«Ma la mezza luna abbraccia la croce.
Tra i banchi bruciati e tra i cespugli
come fratelli vagano Maometto e Cristo
raccogliendo dei bambini i pezzi»
Evgenij Evtušenko da «La scuola di Beslan»
Il titolo del presente testo allude al fatto che su questo blog è già stata pubblicata una sorta di parziale recensione de «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia, scritta più col cuore e di getto (la si può leggere cliccando qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/04/familiarizzarsi-con-la-morte-la.html). Quanto segue, invece, avrebbe dovuto costituire la recensione scritta più scientificamente e - come si suol dire - col cervello. Ma ne è venuto fuori più uno studio corredato di approfondimenti che una recensione vera e propria. Così è nata l'idea di scegliere un titolo che implicasse il concetto proprio di "studio" e, nel contempo, indicasse che il presente testo è frutto di un secondo approccio al nuovo libro di Fabrizio Coscia. Naturalmente gli aspetti più sentimentali (uso la parola in accezione positiva e non deteriore) sono evidenziati nella prima recensione e non qui. Sarebbe superfluo ricordare che i miei due testi vanno considerati complementari.
È il 1° settembre 2004. Presso la Scuola Elementare Numero 1 di Beslan, in Ossezia del Nord, si celebra il Giorno della Conoscenza. Ma trentadue terroristi fanno irruzione nella scuola: vogliono il riconoscimento dell'indipendenza della Cecenia. Trattengono come ostaggi milleduecento persone (alunni, parenti, insegnanti, personale). A Leonid Rošal, pediatra e attivista per i diritti umani, viene chiesto di trovare un accordo con i terroristi. Ha già provato a farlo in occasione di un analogo attacco contro il teatro moscovita Dubrovka.
Così inizia «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia (Melville Edizioni, 2017): con una discesa agli Inferi, dai quali l'autore proverà gradualmente a riemergere, armato della forza che solo la bellezza insita nella Letteratura e nell'Arte può infondere. E riemergerà portando con sé l'Uomo: lo condurrà per mano verso quella stessa luce che permea di sé il finale dei Karamazov e quello del tolstojano «Resurrezione», quando tutto si ricompone nel miracolo del binomio indissolubile di Vita e Narrazione. Come il precedente «Soli eravamo» (qui una mia recensione: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html), anche «La bellezza che resta» è un testo la cui duttilità è in grado di innescare nella mente del lettore numerose associazioni, sebbene il nuovo libro di Coscia sia dotato di una struttura - anche a livello isotopico - più rigida e condizionata dai motivi che graniticamente percorrono tutto il testo: la morte del padre, Tolstoj e il suo «Chadži-Murat».
È dunque naturale che la mia mente sia subito corsa a quanto Gennaro Sangiuliano narra nel suo «Putin. Vita di uno zar» (Mondadori) alle pagine 227-233, a proposito proprio dell'attentato terroristico contro il teatro Dubrovka. Qui, nel 2002, mentre si dava «Nord-Est», cioè «il primo musical in stile occidentale prodotto in Russia» e tratto dal romanzo di Veniamin Kaverin «I due capitani» (1939), una trentina di terroristi in nero e armati anche di cinture esplosive (tra cui alcune donne) fecero irruzione, pronti a sacrificarsi per la causa dell'indipendenza cecena. Dopo quasi tre giorni di stenti per gli ostaggi, Putin diede l'ordine di innescare un blitz che prevedeva l'introduzione in teatro, attraverso i tubi dell'impianto di condizionamento dell'aria, di un gas la cui natura non venne subito resa nota. Si sarebbe poi scoperto che si trattava del Fentanyl, un terribile oppioide prodotto in laboratorio. Il bilancio fu tragico: oltre ai terroristi, morirono centoventinove ostaggi. Se ne salvarono più di seicento, ma quelli uccisi rimasero una macchia mai cancellata dalla trama della politica dello zar del III millennio. Eppure il massacro di Beslan, da cui non a caso Coscia parte, ha lasciato una ferita ancora più bruciante: ha dimostrato quanto grande e rovinoso sia il potere del male, se arriva a colpire bambini cui s'impedisce pure di sfogare la paura col pianto: «E mi tornarono in mente le parole di Ivan Karamazov sulla sofferenza dei bambini, nel suo dialogo con il fratello Alëša, nel capolavoro di Fëdor Dostoevskij, quando dice che né l'armonia eterna, né l'acquisto della verità possono valere il prezzo delle lacrime di un solo bambino torturato» afferma Coscia alla pagina 14, individuando peraltro nella notizia relativa al massacro di Beslan un punto di svolta per la propria vita di uomo; «E non abbiamo oggi scusa alcuna | se sulla terra tutto questo accade» sembra rispondergli il poeta che sto per citare e che ho recuperato dalla mia memoria a lungo termine insieme al racconto di Gennaro Sangiuliano.
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| Il grande Evgenij Entušenko di cui è stata scelta volutamente una foto che lo ritrae col sorriso |
Ma la sovrapposizione fra Vita e Letteratura doveva essere ulteriormente riconfermata perché Fabrizio cita alla pagina 14 proprio Evtušenko ed un suo articolo apparso su «Repubblica», in cui il poeta afferma: «Se il presidente Eltsin avesse letto "Chadži-Murat" di Tolstoj, è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». «Chadži-Murat» era stato pubblicato postumo. Narrava eventi vissuti anche dallo stesso Lev che, nell'aprile del 1851, era partito per il Caucaso, dov'era in corso da ben trentaquattro anni la guerra che la Russia portava avanti per sottrarre alle popolazioni locali il territorio. Il protagonista è un uomo che, pur macchiandosi di tradimento (ma in nome della difesa della propria famiglia), ha per Coscia caratteristiche eccezionali tali da incarnare in se stesso, fondendoli, gli eroi omerici Achille e Odisseo. Singolare risulta il fatto che quest'opera sia stata scritta da Tolstoj quando già agiva in lui quella sorta di "moralizzazione" che l'aveva quasi condotto a sconfessare tutta la sua produzione precedente, cioè quel rigetto dell'arte a proposito del quale Marina Cvetaeva avrebbe scritto: «Nell'appello di Tolstoj: sopprimere l'arte! - sono importanti le labbra che lo lanciano: se non fosse venuto da una così vertiginosa altezza artistica, se non fosse stato chiunque altro di noi a chiamarci, non ci saremmo neanche voltati. Nella crociata di Tolstoj contro l'arte l'importante è Tolstoj: l'artista [...] Quale predica di povertà è più convincente, è cioè più micidiale per la ricchezza: quella di un povero da sempre, o quella di un ricco apostata? La seconda, evidentemente. Lo stesso esempio vale per Tolstoj. Quale condanna dell'arte pura è più convincente (più micidiale per l'arte): quella di un tolstojano, che in arte è nessuno, o quella dello stesso Tolstoj, che in arte è tutto?» (Marina Cvetaeva, «Il poeta e il tempo», Adelphi, pp. 84-85).
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| Pierre-Auguste Renoir «Le bagnanti» (1818-1819) Parigi, Museo d'Orsay |
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| Catherine Hessling |
Del resto sembra che anche Leopardi avesse concesso a se stesso la possibilità di assaporare maggiormente la vita proprio quando essa stava ormai volgendo al termine: aveva preso l'abitudine di passeggiare lungo le vie di Napoli, di respirarne l'aria a pieni polmoni, di ingurgitare avidamente gelati, seduto per ore al tavolino del caffè. Intanto scriveva i suoi ultimi, meravigliosi canti (con scorno - direi - di Patrizia Valduga che, un giorno molto lontano del giugno 2013, avrebbe manifestato tutta la sua sconsideratezza, affermando che il recanatese non fu un poeta). I turbamenti e i movimenti interiori del «giovane favoloso» nei suoi ultimi giorni sono illustrati con singolare efficacia da Fabrizio alle pagine 43-47, aspirando a buona ragione a fare da contraltare interamente verbale alle scene dell'ormai celebre film di Martone.
Tra le pagine più belle de «La bellezza che resta» si pongono quelle dedicate da Coscia a Sigmund Freud. Il 4 giugno 1938 egli lasciò la sua abitazione, situata nel nono distretto di Vienna, e salì sull'Orient-Express insieme alla moglie Martha, alla figlia Anna (che il 22 marzo era stata portata all'Hotel Metropole, dove aveva sede il quartier generale della Gestapo, v'era stata interrogata per presunte attività illecite e subito rilasciata), la domestica Paula, la dottoressa Stross e la cagnetta Lün. Dopo l'arrivo e il pernottamento a Parigi, attraversò la Manica e andò a stabilirsi a Londra, dove trascorse l'ultimo anno e mezzo della propria vita tra onori e terribili sofferenze dovute al cancro mandibolare e alla diffusione delle metastasi che gli corrodevano il viso fino alla base dell'occhio. E proprio in tali circostanze, in quei giorni estremi, egli decise di porre mano a una sorta di romanzo storico relativo a Mosè (ne sarebbe venuto fuori «L'uomo Mosè e il monoteismo», costituito da tre saggi), in cui Freud riprende una tesi secondo la quale Mosè non era ebreo, ma un egiziano vissuto alla corte di Amenofi IV, il faraone che instaurò il monoteismo del dio Atòn. Mosè si sarebbe impadronito di tale religione monoteistica e avrebbe dunque spinto gli Ebrei a ribellarsi agli Egiziani. Ma gli Ebrei non sarebbero stati disposti a tollerare a lungo il rigore di Mosè e lo avrebbero ucciso, dandosi alla venerazione di altri idoli. Col tempo essi avrebbero quindi cercato di cancellare la memoria dell'omicidio di Mosè. Ma, una volta abbracciato il credo di una tribù beduina del Madian dedita a Yahvé, gli Ebrei avrebbero pure cercato di liberarsi del senso di colpa per quell'omicidio. La soluzione sarebbe stata un altro omicidio: quello di Cristo. Tra le righe Coscia sembra stemperare (questa è la mia impressione) l'idea della singolarità insita nella coincidenza fra l'opera sul monoteismo mosaico, scritta da Freud alla fine della propria vita (peraltro col recupero del senso di «Totem e tabù»), e il fatto che tema di fondo ne sia l'uccisione del padre (Mosè è "padre" degli Ebrei), quasi l'ultima opera di Freud fosse inconsciamente stata concepita come un tentativo di compiere un estremo atto di omaggio nei confronti appunto del proprio padre e di espiare, così, il parricidio, secondo il meccanismo che regola il funzionamento delle nevrosi: quel meccanismo che lo stesso Freud aveva teorizzato e che prevede talora, in età matura, il recupero di quelle stesse pulsioni di cui la nevrosi è figlia.![]() |
| La statua michelangiolesca di Mosè Roma, Chiesa di San Pietro in Vincoli |
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| Schema ricostruttivo dei movimenti che - in teoria - Mosè avrebbe compiuto per assumere la posizione finale in cui è stato eternato da Michelangelo |
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| Il volto di Nicodemo nella michelangiolesca Pietà Bandini |
Se non avessi timore di portare alle estreme conseguenze il pensiero di Coscia, se non avessi paura di rendere un pessimo servizio alla Filologia rischiando di forzare l'interpretazione del magnifico «La bellezza che resta», se dovessi non contravvenire al monito di Umberto Eco il quale (in uno dei saggi confluiti nella raccolta «Sulla letteratura») affermò che la Letteratura stessa ci insegna a rispettare la volontà dell'autore, senza macchiarci di quella disonestà intellettuale che talvolta diventa effetto collaterale di un'ermeneusi fantasiosa, troppo spinta ed esageratamente libera, oserei un'ulteriore associazione. Ma compio ugualmente l'azzardo («absit iniuria verbis»). Alla pagina 56, concludendo il suo discorso su Freud, Coscia ci ricorda che le azioni compiute dallo psicoanalista negli ultimi giorni della sua vita sembrerebbero ispirate al desiderio di acquisire familiarità con la morte. E l'afferma tanto sulla base dell'analisi che Freud aveva compiuto di «Re Lear» in un saggio del 1913 («Il motivo della scelta degli scrigni»), quanto in nome delle parole usate da Martin Lutero nel «Sermone sulla preparazione della morte» («dovremmo familiarizzarci con la nostra morte durante la nostra vita»). Dice Coscia che bisogna farsi trovare pronti dalla morte «come i servi della parabola evangelica che attendono il ritorno del padrone svegli, "con la cintura ai fianchi e le lucerne accese"». Poi, alla pagina 77, Coscia cita i passi di «Chadži-Murat» riguardanti il ferimento e la morte del soldato russo Andèev, il quale per due volte dice a un commilitone: «Dammi la candela. Devo cominciare a morire». Aggiunge Coscia: «Come se morire richiedesse un lavoro, uno sforzo, una concentrazione. E come se richiedesse un po' di luce, per illuminare ciò che non può essere illuminato». La mia mente corre subito alla scena finale di «Nostalghia» di Andrej Tarkovskij (1983). In essa il poeta Andrej Gončakov deve compiere una sorta di rito salvifico per conto di Domenico (un uomo prima ritenuto folle poiché per sette anni si era chiuso in casa con la sua famiglia attendendo la fine del mondo, poi morto suicida appiccandosi il fuoco): attraversare la piscina termale di Bagno Vignoni con una candela accesa in mano senza farla spegnere. Dopo i primi due tentativi falliti, Gončakov riesce a compiere quella sorta di rito, ma viene colto da un attacco cardiaco. Forse mai il senso della morte fu trattato con tale poesia, ma pure rendendo palpabile (se devo usare le parole di Coscia) il lavoro, lo sforzo, la concentrazione necessari al morire e generati anche dallo sforzo di tenere la luce accesa attendendo il «ritorno del padrone». So del resto che Coscia è un estimatore di Andrej Tarkovskij (più volte ci siamo scambiati pareri su mia adorata lettura: quella di «Martirologio», cioè dei diarî del regista).
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| L'eccellente Oleg Jankovskij nella piscina di Bagno Vignoni (Andrej Gončakov in «Nostalghia») |
Un bellissimo, quasi elegiaco, microtema che percorre «La bellezza che resta» è quello del canto degli usignoli che fa spesso da sfondo acustico alle situazioni di cui la morte sta per diventare protagonista. Coscia lo ritrova nel più volte citato «Chadži-Murat», nell'«Ode a un usignolo» di John Keats, ma anche nell'incipit di «Edipo a Colono» di Sofocle, tragedia che ne «La bellezza che resta» viene interpretata alla luce di quella stessa necessità di acquisire familiarità con la morte, di cui resta traccia in quasi tutte le opere e gli autori citati da Coscia stesso. In questa specie di indefinibile testo che provo a scrivere lasciandomi trasportare - come già accennato - dalle mie personali associazioni, non posso fare a meno di dire che la citazione della tragedia sofoclea mi tocca profondamente in quanto essa è, insieme ad «Antigone» dello stesso autore, forse la tragedia che più amo tra quelle greche che ci sono pervenute. Ad essa lego peraltro un ricordo divenuto incancellabile anche a causa del carattere di straordinarietà assunto da una sua messa in scena alla quale assistetti qualche anno fa.
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| Al centro Giorgio Albertazzi nelle vesti di Edipo «Edipo a Colono» di Sofocle Teatro Geco di Siracusa, maggio-giugno 2009 |
| «Edipo a Colono» di Sofocle (26 maggio 2009) Insieme a Edipo e Antigone Le sette Erinni Volute in scena dal regista Daniele Salvo |
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| Il maestro Arturo Toscanini |
Fra le tante personalità citate da Fabrizio Coscia (impossibile passarle tutte in rassegna), mi limito a ricordare ancora Kostantinos Petrou Kavafis e Tadeusz Kantor: il primo in quanto autore di «Miris-Alessandria, 340 d.C.», da cui viene fuori l'immagine di una morte che minaccia di rendere estraneo chi ci è caro, il secondo poiché fu interprete di un'idea di teatro che mi sembra ben riassunta in queste sue parole (traggo la citazione non da «La bellezza che resta», ma da «Il teatro zero» dello stesso Kantor): «La mia realizzazione di un teatro autonomo non è né l’esplicazione di un testo drammatico né la sua traduzione in linguaggio teatrale, ma molto più di un’interpretazione o un’attualizzazione. Non è la ricerca di un preteso equivalente scenico che assumerebbe il ruolo di un’azione parallela qualificata erroneamente come autonoma. Un obiettivo di questo genere è ai miei occhi una stilizzazione ingenua. Ciò che io creo è una realtà, un concorso di circostanze che non hanno con il dramma dei rapporti né logici né analogici né paralleli o inversi. Creo un campo di tensioni capaci di spezzare la superficie aneddotica del dramma». Il Kavafis e il Kantor di Coscia si fondono ai miei occhi perché entrambi ci restituiscono frammenti di arte dell'interpretazione (anche Kavafis: che cos'altro viene cantato in «Miris» se non la continua recita realizzata nella vita quotidiana da un cristiano che si è sempre comportato come un gaudente e rissoso pagano?). E del resto sono personalità che sembrano toccare profondamente l'animo dell'autore il quale in gioventù ha fatto parte di una compagnia teatrale. «Per questo a volte ho l'impressione di non aver mai smesso di recitare in quelle commedie, di continuare a prepararmi ogni sera, ancora come trent'anni fa, la mia camicia bianca con la pistagna, i pantaloni alla zuava, gli stivali, il berretto, la cintura di cuoio, stipati nel baule puzzolente di muffa; di sedermi sulla panchina del parco, con gli alberi dipinti alle pareti, di sentire il samovar bollire sul fuoco, di immaginare le stagioni passare tra un atto e l'altro, portandosi dietro anche i rimpianti» dice Coscia alla pagina 125. Riprende così le analoghe righe vergate alla pagina 25, ricreando quella formularità che contribuisce a dare un respiro epico a «La bellezza che resta» e lo assimila alla stessa atmosfera che permea di sé le vicende di Achille, di Odisseo e di Chadži-Murat.
Ivo Flavio Abela
P.S. Venerdì 9 giugno avrò l'onore di presentare «La bellezza che resta».











