Un metaforico miniappartamento, chiuso, privo di ossigeno, opprimente, forse buio, è forma della vita di chi - suo malgrado - vi abita come un recluso. Vi si dispongono immagini, sensazioni, ipostasi di un'esistenza che si rivela negazione di se stessa, illusione. È ciò che appare (perché tale è la sua struttura) "Ambienti saturi" di Fabio Donalisio (Amos Edizioni, 2017).
Nel vestibolo la libertà. Ci sarebbe da gioire se essa non fosse mera paura del vuoto e del nulla che spinge l'uomo ad una ricerca perenne (di se stesso?), pungolato incolpevolmente da una vita che vita non è, ma è solo un coacervo di rumore con cui talvolta bisogna farla finita di netto, da una cecità che è eccesso di vedere, dal bruciore e dell'afonia/agonia provocati dalla "durezza della sabbia nella gola".
Nel cucinino neanche la guerra (un tempo connaturata alla terra - e quindi all'umanità - con cui rima) appare più motore della vita. E la libertà, che sappiamo ormai essere solo paura, viene ulteriormente destituita del suo senso, finendo per coincidere col progressivo imbarbarimento dell'essere umano (o forse col tentativo reiterato di tornare allo stato di natura). Una sedia (immagine da teatro d'avanguardia) è l'unico segno di una presenza che forse ha in altri tempo sorretto, ma pure quel segno è destinato a perire in un inferno di fiamme: unico approdo, già terreno prima di essere metafisico, per chi nutre l'illusione di vivere.
Nella zona notte anche l'amore perde la sua forza mediante la facile destrutturazione linguistica della più umana e trita espressione con cui talvolta si pretende di significarlo. Amore e menzogna vanno di pari passo.
Non resta che il ripostiglio. Ma il nulla vi si è accumulato come accumulate vi appaiono le parole che vi leggiamo e che ognuno di noi dovrebbe sapere interpretare a proprio modo (del resto tale appare l'auspicio dichiarato dall'Autore nella Nota conclusiva).
Poesia difficile e non scevra di un voluto barocchismo, tesa allo stremo di una tessitura linguistico-retorica in cui domina l'ossimoro, su effetti fonici a volte dantescamente petrosi. Anzi tutto il testo, nella sua globalità, è un ossimoro continuo e alimentato da opposizioni, la più cospicua delle quali è quella insistente sulla coppia "esistenza/non esistenza" con netta "vittoria di senso", ovviamente, della non esistenza. E i prestiti (meglio i debiti) sono tanti (basti leggere i seguenti due versi: "e come potevamo noi parlare / col nulla ciarliero del rumore fisso"). "Lirica tanatopoetica" per usare una formula riferita dall'Autore. Ma anche nichilistica. Di quella che piace o non piace, senza mezzi termini o sfumature. Ad onta della complessità, potrebbe risultare degna di qualche interesse.
Ivo Flavio Abela
Aggiunta del 27 maggio 2018. Ho letto questa raccolta per la seconda volta in questi giorni. Mi chiedo come sia possibile avere ricevuto, a distanza di più sei mesi dalla prima lettura, un'impressione completamente diversa. Forse sei mesi fa, dovendo scrivere questa recensione (lo feci peraltro in una giornata molto intensa), m'ero fatto prendere dal sacro fuoco dell'ermeneusi che talvolta lascia spazio più a una valutazione propriamente meccanica. In questi giorni, invece, mi sono lasciato trascinare - in corso di lettura - soltanto dal gusto. Ebbene: non solo trovo adesso brutte le poesie di Donalisio, ma trovo pure che esse non significhino alcunché. Direi quasi che è roba inutile e siamo lontani dalla Poesia vera: quella con la P maiuscola.
Nel vestibolo la libertà. Ci sarebbe da gioire se essa non fosse mera paura del vuoto e del nulla che spinge l'uomo ad una ricerca perenne (di se stesso?), pungolato incolpevolmente da una vita che vita non è, ma è solo un coacervo di rumore con cui talvolta bisogna farla finita di netto, da una cecità che è eccesso di vedere, dal bruciore e dell'afonia/agonia provocati dalla "durezza della sabbia nella gola".
Nel cucinino neanche la guerra (un tempo connaturata alla terra - e quindi all'umanità - con cui rima) appare più motore della vita. E la libertà, che sappiamo ormai essere solo paura, viene ulteriormente destituita del suo senso, finendo per coincidere col progressivo imbarbarimento dell'essere umano (o forse col tentativo reiterato di tornare allo stato di natura). Una sedia (immagine da teatro d'avanguardia) è l'unico segno di una presenza che forse ha in altri tempo sorretto, ma pure quel segno è destinato a perire in un inferno di fiamme: unico approdo, già terreno prima di essere metafisico, per chi nutre l'illusione di vivere.
Nella zona notte anche l'amore perde la sua forza mediante la facile destrutturazione linguistica della più umana e trita espressione con cui talvolta si pretende di significarlo. Amore e menzogna vanno di pari passo.
Non resta che il ripostiglio. Ma il nulla vi si è accumulato come accumulate vi appaiono le parole che vi leggiamo e che ognuno di noi dovrebbe sapere interpretare a proprio modo (del resto tale appare l'auspicio dichiarato dall'Autore nella Nota conclusiva).
Poesia difficile e non scevra di un voluto barocchismo, tesa allo stremo di una tessitura linguistico-retorica in cui domina l'ossimoro, su effetti fonici a volte dantescamente petrosi. Anzi tutto il testo, nella sua globalità, è un ossimoro continuo e alimentato da opposizioni, la più cospicua delle quali è quella insistente sulla coppia "esistenza/non esistenza" con netta "vittoria di senso", ovviamente, della non esistenza. E i prestiti (meglio i debiti) sono tanti (basti leggere i seguenti due versi: "e come potevamo noi parlare / col nulla ciarliero del rumore fisso"). "Lirica tanatopoetica" per usare una formula riferita dall'Autore. Ma anche nichilistica. Di quella che piace o non piace, senza mezzi termini o sfumature. Ad onta della complessità, potrebbe risultare degna di qualche interesse.
Ivo Flavio Abela
Aggiunta del 27 maggio 2018. Ho letto questa raccolta per la seconda volta in questi giorni. Mi chiedo come sia possibile avere ricevuto, a distanza di più sei mesi dalla prima lettura, un'impressione completamente diversa. Forse sei mesi fa, dovendo scrivere questa recensione (lo feci peraltro in una giornata molto intensa), m'ero fatto prendere dal sacro fuoco dell'ermeneusi che talvolta lascia spazio più a una valutazione propriamente meccanica. In questi giorni, invece, mi sono lasciato trascinare - in corso di lettura - soltanto dal gusto. Ebbene: non solo trovo adesso brutte le poesie di Donalisio, ma trovo pure che esse non significhino alcunché. Direi quasi che è roba inutile e siamo lontani dalla Poesia vera: quella con la P maiuscola.
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