Il momento più alto nella vita di un uomo è quello in cui egli piange per la sofferenza del suo carnefice, sebbene sia stato colpito da quest'ultimo. Superiore è colui che cristianamente si fa carico dell'«oscura voragine» di chi gli ha fatto del male. Perché il perdono è la più alta forma di civiltà. Il nostro avversario, infatti, lotta, è ferito e si dibatte come noi. Lo si dovrebbe abbracciare. A maggior ragione va abbracciato chi attesta senza inutili pudori la sconfitta inflittagli dalla vita: come quell'uomo incontrato per caso, che ha perduto un occhio e reca una tumescenza all'addome contro la quale a nulla è valsa la chemioterapia, che piange perché niente gli è rimasto. Abbracciarlo: altro non si può fare. Che cosa, infatti, si potrebbe mai dire a chi è costretto a vivere così? Come lo si potrebbe aiutare in concreto? Non esistono risposte. E non ne dà la Letteratura poiché essa non è una scienza. Semmai consapevolezza dei limiti che soffocano l'uomo. Per questo Andrea Di Consoli dice di averla scelta. «Diario dello smarrimento» (2019) è un florilegio di riflessioni partorite da un'anima che ha smesso di fare domande: ha rinunciato insieme a Ratzinger, il cui ultimo volo in elicottero dal Vaticano egli ha idealmente salutato insieme al figlio, saliti entrambi sulla terrazza di casa. L'aveva già detto Montale: «Non chiederci la parola che squadri / da ogni lato l'animo nostro informe [...] Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Si delinea lentamente il ritratto di un "pius" Di Consoli che teme chi non è almeno un po' piegato dal «peso di Dio»: l'uomo che ha posto se stesso al centro del mondo e, in un eccesso di tracotanza, vuole adesso diventare onnipotente, calpestando norme morali non scritte sulla carta, ma tramandate di generazione in generazione come patrimonio immateriale. L'uomo dovrebbe sempre provare un po' di senso di colpa. Non è un caso che per Andrea essere padre sia innanzitutto nutrire i propri figli: cibarli, assicurare loro la pancia piena. In un'epoca in cui la fame è diventata un tabù (almeno dal secondo dopoguerra), in cui domina il superfluo, l'autore - figlio di genitori lucani - dà sfogo così a un impulso ancestrale che ne significa il rapporto con la civiltà contadina, dipendente dai bisogni primari. Il padre nutre i figli (sebbene sia destinato a essere sempre una ferita aperta: sia quando abbia amato troppo, sia quando abbia amato male) e cucina anche quando è solo. Perché certe azioni vanno compiute di per sé e senza scopo alcuno. E così amare e non essere amati, sorridere quando quando si è tristi, tacere quando si ha nostalgia o si teme di morire frustrati perché non si è riusciti a compiere tutto, risultano azioni che denunciano la dignità di chi le compie.
Lo smarrimento di Di Consoli è anche quello di quanti cedono alla disperazione e all'angoscia e si danno a un gesto estremo. Smarrito è poi chi è depresso («Chi non sa di cosa parlo [...] si goda il non saperlo»). Eppure chi cede a tale disagio, al punto da rinunciare alla vita, non è esattamente un infelice. Semmai ama visceralmente la vita e sarebbe felice di viverla pienamente, ma rinuncia a farlo poiché in essa non ravvisa la grandezza e l'eternità di cui vorrebbe essere parte. Smarrito è pure colui che ha assistito alla fine del proprio amore non spiegandosene il motivo: smette di credere in se stesso, si autodenigra e forse non vorrà più concedere la propria fiducia. Smarrito è ancora colui che rinuncia ai propri libri in seguito a una separazione: li vende non salvando nemmeno le edizioni prime e gli esemplari con dedica, ma non versa nemmeno una lacrima. Leggendo un passo simile, ci si chiede se Andrea abbia pensato ad Aleksandr Blok e voluto rivivere in se stesso il distacco del superbo ma sensibile poeta russo dalla propria casa in campagna (sorta di piccolo Eden), contenente una biblioteca ricca ed amata. Quando, tempo dopo, al poeta fu annunciato che la casa era andata distrutta insieme a tutti i suoi cari libri, egli non manifestò alcun sentimento: rimase imperturbabile. Eppure avrebbe poi scritto di avere sognato quel suo paradiso ormai lontano e perduto. E avrebbe suggellato il racconto di quei ricordi onirici con un semplice «Ah!» di dolore, equivalente al senso delle parole che Andrea usa nella descrizione di quella rinuncia - tutta sentimentale - ai propri libri.
«Diario dello smarrimento» va letto e meditato. Sebbene in questa sede sia stato discusso il Di Consoli esistenzialista e foriero di una visione problematica dell'esistenza, c'è anche l'Andrea che riflette sul mondo con piacere "materiale", sulla politica, sulla geografia di luoghi per lui significativi, sulla bellezza della vita (una bellezza, tuttavia, struggente). E lo fa quasi con gratitudine nei confronti del creato. La sua lingua è nitida, priva di orpelli, bella nel suo farsi epigrammatica.
Ivo Flavio Abela
Si delinea lentamente il ritratto di un "pius" Di Consoli che teme chi non è almeno un po' piegato dal «peso di Dio»: l'uomo che ha posto se stesso al centro del mondo e, in un eccesso di tracotanza, vuole adesso diventare onnipotente, calpestando norme morali non scritte sulla carta, ma tramandate di generazione in generazione come patrimonio immateriale. L'uomo dovrebbe sempre provare un po' di senso di colpa. Non è un caso che per Andrea essere padre sia innanzitutto nutrire i propri figli: cibarli, assicurare loro la pancia piena. In un'epoca in cui la fame è diventata un tabù (almeno dal secondo dopoguerra), in cui domina il superfluo, l'autore - figlio di genitori lucani - dà sfogo così a un impulso ancestrale che ne significa il rapporto con la civiltà contadina, dipendente dai bisogni primari. Il padre nutre i figli (sebbene sia destinato a essere sempre una ferita aperta: sia quando abbia amato troppo, sia quando abbia amato male) e cucina anche quando è solo. Perché certe azioni vanno compiute di per sé e senza scopo alcuno. E così amare e non essere amati, sorridere quando quando si è tristi, tacere quando si ha nostalgia o si teme di morire frustrati perché non si è riusciti a compiere tutto, risultano azioni che denunciano la dignità di chi le compie.
Lo smarrimento di Di Consoli è anche quello di quanti cedono alla disperazione e all'angoscia e si danno a un gesto estremo. Smarrito è poi chi è depresso («Chi non sa di cosa parlo [...] si goda il non saperlo»). Eppure chi cede a tale disagio, al punto da rinunciare alla vita, non è esattamente un infelice. Semmai ama visceralmente la vita e sarebbe felice di viverla pienamente, ma rinuncia a farlo poiché in essa non ravvisa la grandezza e l'eternità di cui vorrebbe essere parte. Smarrito è pure colui che ha assistito alla fine del proprio amore non spiegandosene il motivo: smette di credere in se stesso, si autodenigra e forse non vorrà più concedere la propria fiducia. Smarrito è ancora colui che rinuncia ai propri libri in seguito a una separazione: li vende non salvando nemmeno le edizioni prime e gli esemplari con dedica, ma non versa nemmeno una lacrima. Leggendo un passo simile, ci si chiede se Andrea abbia pensato ad Aleksandr Blok e voluto rivivere in se stesso il distacco del superbo ma sensibile poeta russo dalla propria casa in campagna (sorta di piccolo Eden), contenente una biblioteca ricca ed amata. Quando, tempo dopo, al poeta fu annunciato che la casa era andata distrutta insieme a tutti i suoi cari libri, egli non manifestò alcun sentimento: rimase imperturbabile. Eppure avrebbe poi scritto di avere sognato quel suo paradiso ormai lontano e perduto. E avrebbe suggellato il racconto di quei ricordi onirici con un semplice «Ah!» di dolore, equivalente al senso delle parole che Andrea usa nella descrizione di quella rinuncia - tutta sentimentale - ai propri libri.
«Diario dello smarrimento» va letto e meditato. Sebbene in questa sede sia stato discusso il Di Consoli esistenzialista e foriero di una visione problematica dell'esistenza, c'è anche l'Andrea che riflette sul mondo con piacere "materiale", sulla politica, sulla geografia di luoghi per lui significativi, sulla bellezza della vita (una bellezza, tuttavia, struggente). E lo fa quasi con gratitudine nei confronti del creato. La sua lingua è nitida, priva di orpelli, bella nel suo farsi epigrammatica.
Ivo Flavio Abela