Secondo il racconto leggendario della «scelta della fede»,
Vladimir, principe di Kiev,
per scegliere la migliore religione
avrebbe inviato degli emissari presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci.
Il rapporto, che questi gli fecero su ciò che avevano vissuto a Costantinopoli,
lo avrebbe deciso senza alcuna esitazione in favore del cristianesimo nella forma bizantina.
Essi dicevano:
«Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra,
perché sulla terra non si trova simile bellezza».
Non si trattò della sola impressione estetica,
perché il racconto la supera infinitamente:
«Perciò non sappiamo che cosa dire,
ma una cosa sola sappiamo: là Dio dimora con gli uomini… ».
Ciò che è bello è la presenza di Dio tra gli uomini;
essa rapisce gli animi e li trasporta.
Pavel Nikolaevič Evdokimov, «Teologia della bellezza», Roma, 1981, p. 36
Andrej Rublëv Icona della «Trinità» |
Due testi sono fondamentali per capire l’essenza dell’icona: «Teologia della bellezza» di Pavel Nikolaevič Evdokimov (Edizioni Paoline, Roma, 1981, già citato e non solo in esergo) e «L'icona, immagine dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica» di Egon Sendler (Edizioni Paoline, Roma, 1983): datati (senza dubbio), ma ancora validissimi capisaldi. E sono due testi che possono essere letti “insieme” in quanto si integrano a vicenda: nel primo prevale la riflessione teologica, nel secondo prevalgono quella storica e quella pratica (pratica in quanto Sendler spiega meticolosamente come un’icona debba essere realizzata). Tuttavia mi sembra opportuno dedicare una riflessione al primo dei due a causa appunto del suo carattere spiccatamente teologico.
Evdokimov insiste sul senso liturgico dell’icona, stigmatizzando (ora tra le righe, ora platealmente) la cultura e la Chiesa d’Occidente che avrebbero smarrito la loro dimensiona ieratica, di cui il rispetto della liturgia sarebbe componente fondamentale. Secondo lo studioso, la teologia occidentale infatti ha sempre «manifestato una certa indifferenza dogmatica rispetto alla portata spirituale dell’arte sacra, a quella iconografica che, malgrado il suo lungo martirologio, è così venerata in Oriente. Tuttavia, provvidenzialmente, l’arte occidentale fu in ritardo sul pensiero teologico e, fino al secolo XII, resta fedele alla tradizione comune tanto all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione unica vive pienamente nella magnifica arte romanica, nel miracolo della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la maniera bizantina» (p. 89).
Teofilo Cretese «Crocifissione» (1567) |
l’artista lungo una strada che è quella dell’illusoria resa fotografica di una corporeità che nulla ha da spartire con l’impalpabilità del Trascendente (l’impalpabilità che l’iconografo d’Oriente rende mantenendosi consapevolmente entro i binari della bidimensionalità e della prospettiva inversa). Emblematico è il caso della rappresentazione del Cristo crocifisso: un ortodosso vi vede «il re», il trionfatore, il vincitore della morte attraverso la morte; un occidentale vi ravvisa solo l’uomo dei dolori, sconfitto, abbandonato dal proprio Padre. In altri termini l’ortodosso partecipa del trionfo insito nella crocifissione, l’occidentale si angoscia e si sente in colpa (e inizia a praticare il culto delle Sacre Piaghe, degli strumenti della passione, ecc.).
Gradualmente l’arte occidentale si spoglia di ogni implicazione liturgica. Umanizza e rende corporee le creature celesti accogliendo la terza dimensione: sotto i loro abiti gli angeli e i santi hanno carne e sangue e il racconto biblico viene usato dall’artista per esplicitare le proprie doti («quando un crocifisso, in forza del suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero indicibile della Croce perde la sua potenza segreta, scompare. Quando l’arte dimentica la forza sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente i “soggetti religiosi”, il soffio del trascendente non l’attraversa più» scrive Evdokimov alla pagina 90). Insomma l’arte occidentale è splendida, ma non ha alcunché di sacro e i suoi luoghi di culto esprimono soltanto il sentimento religioso di chi li realizza e di chi li frequenta, ma non esprimono la divinità («Si può dire che, misticamente, il Medio Evo si spegne precisamente quando scompaiono gli angeli, quando l’icona cede il posto all’immagine allegorica e didattica e il pensiero indiretto al pensiero diretto. È la fine dell’arte romanica, arte essenzialmente iconografica, ed è qui che l’Occidente si distacca dall’Oriente», p. 173).
Un monaco ortodosso pittore di icone |
Icona del «Trionfo dell'Ortodossia» |
Consiglierei la lettura del libro di Evdokimov a chiunque si senta attratto dall'iconografia ortodossa e dalla cultura greco-russa (insieme ovviamente a quella del testo di Sendler).
Ivo Flavio Abela
Dal film «Andrej Rublëv» di Andréj Tarkovskij (1966) |
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