Consideriamo
poi il finale del romanzo: Myškin diventerà pazzo, recuperando lo stato connaturato
– così sembra indicarci Dostoevskij – alla sua indole di individuo generoso,
mite, genuino («idiota» – appunto – secondo il pensiero comune) e dal quale era
invece guarito. La bellezza non l’ha salvato: non solo essa non ha trionfato,
ma proprio colui il cui animo è bello altro non si rivela che un folle. Sembra
che Dostoevskij si sia divertito a delineare un intreccio e un personaggio dai
quali sarebbe dovuto scaturire il segreto della felicità sulla terra
(paragonabile alla formula anch’essa segreta, relativa alla pace eterna e alla
sconfitta definitiva del male, incisa su una fantomatica verga da Nikolaj,
fratello di Lev Tolstoj, e poi sepolta nel luogo in cui sarebbe stata interrata
la bara dello scrittore), ma alla fine ci riporta con forza alla realtà e
sembra volerci dire: «Davvero avreste pensato che la bontà e la mitezza possano
trionfare? Il buono, il mite, il virtuoso… sono solo pazzi».
Un
altro personaggio – appartenente all’universo cinematografico russo – ci
insegna che la bellezza non può salvarci: il protagonista di Stalker, film diretto nel 1979 da Andrej
Tarkovskij. Attraverso la zona, egli
vuole condurre i suoi compagni di avventura nella stanza. I compagni accettano inizialmente di affidarsi a lui e di
seguirlo, ma si fanno assalire dai dubbi proprio quando la meta è vicina. Il
dolore del fallimento lacera Stalker: egli – lo dice all’apice dello sconforto
quando il film si avvia alla conclusione – avrebbe solo voluto che tutti
fossero felici, condividendo con l’umanità i tesori spirituali contenuti nella stanza stessa. Stalker è del resto un
doppio dello stesso Tarkovskij: così ha affermato più volte Andrej Tarkovskij
Jr., il figlio del regista (lo ha fatto anche in un’intervista concessami nel
marzo 2020). In altri termini Stalker e lo stesso Tarkovskij sono personaggi alla
Dostoevskij: hanno nutrito una fede cieca nei confronti di ideali spirituali e
della possibilità di conseguire la felicità mediante la bellezza, ma alla fine si
schiantano contro il muro della realtà, rimanendo turbati, disillusi, sconfitti,
segnati a vita.
Mi
sembra che quanto fin qui affermato sia sufficiente per comprendere l’equivoco
su cui è stata fondata – da critici e da lettori poco attenti – la funzione
salvifica della bellezza. Abbiamo dunque sbagliato noi a interpretarla come
tale o forse Dostoevskij, i suoi personaggi, quelli tarkovskijani, lo stesso Tarkovskij
ci hanno portati fuori strada? Hanno davvero voluto dimostrare il contrario di
ciò che, sulla scorta delle loro parole, abbiamo sempre ritenuto? Hanno voluto
farci credere che non sia possibile alcuna salvezza in questo mondo? E se invece
essi si fossero riferiti a un’altra bellezza?
Pavel
Nikolaevič Evdokimov (in «Teologia della bellezza») e Orlando Figes (nel
bellissimo «La danza di Nataša») riferiscono un celeberrimo aneddoto. Vladimir,
principe di Kiev, inviò ambasciatori presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e
i Greci: desiderava comprendere l’essenza delle diverse religioni per
sceglierne una. Gli emissari tornati da Costantinopoli gli riferirono che vi
erano rimasti rapiti dalla bellezza dei riti, delle icone, dei decori, al punto
che risultava loro difficile comprendere se si trovassero nel cielo o sulla
terra. Di una cosa si dissero certi: Dio era autenticamente presente tra quanti
prendevano parte a quei riti. Dio era la bellezza: è questa l’idea che permea
l’anima ortodossa (mi riferisco in particolare a quella russa) e che attraversa
pure, talvolta sotterraneamente, buona parte della letteratura presovietica.
Il
russo non può non dirsi ortodosso: sentirsi ortodosso ed essere russo si
sovrappongono al punto da arrivare a consustanziarsi. Non possiamo ignorare che
non solo la Chiesa Ortodossa di Russia esercitò sempre una grande influenza
sullo zarato, ma pure che in certi frangenti si dimostrò ancora più forte dello
zarato stesso nel provocare le reazioni dell’opinione pubblica. Si pensi a ciò
che suscitò l’emanazione della scomunica di Tolstoj, decisa peraltro senza
avvisare lo zar Nikolaj II, che apprese quanto la Chiesa Ortodossa aveva
stabilito solo da una rivista religiosa, una copia omaggio della quale gli veniva
regolarmente recapitata. Scoppiata la Rivoluzione e deposto lo zar, il regime
sovietico cancellò ogni traccia di cristianesimo. Puntando alla
collettivizzazione della società, e dunque volendo estirpare dal popolo russo
il senso d’identità che l’aveva fino a quel momento sostenuto, eliminò
qualsiasi traccia di cristianesimo proprio perché l’anima russa era
congenitamente ortodossa: distruggendo chiese e icone, estirpò la bellezza dal
cuore del popolo. Alcuni anni prima della Rivoluzione il grande Anton Čechov aveva
individuato nella Chiesa Ortodossa – ce lo spiega bene Figes – un’alleata
dell’artista e aveva reputato la missione di quest’ultimo principalmente
spirituale. All’amico Gruzinkij avrebbe detto: «La chiesa del villaggio è l’unico
luogo in cui il contadino può fare esperienza della bellezza». Tale bellezza si
materializza nell’icona, poiché in essa avviene «l’epifania del Trascendente»,
oltre che nella natura la quale – lo spiega Evdokimov – si trasforma in «roveto
ardente» poiché irradia il Trascendente stesso che in essa si è trasfuso.
L’icona
è immagine conduttrice dell’ortodosso durante il rito: contemplarla significa
assumere la migliore disposizione d’animo per prendervi parte. Tale funzione
può trasformarsi in presenza. Uno ieromonaco del monastero di Optina Pustyn’,
il complesso monastico più famoso di tutta la Russia (anche perché fu visitato
da Dostoevskij, Gogol’, i fratelli Kireevskij, alcuni membri della famiglia
imperiale, nonché – per ben cinque volte – da Tolstoj) scrisse così nel suo
diario (vale la pena leggere quasi interamente il passo, da me tradotto, perché
in esso le icone fungono da guida liturgica che prepara al rito, inducendo nel
fedele il pentimento e dunque disponendolo nella migliore delle condizioni al
rito stesso): «Mentre mi trovavo in chiesa [...] mi sentivo circondato non
dalle icone dei santi, ma da quegli stessi santi che esse raffiguravano. Mentre
era in corso il servizio religioso, essi riempivano la chiesa condividendone lo
spazio con me. Era inutile distogliere i miei occhi dai loro volti per
nasconderli in qualche angolo buio: quelle creature divine non mi guardavano
negli occhi, ma erano in grado di far penetrare il loro sguardo direttamente
nel mio cuore. E dove mai avrei potuto nascondere il mio cuore? Allora mi
rassegnavo a perseverare nella mia impotenza e nella mia indegnità, al cospetto
di quei loro occhi che tutto erano in grado di scrutare e penetrare. I miei
pensieri impuri, pieni di timore nei confronti dello sguardo di quegli esseri
divini, si nascondevano da sé e cessavano di tormentarmi; il mio cuore,
infiammato dal fuoco della sua stessa impurità, cominciava a bruciare grazie a
quello del pentimento; era come se il mio corpo si congelasse e io iniziavo a
sentire la mia indegnità, il mio continuo errare, con tutto il mio essere fino
alle dita dei piedi e delle mani».
L’icona
è anche immagine-guida nella vita quotidiana e familiare. In ogni casa russa
non manca un gruppo più o meno nutrito di icone, davanti alle quali arde una
lampada sospesa in genere a una triplice catena: nella tradizione slava la sede
contenente tali icone viene definita «Angolo della Bellezza». Come si vede,
l’icona è guida nel pubblico e nel privato: l’Invisibile, cioè il vero Bello,
l’ha scelta come spazio fisico in cui manifestarsi e da cui irradiarsi. Inoltre
se Dio ha scelto di incarnarsi, e dunque di abitare un corpo fisico, a maggior
ragione bisognerebbe credere che l’icona contenga realmente il Divino, poiché il
Divino stesso ha scelto di rendersi visibile: non l’uomo ha antropomorfizzato
Dio, ma Dio s’è antropomorfizzato da sé (appare ovvio che gli iconoclasti,
negando che Dio potesse essere rappresentato, negavano implicitamente anche il
mistero dell’Incarnazione). Colui che realizza l’icona non è un artista, ma un
tramite: l’artista è Dio.
Alla
luce di quanto appena affermato, risulta ancora più significativa la critica
che l’idealista Evdokimov rivolse alla teologia occidentale, rea di avere
perduto di vista la portata spirituale dell’arte sacra. Il culmine della
parabola discendente sarebbe per lui rappresentato dall’adozione della corporeità,
significata dall’introduzione della prospettiva e del chiaroscuro, nonché dal
trattamento plastico dei soggetti religiosi, mentre l’arte orientale continuava
a mantenersi entro i limiti della prospettiva inversa e di un’impalpabile
bidimensionalità (per inciso, non va tuttavia dimenticato che esiste anche una
tradizione del rilievo nell’arte bizantina, ma l’icona ebbe sempre il primato).
Inoltre l’arte sacra occidentale diventa sempre più allegorica, perdendo il
contatto con l’immagine autentica del Divino.
Torniamo
per un momento a Dostoevskij e a Tarkovskij. E se la bellezza cui essi alludono
fosse proprio Dio e non (ciò vale soprattutto per il caso del citato romanzo
dostoevskijano) quella puramente estetica? Esiste una cospicua letteratura riguardante
la spiritualità dello scrittore russo: non solo egli si recò al monastero di
Optina per cercare pace dopo avere patito la perdita di un figlio di neppure
tre anni che amava intensamente, ma possedette molti testi sull’ortodossia e
sull’esicasmo (alcuni gli venivano procurati da una libreria specializzata di
San Pietroburgo, altri gli furono donati dai monaci optiniani). Tornato da
Optina, si rimise a lavorare alla stesura dei Karamazov con rinnovata energia, ma soprattutto con una più sublime
ispirazione: l’estasi di Alëša al cospetto della bellezza spirante dal
monastero in cui vive Zosima altro non è che quella che Fëdor stesso dovette
provare, immergendosi nella bellezza trasudante da Optina. E quella bellezza
anche per lui era Dio. Andrej Tarkovskij dovette pure pensare che la bellezza
suprema sia Dio. Non solo girò il capolavoro cinematografico Andrej Rublëv, ispirandosi liberamente a quel poco che si conosce del grande iconografo,
ma fu perennemente alla ricerca di Dio: lo cercò in Italia e il risultato fu
l’incontro con la Vladimirskaja di Portonovo, di cui ci parla in Martirologio; lo vide incarnato
nell’icona della Trinità, forse la più nota tra quelle dipinte dal citato Andrej
Rublëv.
Ciò
che fin qui è stato discusso potrebbe essere sufficiente per dimostrare quanto
l’idea di bellezza insita nell’ortodossia abbia permeato di sé l’anima russa:
il russo è credente per indole. Lo sapeva bene il già citato Anton Čechov.
Proprio con l’affermazione tratta da un suo racconto desidero concludere: «Per
quanto possa giudicare da me stesso, dalle persone che ho conosciute vivendo,
da tutto ciò che mi s’è svolto intorno, questa facoltà [la fede] è intrinseca
al popolo russo in grado cospicuo. La vita russa ci si presenta come una serie
ininterrotta di moti di fede e d’entusiasmo mistico, mentre l’incredulità o la
negazione son cose di cui non conosce (se volete saperlo) neanche l’odore». Il
russo crede nella forma più alta di bellezza: Dio. Perciò si salverà.
Ivo
Flavio Abela
27
marzo 2021