Protagonista e narratore di «Strade di notte» (Fazi Editore, 2017) è un tassista di origini russe (alter ego dell'autore). Ha svolto un'infinità di lavori (apprendista acrobata circense in Grecia, scaricatore di chiatte prima e poi lavatore di locomotive nel deposito delle ferrovie a Saint-Denis, insegnante di russo e francese) prima di prendere la patente ed iniziare a lavorare con il suo taxi durante le notti parigine. La capitale francese non è la romantica e gettonata meta turistico-sentimentale da oleografica cartolina, quale suole risultare nell'immaginario comune: nel buio della notte la città sembra essere fatta soprattutto di bassifondi desolati e talora sporchi, di strade in cui donne giovani o stagionate si vendono per sopravvivere (talvolta col beneplacito di un rassegnato marito disperato), di modesti bar pieni di avventori che stemperano nell'alcool il mal di vivere e talvolta vi annegano insieme ad una bizzarra tendenza alla speculazione filosofica. Strade e locali appaiono poi pieni di vagabondi, matti, esseri umani dal passato (a volte anche dal presente) regolar-borghese se non mondanamente prestigioso, strani camerieri (come quello che si reputa felice perché vive nell'unico modo in cui deve vivere), barboni che conducono una «non-vita animalesca e tragica» e suscitano rispetto e pietà in quanto sono ben lontani dalla «sifilide morale tipica dei magnaccia». E gli stessi colleghi del protagonista sono tassisti quantomeno originali: comunisti sui generis («Lui può frugare nell’immondizia perché fa il robivecchi, io no perché faccio il tassista. Ti sembra giusto? Se ci fossi io, al governo, autorizzerei tutti senza eccezione» afferma uno di loro) oppure convinti esperti di costituzionalismo e storia (una notte due tassisti litigano sulla riforma giudiziaria russa, ma «dalla riforma giudiziaria si passò ai decabristi, dopo i decabristi toccò all'ordine teutonico, dopo l'ordine teutonico agli slavofili e alla storiosofia russa; poi fu la volta di Attila»).
E lui, il tassista di notte, conduce una vita quasi virtuosa: non beve, non gioca d'azzardo, non pensa alle donne. Ma poi confessa che non regge l'alcool (infatti beve tanto latte), al tavolo verde s'annoia, invidia i dongiovanni perché manca della loro sfrontatezza. È curioso: gli piacerebbe rincorrere e pedinare gli esseri umani che ogni notte incontra, studiarne più a fondo la vita. Ma non può farlo: il tempo gli serve per lavorare e guadagnarsi da vivere («Come in altri periodi della mia vita, anche a Parigi riuscivo di rado a osservare dal di fuori, da estraneo, quanto ero costretto a vivere, e sempre e solo per qualche attimo»). Supplisce con l'immaginazione: quando rientra a casa dal lavoro, prova non solo a ipotizzare le azioni di chi - tra i clienti serviti durante il turno o tra i casi peregrini di multiforme umanità che ha scorto lungo le strade e nei bar - l'ha impressionato. Talvolta la sua mente inventa ex novo fatti densi di tensione (omicidi per esempio). A tratti riemerge dalle profondità della sua memoria e del suo animo il ricordo della madre Russia. La memoria del paese d'origine si palesa con un incedere proustiano e in forme tolstojane: «La pioggia batteva sulle assi e, con l’orecchio a quel ticchettio monotono e al suono dimenticato delle gocce sul legno, ricordai – chiarissime – le serate di pioggia in Russia, d’autunno, i campi bagnati che sprofondavano negli schizzi delle tenebre, i treni, il lume lontano dell’agganciavagoni che fluttuava nel nero dell’aria, il fischio lungo della locomotiva». Ecco il treno-feticcio che fa tanto "Anna Karenina" e che, non a caso, tornerà in un altro passo significativamente legato all'idea di un suicidio pensato più per autocompiacimento che per un effettivo disorientamento esistenziale, idea infatti subito scacciata e liquidata come nulla più di un vezzo. Spazzata via anche in nome del disincanto: a contatto con la grande varietà di tipi umani in cui s'è imbattuto, il tassista ha maturato una totale diffidenza nei confronti dell'uomo perché ha assistito - turno dopo turno, cliente dopo cliente - alla «poesia cupa del decadimento umano».
Lo svilimento, l'adulterazione, il fallimento della condizione dell'uomo (anche in quanto essere sociale e politico) sono il leit motiv che percorre il sottobosco delle duecentotredici pagine di cui il libro di compone. E si estrinsecano soprattutto in alcuni personaggi definiti quasi a tutto tondo. Monsieur Martini, per esempio, così chiamato «perché ordinava sempre un Martini», che si presenta al bancone di un caffè sempre tra le 10:00 e le 11:00 di sera, per le 2:00 del mattino è già ubriaco fradicio, finisce i soldi e viene regolarmente cacciato. Eppure ha insegnato latino, greco, tedesco, inglese e spagnolo; ha moglie e sei figli. Ma beve perché la moglie lo disprezza e ha insegnato ai figli a fare lo stesso. Suzanne, una giovane e piccola bionda che s'è fatta mettere un dente d'oro e se lo guarda in continuazione riflettendosi sul suo specchio da borsetta, prostituta che desidera una vita borghese e arriva a sposare un russo con tanto di festeggiamento canonico (quasi rimuovendo quel passato di oggetto del desiderio lungo il quale si è concessa a tutti i tipi di uomo: anche, contemporaneamente, a due ciechi che, pur se non vedevano, in compenso palpavano eccome). Platone, chiamato così perché ama la filosofia. Sposato e padre, ha conseguito una laurea ed è vissuto in Inghilterra. Poi l'idillio familiare s'è esaurito ed egli è rimasto solo e privo anche dei soldi necessari per l'affitto (al padrone di casa che pretende il mensile è solito dire che preferirebbe fare saltare in aria l'intero edificio, risolvendo così non solo il proprio problema, ma anche quello dell'esattore, il quale non avrebbe più la rogna di occuparsi di contabilità condominiale e di inquilini).
Gazdanov è capace di scrivere anche lirici passi densi di bellezza infelice, soprattutto quando parla di personaggi per i quali prova un trasporto teneramente rispettoso. È il caso di Madame Raldi, donna dal notevole passato. Un tempo famosa negli esclusivi ambienti della Parigi mondana (grazie alle sue prestigiose frequentazioni maschili), s'è poi abbassata al rango e al mestiere della prostituta matura, rassegnandosi alla nuova condizione per sopravvivere, ma guardando sempre con nostalgica amarezza ai fasti d'un tempo. Perciò ha preso sotto la propria protezione una giovane donna e cerca di educarla a quelle maniere che una donna del bel mondo deve avere (prova pure ad introdurla alla letteratura, convinta che sapere qualcosa di Flaubert o di qualche altro scrittore serva comunque in società), nella speranza che la giovane un giorno possa essere la propria erede nella Parigi buona. Le due pagine dedicate alla morte della Raldi sembrano rievocare - di certo solo per ingenua associazione istintiva - quelle dedicate alla morte di un'altra prostituta matura, Madame Hortense, la donna che il macedone Zorba finirà per sposare in «Zorba il Greco» di Nikos Kazantzakis (in entrambi i casi emerge la tenera fragilità della donna che ha goduto e vissuto ed è poi rimasta sola e priva di amore). Narra Gazdanov in particolare (e vale la pena leggere le seguenti parole, sebbene la citazione non sia brevissima): «Il sole brillava flebile oltre la finestra stretta e alta che pareva la vetrata di una chiesa. Restai a guardarla a lungo, la Raldi; e malgrado la profonda tristezza che provavo, notai che il suo viso bianco e pieno non era quasi cambiato, e che a renderlo morto e tremendo erano solo gli occhi dolci ormai spenti, rimpiazzati dal bianco immobile, duro, ottuso delle grandi pupille. Le coprii il viso col lenzuolo e uscimmo cercando di non fare rumore, come si conviene in presenza di un defunto».
«Strade di notte» è un libro affascinantissimo. E lo è anche linguisticamente (parte del merito va senza dubbio alla traduttrice Claudia Zonghetti Zandonai). Non fu mai pubblicato in Russia se non quando il regime sovietico cadde, come tutte le opere dello stesso autore. E ciò si verificò, purtroppo, alcuni anni dopo la morte di Gazdanov, avvenuta nel 1971 (fu sepolto nel Cimitero russo-ortodosso di Nostra Signora dell'Assunzione a Sainte Geneviève des Bois, accanto ad altri grandi come Andrej Tarkovskij e Feliks Jusupov, per citarne solo un paio). Sorprende un'osservazione espressa da uno dei due tassisti già citati: «Lo sa che cosa mi ricorda, l'Europa, con le sue mossette da intellettuale? Maupassant agonizzante che si nutriva dei suoi stessi escrementi». Sono parole scritte da Gazdanov agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso. Eppure sono straordinariamente attuali. Poco oltre lo stesso personaggio afferma che dopo l'età classica, il Cristianesimo, il Rinascimento, la filosofia tedesca, l'Europa ci propone «di rinunciare volontariamente a tutto quanto, di rincretinirci del tutto, di dimenticare ciò che sappiamo e di scendere al livello di un apprendista semianalfabeta». Chissà che cosa avrebbe pensato Gazdanov se - sopravvissuto per assurdo fino ad oggi - avesse notato il livello di disumanizzazione al quale l'Europa stessa è ormai giunta.
Ivo Flavio Abela
Lo svilimento, l'adulterazione, il fallimento della condizione dell'uomo (anche in quanto essere sociale e politico) sono il leit motiv che percorre il sottobosco delle duecentotredici pagine di cui il libro di compone. E si estrinsecano soprattutto in alcuni personaggi definiti quasi a tutto tondo. Monsieur Martini, per esempio, così chiamato «perché ordinava sempre un Martini», che si presenta al bancone di un caffè sempre tra le 10:00 e le 11:00 di sera, per le 2:00 del mattino è già ubriaco fradicio, finisce i soldi e viene regolarmente cacciato. Eppure ha insegnato latino, greco, tedesco, inglese e spagnolo; ha moglie e sei figli. Ma beve perché la moglie lo disprezza e ha insegnato ai figli a fare lo stesso. Suzanne, una giovane e piccola bionda che s'è fatta mettere un dente d'oro e se lo guarda in continuazione riflettendosi sul suo specchio da borsetta, prostituta che desidera una vita borghese e arriva a sposare un russo con tanto di festeggiamento canonico (quasi rimuovendo quel passato di oggetto del desiderio lungo il quale si è concessa a tutti i tipi di uomo: anche, contemporaneamente, a due ciechi che, pur se non vedevano, in compenso palpavano eccome). Platone, chiamato così perché ama la filosofia. Sposato e padre, ha conseguito una laurea ed è vissuto in Inghilterra. Poi l'idillio familiare s'è esaurito ed egli è rimasto solo e privo anche dei soldi necessari per l'affitto (al padrone di casa che pretende il mensile è solito dire che preferirebbe fare saltare in aria l'intero edificio, risolvendo così non solo il proprio problema, ma anche quello dell'esattore, il quale non avrebbe più la rogna di occuparsi di contabilità condominiale e di inquilini).
Gazdanov è capace di scrivere anche lirici passi densi di bellezza infelice, soprattutto quando parla di personaggi per i quali prova un trasporto teneramente rispettoso. È il caso di Madame Raldi, donna dal notevole passato. Un tempo famosa negli esclusivi ambienti della Parigi mondana (grazie alle sue prestigiose frequentazioni maschili), s'è poi abbassata al rango e al mestiere della prostituta matura, rassegnandosi alla nuova condizione per sopravvivere, ma guardando sempre con nostalgica amarezza ai fasti d'un tempo. Perciò ha preso sotto la propria protezione una giovane donna e cerca di educarla a quelle maniere che una donna del bel mondo deve avere (prova pure ad introdurla alla letteratura, convinta che sapere qualcosa di Flaubert o di qualche altro scrittore serva comunque in società), nella speranza che la giovane un giorno possa essere la propria erede nella Parigi buona. Le due pagine dedicate alla morte della Raldi sembrano rievocare - di certo solo per ingenua associazione istintiva - quelle dedicate alla morte di un'altra prostituta matura, Madame Hortense, la donna che il macedone Zorba finirà per sposare in «Zorba il Greco» di Nikos Kazantzakis (in entrambi i casi emerge la tenera fragilità della donna che ha goduto e vissuto ed è poi rimasta sola e priva di amore). Narra Gazdanov in particolare (e vale la pena leggere le seguenti parole, sebbene la citazione non sia brevissima): «Il sole brillava flebile oltre la finestra stretta e alta che pareva la vetrata di una chiesa. Restai a guardarla a lungo, la Raldi; e malgrado la profonda tristezza che provavo, notai che il suo viso bianco e pieno non era quasi cambiato, e che a renderlo morto e tremendo erano solo gli occhi dolci ormai spenti, rimpiazzati dal bianco immobile, duro, ottuso delle grandi pupille. Le coprii il viso col lenzuolo e uscimmo cercando di non fare rumore, come si conviene in presenza di un defunto».
«Strade di notte» è un libro affascinantissimo. E lo è anche linguisticamente (parte del merito va senza dubbio alla traduttrice Claudia Zonghetti Zandonai). Non fu mai pubblicato in Russia se non quando il regime sovietico cadde, come tutte le opere dello stesso autore. E ciò si verificò, purtroppo, alcuni anni dopo la morte di Gazdanov, avvenuta nel 1971 (fu sepolto nel Cimitero russo-ortodosso di Nostra Signora dell'Assunzione a Sainte Geneviève des Bois, accanto ad altri grandi come Andrej Tarkovskij e Feliks Jusupov, per citarne solo un paio). Sorprende un'osservazione espressa da uno dei due tassisti già citati: «Lo sa che cosa mi ricorda, l'Europa, con le sue mossette da intellettuale? Maupassant agonizzante che si nutriva dei suoi stessi escrementi». Sono parole scritte da Gazdanov agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso. Eppure sono straordinariamente attuali. Poco oltre lo stesso personaggio afferma che dopo l'età classica, il Cristianesimo, il Rinascimento, la filosofia tedesca, l'Europa ci propone «di rinunciare volontariamente a tutto quanto, di rincretinirci del tutto, di dimenticare ciò che sappiamo e di scendere al livello di un apprendista semianalfabeta». Chissà che cosa avrebbe pensato Gazdanov se - sopravvissuto per assurdo fino ad oggi - avesse notato il livello di disumanizzazione al quale l'Europa stessa è ormai giunta.
Ivo Flavio Abela
«Parigi di notte» Foto di Daniele Cametti Aspri |
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