Durante l'esilio a Sant'Elena, Napoleone Bonaparte dettò al fido Louis-Joseph Narcisse Marchand alcune note alle opere cesariane. A sua volta Marchand aveva prefato questi
Précis des guerres de César, narrandovi gli ultimi giorni del grande corso, impegnato nel compulsare i libri per occupare il "non-tempo" della quotidianità isolana, ma anche per soddisfare la propria infinita curiosità per la Storia. Le riflessioni di Napoleone sarebbero state date alle stampe nel 1836, grazie a uno dei tre esecutori testamentari scelti da lui, cioè il conte Bertrand, e riguardavano anche l'idea che Bonaparte s'era fatto circa la fine ingloriosa di Giulio Cesare alle Idi di marzo del 44 a.C.
Quasi concordemente le fonti attribuiscono il cesaricidio al desiderio di potere che aveva portato Cesare a volere impadronirsi del
regnum. Ma Napoleone non ne era convinto: come avrebbe potuto uno statista quale Cesare aspirare a essere
rex Romanorum, in un contesto storico-politico che da cinque secoli era caratterizzato da consoli, dittatori e tribuni, cioè in una
res publica per sua natura incompatibile con quel modello di
regnum odiato dai romani fin dai tempi della cacciata dei Tarquini? Forse aspirava a diventare re nelle province «come se i popoli della Grecia, dell'Asia Minore, della Siria rispettassero maggiormente il trono rovesciato sul quale avevano regnato Perseo, Attalo e Tolomeo». Ma sarebbe stato ragionevole tutto ciò? E poi Cesare aveva sempre dimostrato rispetto per le istituzioni e agiva solo dopo l'emanazione dei decreti del Senato. Orazio Licandro fa suoi i dubbi di Napoleone Bonaparte e proprio dalle riflessioni dello statista corso muove il suo pregevole
Cesare deve morire (Baldini&Castoldi, 2022, 340 pp.).
In
Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Fausto Zevi e Filippo Cassola illustrano un documento epigrafico rinvenuto a Privernum: una tavola marmorea in quattro frammenti che reca le liste magistratuali per gli anni dal 45 al 43 a.C., così da colmare la corrispondente lacuna dei
Fasti Capitolini. Cesare vi appare
dictator perpetuus insieme a Lepido, suo
magister militum anch'egli
perpetuus. Risulta sorprendente la perpetuità della carica di
magister equitum, poiché mai attestata prima. Circa la
dictatura perpetua di Cesare, invece, siamo informati anche da altre fonti e dunque essa non può essere ritenuta una novità. Ma comprenderemo, man mano che ci inoltreremo nella lettura di
Cesare deve morire, che intendere "
perpetua" come "vitalizia" non è corretto. Ed è proprio su tale interpretazione inadeguata dell'aggettivo che sembra essersi rafforzata, nel corso del tempo, l'idea appunto che Cesare volesse servirsi della dittatura vitalizia come trampolino di lancio verso il
regnum: insomma Cesare voleva trasformarsi in un vero dittatore (nella comune accezione odierna della parola: sia chiaro) e ucciderlo sarebbe stato anzi doveroso per salvare Roma dalla tanto odiata monarchia («iure caesus existimatur» per usare le parole di Svetonio). Ma l'epigrafe di Priverno, come s'è visto, introduce un dato nuovo: la perpetuità della carica di Lepido. Dunque sarebbe egli stato un viceré vitalizio? E come mai non se ne fa cenno in alcun'altra fonte? Non basta certo a sanare i dubbi la riflessione di Giovannella Cresci Marrone che ha parlato, a tal proposito, di «diarchia asimmetrica» in grado di scavalcare la «tradizionale piramide magistratuale», non considerando però che tale diarchia avrebbe creato una sorta di mostro "costituzionale".
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Giulio Cesare di Nicolas Coustou |
In quel 44 a.C. la
dictatura veniva del resto ricoperta da Cesare per la quarta volta: nel 49 a.C. l'aveva ottenuta
in absentia (dunque non su suolo romano, come volevano le convenzioni degli auguri confluite nei
Libri augurales) solo per undici giorni e per convocare e presiedere i comizi elettorali (e di fatto poi non l'avrebbe esercitata); nel 48 a.C. gli si concedeva di assumerla per un massimo di dodici e non più soltanto di sei mesi (come fino a quel momento era avvenuto); nel 46 a.C. la otteneva addirittura per dieci anni (con il vincolo dell'
abdicatio annuale cui sarebbe sempre seguita una nuova
dictio); nel 44 a.C. otteneva quella
perpetua. Eppure non risulta che qualcuno si fosse mai opposto. Tuttavia già Cicerone (
Filippiche 1.1.3) riteneva la
dictatura latrice di
vis regia. Di certo il suo parere può avere contribuito al rafforzamento della convizione che Cesare dovesse davvero morire.
Un altro dato va considerato: Cesare ottenne la dictatura perpetua proprio mentre era in preparazione la spedizione contro i Parti. Si sarebbe infatti messo in viaggio il 18 marzo del 44 a.C., se non fosse stato ucciso quattro giorni prima. Se Cesare fosse ritornato vincitore dall'impresa, il suo prestigio sarebbe diventato enorme. Tanto più se è vero, come Plutarco afferma, che in verità Cesare aveva un progetto più ambizioso: «Attraversare l'Ircania [...] invadere la Scizia; lì avrebbe percorso le regioni adiacenti alla Germania e la Germania stessa, e sarebbe rientrato in Italia attraverso la Gallia, chiudendo così in un cerchio i suoi domini, di cui l'Oceano avrebbe costruito tutt'attorno il confine». Non poteva dunque essere l'aspetto istituzionale ad armare la mano dei cospiratori, quanto forse la frustrazione di non contare nulla al cospetto della gloria che Cesare avrebbe ottenuto da un'impresa quasi sovrumana.
Era allora necessario creare i presupposti affinché il cesaricidio, una volta compiuto, potesse apparire giusto agli occhi del popolo e dunque bisognava mettere in moto una vera e propria macchina del fango. Nulla sarebbe stato trascurato: dalla diffusione di voci più o meno di corridoio a messinscene eclatanti, quali il tentativo di incoronazione di Cesare da parte di Antonio durante i Lupercali e quella di alcune statue cesariane.
Quanto fin qui detto non basta certo a rendere ragione delle mille pieghe del discorso condotto da Orazio Licandro, ma si limita a individuare i capisaldi su cui esso si basa. Licandro non lascia alcunché al caso: ricostruisce la storia della dictatura, studia la collocazione del giovane Ottaviano, analizza lettere e orazioni di Cicerone (insistendo sul suo ideale di princeps e dettando a quest'ultimo un preciso programma politico), tratteggia le azioni e le reazioni di Bruto e Antonio, svela il vero senso della "crociera sul Nilo" di Cesare e Cleopatra. E per fare ciò, usa tutte le fonti possibili, convinto del fatto che ogni dato, cioè non solo i resoconti degli storici, ma anche le emergenze monumentali, le monete, le epigrafi, sono in grado di parlarci; insiste sulla necessità di usare un metodo ermeneutico che consenta di discernere, nelle fonti letterarie, non solo i fatti veri e il personale apporto dei singoli storiografi, ma anche le loro intenzioni; interroga anche chi ha recepito la lezione degli antichi sul cesaricidio (il già citato Bonaparte e Shakespeare, per esempio) fino al "cesarismo". Il risultato è un libro formidabile (anche dal punto di vista strettamente letterario), il cui target non è necessariamente o in modo esclusivo quello specialistico. Cesare deve morire merita di essere letto, del resto, proprio per la luce nuova con cui illumina un gigantesco statista romano troppo spesso liquidato come uno dei tanti accumulatori di potere.
Ivo Flavio Abela
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Il prof. Orazio Licandro e il sottoscritto durante una delle presentazioni di Cesare deve morire 28 luglio 2022 |
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