'intelletto, peraltro ignaro di ciò che l'intelletto sia, un po' come il muratore maneggia materiali dei quali sconosce la composizione chimica). E le sferzate sono rivolte anche contro certi mostri sacri (Pasolini, ma - attenzione - sembrano rivolte più a coloro che ne hanno inconsapevolmente determinato il successo soprattutto post mortem: quella morte che forse appariva loro il coronamento di una vita giocata sullo scandalo ed in tal senso "dannunziana", sebbene in termini antipodicamente ideologici a quella del vate stesso). Ma le staffilate più gustose riguardano un Busi che (a forza di ritenersi il più grande scrittore italiano vivente) ha convinto un manipolo di acritici consumatori di letteratura a credergli, ancora quel pasdaran dell'azione comunista di forza - comicissimo, suo malgrado, e altrettanto comico ci appare l'irresistibile Onofri nel tratteggiarlo - di Erri De Luca che risulta pure il maestro dell'«enfatizzazione del banale», poi Salvatore Niffoi sorpreso a prodursi in un dialetto barbaricino che probabilmente non viene parlato - come lo parlava lui una domenica mattina davanti a un folto pubblico - in alcun paesucolo della Barbagia (ed il passaggio dal «purosangue imponente e nervoso nel piccolo, grazioso e dolciastro negozio di porcellane della narrativa italiana di oggi», immagine con cui lo scrittore sardo viene quasi epicamente evocato in un articolo di Giovanni Pacchiano - nomen omen? - al «cavallo bianco che galoppa libero tra spume in un celeberrimo spot del bagnoschiuma Vidal», immagine che Onofri oppone a quella verbalmente disegnata da Pacchiano, appare esilarante). Per non dire poi dell'ultimo saggio, dedicato a Milena Agus, da cui viene fuori quella verve critica non platealmente strombazzata, non caricata come una mitragliatrice, scevra di ricercati e insistiti effetti speciali, ma semplice, naturale, essenziale, limpida, leggera, accattivante. E nondimeno efficacemente irresistibile. Giusto per completezza espositiva (ma la disamina di un tale saggio meriterebbe ben altro spazio e più profonda riflessione) cito il saggio in Appendice su Guttuso: Massimo dimostra che si può ancora penetrare nell'universo di un artista senza, necessariamente, fare autobiografia e risparmiando al lettore, per esempio alla fine di ogni capitolo, la nota personale, come spesso oggi si vede fare (quasi si volesse, per forza, trarre da tutto una morale che, tuttavia, risulta autoreferenziale).

Alla pagina 166 Massimo riferisce alcune parole di Garboli: «Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo». E allora, «se le stesse stanno così», per usare una formula cara a Onofri che la usa spesso nel suo procedere argomentativo (con l'unica variante di «Se le cose possono stare in questi termini» che registro alla pagina 182), forse come tributo a Sergio Endrigo (o magari ad Alessandro Fersen o ancora al magnifico Luis Enriquez Bacalov), mi sembra che Massimo Onofri incarni il sublime paradigma dello scrittore-lettore perfetto, poiché nessuno come lui sa riportare a casa - cioè all'ordine - le parole disseminate nel caos del pensabile.

Ivo Flavio Abela