«Una traslitterazione del suono fatta dallo sciabordare
Delle piccole onde quando la luna si allontana e la casa
Si avvicina alla riva, ci potrebbe rivelare molte cose. Sulle
Vette dei sensi prima di tutto. Dove la gentilezza arriva
Sempre prima, scavalcando la forza: un luminoso celeste
Color pistacchio, il ciottolo incandescente, passi solitari del
Vento sulle foglie. O altrimenti: una metopa, una cupola
Che rendono lineare la natura come lo sciabordìo rende
Universale la lingua greca.
Impara a pronunciare bene la realtà»
Odysseas Elytis, «Incenso al migliore», XXV
Ho definito un breve canone di libri – fra i tanti che ho letto – da me molto amati. Non ho mai fatto mistero della potente attrazione su di me esercitata da tutto ciò che è ortodosso. E ciascuno di quei libri mi ha offerto la chiave per interpretare il significato della contemplazione e il desiderio di ascesi: i «Racconti di un pellegrino russo» (lettura affrontata per la prima volta nei giorni immediatamente seguenti un evento traumatico, quando – scomparso un punto di riferimento – cercavo di ritrovare quel Nord che avevo perduto) mi introdussero alla preghiera del cuore e al modo in cui ogni respiro può diventare – ritmicamente, sistemicamente e ontologicamente (mi si perdoni l'uso reiterato degli avverbi) – parte della preghiera stessa; «Teologia della bellezza» di Pavel Evdokimov mi svelò l'equivalenza fra arte figurativa e preghiera; «Le porte regali» di Pavel Florenskij mi insegnò che il passaggio dall'umano al divino può avvenire anche nella quotidianità; «Autobiografia di uno starec» di Paisij Veličkovskij mi fece comprendere quanto sia faticoso riconoscere una vocazione e perseguirla; «Santi di tutti i giorni» di Tichon Ševkunov, più recentemente, mi ha aiutato a guardare con leggerezza, arguzia, tenerezza, umanità, amore, alle vite dei monaci russi e di tanta gente comune che ha fatto della preghiera (perché vivere lasciando respirare il divino in se stessi è preghiera) il proprio stile di vita. E – nota ludica – mi sembra simpatico il calembour facente sì che il cognome dello "zar" Vladimir Vladimirovič risulti contenuto in quello del diabolico starec al quale era tanto devota la zarina Alexandra Fëdorovna Romanova, se è vero che Ševkunov viene oggi definito «il Rasputin di Putin».
Aggiungo oggi un sesto libro: «La preghiera della letteratura» di Andrea Caterini. Avevo già letto il suo commento a «Il sogno di un uomo ridicolo» di Fëdor Dostoevskij. L'efficacia espressiva priva di orpelli, fresca, pulita (che del resto ravvisavo in molte sue recensioni) me l'aveva fatto apprezzare. Anche perché quel commento era stato scritto con la foga di chi è pressato dall'urgenza di esprimersi, dalla necessità di comunicare e di condividere, dall'amore per quanto è letteratura e bellezza.
Ma che cosa può avere in comune il saggio scritto da un critico (giovanissimo, ma già dotato di invidiabile formazione e di raffinate competenze ermeneutiche) con l'Ortodossia, con la contemplazione e l'ascesi? Lo trovo – e non è tautologia – semplicemente molto ortodosso. Soprattutto lungo la prima settantina di pagine. E poi nel capitolo conclusivo, dedicato anch'esso, come il commento già citato, a Dostoevskij. Il colore, la singolarità, le isotopie di un testo passano attraverso la lingua. E nella lingua di Andrea prende forma una dimensione ieratica che rende "credo" l'ontologia della letteratura: chi affida se stesso ai misteri e ai dogmi della letteratura professa una fede; chi – esercitandola – pronuncia la letteratura (leggendola o scrivendola, cioè attualizzando in segni precisi il magma concettual-verbale racchiuso nel proprio animo e all'interno dei libri) prega. E può, tale preghiera (enfovirgole volute), diventare incessante quando è esercizio continuo. Tutto ciò passa anche attraverso riferimenti a testi e ad autori che non necessariamente sono legati ad atmosfere ecclesiastiche orientali: la «Genesi», Giovanni della Croce, Shabtai, Betocchi, Tolstoj, Grossman, Lewis, l'Achmatova, Čechov (colui che, a differenza di Tolstoj, mai giudicò, limitandosi a ritrarre ciò che vedeva, secondo la citazione di Irène Némirovskij, riportata da Andrea alla pagina 45. Anche «perché solo riconoscendo le miserie degli altri come fossero nostre si può pensare di "diventare migliore"», p. 47).
Fin dalle prime pagine del libro, quello della preghiera si profila come un linguaggio imparato a posteriori rispetto alla lingua materna. Se quest'ultima ci consente di nominare ciò che ci circonda, fungendo anche da strumento conoscitivo usato per impadronirci della realtà, il linguaggio della preghiera ci aiuta a tornare alla dimensione edenica cui siamo stati strappati dai nostri biblici progenitori. Dacché Eva ha ceduto alla tentazione del serpente e Adamo l'ha maldestramente assecondata, l'uomo ha assunto la consapevolezza innanzitutto della propria nudità, poi di tutto il male insito nella fatica del vivere. Dio ne ha comunque avuto misericordia, se è vero che in «Levitico» 25 si ricorda come abbia concesso all'uomo una tregua: «Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi». Per un anno all'uomo Dio concede di vivere come Adamo ed Eva erano vissuti nell'Eden.
«Sacrificio di Enea ai Penati» (Ara Pacis Augustae, Roma) |
«Anástasis» dalla Chiesa del Salvatore di Chora (Istanbul) |
Alphonse Mucha «Russia restituenda» |
In un mondo ormai privo di punti di riferimento, di modelli positivi, in una società rosa dall'odio (anche religioso) e dall'arrivismo, dalla vacuità e dalla fiacchezza tanto intellettuale quanto spirituale, Andrea Caterini restituisce dignità alla parola e alla necessità di concentrarsi su essa. Ci invita a scandirla come si fa quando si recita una preghiera, perché proprio la preghiera consente all'uomo di ritrovare quella parte divina di sé dalla quale è stato separato. Parlare, inoltre, equivale a pronunciare la realtà, per usare un'espressione di Odysseas Elytis. Pronunciare bene la realtà è ripristinare la possibilità di tornare a vivere, in essa, con Dio. Perché di fatto – ci ricorda Andrea – Adamo ed Eva hanno creduto di avere perduto l'Eden. In verità non se ne sono mai allontanati: hanno soltanto smarrito la possibilità di coabitarvi con Dio. Dunque fiat verbum. Nunc et semper.
Ivo Flavio Abela