La promessa. Un pastore, la guerra, un amore (IOD 2022) è un interessante romanzo di Gianlivio Fasciano, che sembra riallacciarsi al filone realistico particolarmente vivo nel corso del ‘900. Protagonista ne è Romolo di Meo, nato nel 1921 non lontano da Filignano, a Mastrogiovanni, un paesino che «non si vede sulla cartina. Anzi, si nasconde, perché non sta in un punto preciso. Sopra Caserta, sotto la Ciociaria, verso l’Abruzzo, dentro il Molise». L’infanzia del protagonista è segnata dalla freddezza di una madre che non si è mai rassegnata alla perdita del suo primo figlio. Il padre ha combattuto nella Grande Guerra e ne porta ancora il segno: colpito da un proiettile che gli ha trapassato il polso da un lato all’altro, gli è rimasto il foro attraverso cui spesso Romolo guarda il mondo, quasi quel buco fosse un filtro. Papà Simone è il suo eroe: sa fare tutto e manifesta una saggezza pratica in grado di risolvere ogni problema.
Romolo pensa al proprio futuro e sa che non vorrà fare altro che occuparsi delle vacche e dei vitelli: avverte fortissimo il legame con la terra, quasi farsi possedere da quest’ultima rientrasse in un mos maiorum che si perde in lontanissimi tempi catoniani. L’amore per la terra non può essere cancellato nemmeno quando Romolo viene chiamato al fronte (è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale): egli mantiene un distacco totale da Mussolini, dal fascismo, dalla stessa guerra, dalle ideologie su cui essa si fonda (in più di una circostanza manifesta la propria estraneità alla politica). Così, giunto a destinazione, non può fare altro che osservare il paesaggio, guardarsi intorno e pensare a come potrebbero pascolare bene le sue bestie lì. Non lo cambiano l’essere ormai un tiratore e un soldato stimato, né il diventare telegrafista: continua a sentirsi un contadino fuori posto, quasi a significare che tale condizione non è poi così scomoda (evidentemente in quel mondo rurale i contadini trovano appagamento). Il colmo è che Romolo, dopo l’armistizio, diventa disertore senza nemmeno rendersene conto, con tutto ciò che di problematico ne consegue per la sua incolumità. Egli ha anche ricevuto (o meglio “si è dato”) un’educazione sentimentale: discreta, quasi in sordina. Non è un caso che finisca per desiderare una ragazza del paese amante della lettura, Giovanna, e la sposa poco prima della chiamata alle armi. La giovanissima moglie diventa una delle ragioni di vita di Romolo insieme a Delia, la bambina che nascerà dalla loro unione. Ed ecco che la famiglia diventa il perno intorno al quale ruota l’universo contadino. Ma con i fatti fermiamoci qui: il lettore scoprirà da sé tutto il resto, talvolta rimanendo col fiato sospeso.
Romolo narra in prima persona una vicenda realmente accaduta che Gianlivio Fasciano ha voluto salvare dalla dimenticanza. Egli ha creato un registro linguistico adeguato a un personaggio incolto, il cui livello di istruzione si è fermato al sapere contare fino a dieci e all’essere capace di firmare. Il risultato è una lingua asciutta, essenziale (in certi dialoghi anche telegrafica), popolare, infarcita di dialettismi, mediante i quali l’autore cerca di restituire il colore regionale, prima ancora che della parlata, della “testa” (il modo di elaborare la realtà, si potrebbe dire con un’espressione più tecnica) di una comunità contadina, la cui esistenza non è attestata nemmeno sulla carta geografica. A volte, però, Gianlivio Fasciano non può fare a meno di palesarsi. Bastino come esempi l’uso dell’aggettivo “simbiotico”, che difficilmente può appartenere a un contadino soprattutto se di quei tempi, e la seguente descrizione (peraltro bella e quasi lirica perché Gianlivio Fasciano conosce bene l’arte dello scrivere) del paesaggio intorno a Mastrogiovanni, in riferimento al padre Simone: «Certe volte pensavo che era figlio direttamente di quella terra, dei ruscelli di ottobre, delle scivolarelle argillose di aprile, dei cardi che si essiccavano ad agosto. Ero convinto che fosse nato in un bosco, direttamente dal muschio, che il pungitopo non gli potesse fare male, e che i suoi occhi fossero capaci di riconoscere ogni pietra di quelle valli».
La promessa (quella di non lamentarsi mai, strappata a Romolo dalla madre) è il romanzo di un uomo dotato della ferrea volontà dei semplici, capace di proiettarsi in un futuro saldamente radicato in un patrimonio antropologico che continua a vivere tramite se stesso, resistendo ai condizionamenti esterni e non scendendo a compromessi, se non quello con la morte dei genitori. Tutto ciò avviene in uno stato perenne di conservatività che non significa immobilismo, semmai desiderio di vivere trovando forza e ragioni nella propria umanità.
Ivo Flavio Abela
Nessun commento:
Posta un commento