Alessandro Sgroi, «Il viaggio» Immagine di copertina del libro «I manichini di Renzo. Manzoni storiografo» |
La storiografia di Manzoni è letteratura. E la letteratura non fissa in schemi rigidi, precostituiti, stagni, ciò che si narra: la letteratura è anche creazione poetica poiché cerca di catturare la vita attraverso le parole e gli artifici retorici. Del resto «Il vero storico è piuttosto un artista, soprattutto un poeta tragico, anziché un uomo di scienza» dice Ernst Jünger, citazione non a caso riportata da Vittorio quasi a guidare il lettore, fin dall’incipit del libro, al riconoscimento dell’isotopia su cui il libro stesso insiste. E del resto come dare torto a Vittorio e a Jünger, se proprio un poeta tragico, il greco Eschilo, ci ha lasciato la più vivida e la più eziologicamente motivata testimonianza sulle origini di un’istituzione quale l’Areopago («Eumenidi», 681-710)? Come dare torto a Vittorio quando Lev Nikolaevič Tolstoj spiega meglio degli storiografi di mestiere suoi contemporanei la campagna napoleonica di Russia e i suoi esiti o quando insiste sulle ragioni del suo fallimento?
Tanti altri esempi potrebbero ancora essere addotti perché tanti ne tornano alla mente del lettore che legge «I manichini di Renzo»: tale è la forza evocatrice delle suggestioni di Vittorio, il quale porta il lettore a chiedersi paradossalmente se il romanzo storico, «raggio riflesso rispecchiante la Storia», sia realmente un genere letterario esistito e ancora praticabile, dal momento che lo statuto del romanzo storico italiano per eccellenza uscirebbe smontato, se non quasi completamente annichilito, dalla sua analisi. E dal momento poi che fin dalle primissime battute si profila il fil rouge di una storiografia-«prodotto letterario» che modifica e crea realtà, come indicano la riflessione sull’importanza della letteratura per la Polonia degli anni ‘50 del ‘900, quella sul ruolo rivestito dai letterati nel determinare le «modalità di sviluppo della crisi sociale francese di fine Settecento» secondo Alexis de Tocqueville, infine quella sulla «letteratura visiva di massa» (il cinema) «portatrice di contenuti disforici, pessimisti in Germania, informati all’happy end, euforici in America», che avrebbero avuto come esito rispettivamente il Nazismo e il New Deal.
Perché il romanzo manzoniano non è un romanzo? Vittorio va alla radice del problema: un problema che si interseca con le vicende private di Alessandro Verri. Sia chiaro: non l’Alessandro Verri fratello di Giovanni, Pietro e Carlo, ma l’Alessandro che è anagraficamente Manzoni, ma è naturalmente Verri perché figlio adulterino di Giulia Beccaria e di Giovanni Verri. Le prime note del capitolo imperniato sulla minchioneria di Don Rodrigo restituiscono l’humus in cui affonda le radici la storiografia manzoniana non solo ideologicamente: l’humus pervaso dalla linfa di Pietro Verri, che cerca di «fare il servizio al mio lettore d’insegnargli la storia, onde, terminata che fosse la fatica del leggere, gli rimanga nella fantasia almeno il tronco maestro di questa pianta, della quale è impossibile di conservare memoria di tutte le foglie e di tutti i fiori», e da quella di Alessandro Verri (l’originale) che intende «svellere dalle mani de’ pochi eruditi la nostra storia per diffonderla ne’ molti leggitori […] allo scopo di istruire, di piacere, e di far pensare». Don Lisander insomma eredita geneticamente l’animus dello storico “illuminato” e non riesce a «sbarazzarsi della zavorra storica», come dice Goethe, ovvero, come aggiunge Vittorio ribaltando i termini della questione, nonché il giudizio di Croce, si orienta «al Vero, alla Storia» e ritiene «zavorra la poesia» e «il romanzo un ingombrante espediente».
Si aggiunga la singolare coincidenza fra la data di concepimento di don Lisander e quella del «decreto abolitivo della tortura» (nei territori degli Asburgo) emanato da Giuseppe II, un’ossessione personale che verosimilmente avrebbe condotto Manzoni a non sapere più raccapezzarsi su che cosa fare del suo romanzo: egli avrebbe inteso scrivere «Gli sposi promessi» (la ventisettana) appunto come romanzo di “contorno” rispetto alla «Storia della colonna infame», si sarebbe però reso conto della disorganicità insita nella tipologia, avrebbe dunque fatto uscire dalla porta la «Storia della colonna infame» espungendola, salvo farla rientrare dalla finestra nell’edizione definitiva de «I promessi sposi» del 1840, ma relegandola in appendice. Già: in appendice. Perché, ci avverte Vittorio, Manzoni non vuole rinunciare alla moda del romanzo storico (nonostante sia consapevole di essere uno storico e dal 1830 inizi il trattato «Del romanzo storico, e in generale dei componimenti misti di storia e di invenzione», con cui prende le distanze dal romanzo storico stesso, affermando peraltro: «Un gran poeta e un gran storico possono trovarsi, senza far confusione, nell’uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento»). È dunque chiaro che non solo linguistiche ansie fiorentineggianti avrebbero condotto Manzoni a risciacquare i panni in Arno, ma ansie tipologico-contenutistiche lo avrebbero anche spinto a cercare rifugio nel grembo rasserenante di Clio (madre al pari di Giulia), sotto gli auspici dell’ancestrale Mnemosine. Del resto – come dice Vittorio – che cosa sono la storiografia e il romanzo se non un noumeno, essendo entrambi basati sulla narrazione e sulla retorica?
Sì: la retorica. La retorica le cui leggi disciplinano la buona scrittura. Dell’una e dell’altra si rivela maestro Manzoni, confezionando appunto non un romanzo, ma un trattato storiografico ben scritto, restituendo dignità a quella storiografia dominata dall’«insubordinazione lessico-grammaticale dei cicisbei della letteratura», problema che i Verri e Beccaria giungono a porsi senza tuttavia risolverlo. Né è sufficiente a ridare all’opera manzoniana la dignità di romanzo puro il corredo di illustrazioni commissionate a Gonin. Vittorio acutamente rileva che simili immagini hanno tutto il carattere dell’intermedialità (con quanto di fisiologicamente irrisolto l’intermedialità implica) e rivestono lo stesso ruolo delle informazioni storiche che Manzoni sente necessario premettere alle sue tragedie. Sono cioè «l’indicazione sommaria del supporto materiale delle sue creazioni», costituendone la base documentaria.
Il risultato? Un romanzo «fiacco d’ordito», per dirla con Balzac, in cui dominano le incongruenze, basato su un rapimento fallito il cui ordito ha dell’esilarante (e Vittorio lo rende ancora più impietosamente esilarante narrandocelo con ludico sarcasmo) perché minchione ne è l’ideatore don Rodrigo: impotente intellettualmente ancora prima che sessualmente. Perché Manzoni non bada alla coerenza dell’intreccio come un vero romanziere dovrebbe fare, ma al documento come fa lo storiografo. In fin dei conti il «cruccio» di Manzoni è anche quello di stigmatizzare il malgoverno spagnolo, responsabile di avere reso l’Italia un «guazzabuglio» di malcostume e di cicisbeismo.
Per Vittorio la storiografia manzoniana è anche un fatto personale e familiare: essa è psicostoria, nella misura in cui Manzoni la usa per curare se stesso dai drammi personali (a partire dall’ipocondria), per restituire dignità alla relazione fra Giulia e l’Imbonati, per nobilitare il monorchide «padre anagrafico, ufficiale, umiliato nella sua paternità irrealizzata», per riscattare se stesso – attraverso l’epopea di eroi popolari – dalle umiliazioni subite in quanto «non sufficientemente aristocratico» (Alessandro non avrebbe mai dimenticato di essere stato snobbato dal marchese Visconti di San Vito, del quale avrebbe voluto sposare la figlia Luigia). Manzoni è del resto antinobiliare fin da ragazzino: tale è il senso del taglio del codino a undici anni, simbolica dichiarazione di guerra ai valori nobiliari, di cui Vittorio approfitta per stendere un vero e proprio minisaggio di tricologia settecentesca che si rivela un maestoso divertimento per l’intelletto.
Fermiamoci adesso. Immergiamoci semmai nella lettura diretta de «I manichini di Renzo»: solo così ci si può rendere conto dell’intelligenza dell’autore, della sua enciclopedica conoscenza bibliografica (il corredo di riferimenti e citazioni è sconfinato e usato sempre con padronanza e adeguatezza), del suo modo di usare l’apparato di note non solo come contraltare esplicativo, ma anche come teoria di finestre, aprendo ciascuna delle quali ci si affaccia in un mare di sapere in cui i «manichini» («i nodi della storiografia») si immergono e naufragano dolcemente per entrarne a far parte come componenti di un sistema. E ciò in nome dell’assunto shamiano «History is a story» che, contro ogni deriva freddamente e tecnicamente storicistica, rivendica l’equivalenza di storia e letteratura.
Giorgio De Chirico, «I Manichini» |
Ivo Flavio Abela
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