Di seguito alcune mie traduzioni dal greco antico (disposte volutamente in modo casuale). Sottolineo fin d'ora che il modello delle traduzioni "a calco" di Sanguineti mi torna spesso utile. Ed anch'io – finché posso, cioè finché le strutture della lingua italiana me lo consentano e l'efficacia comunicativa della traduzione non ne risulti inficiata – cerco di mantenere inalterato pure l'ordo verborum del testo di partenza. Conclude la breve rassegna un'appendice dedicata al saggio di un amico, tematicamente legato a una delle traduzioni qui presentate.
I versi (sopra riportati) relativi alla danza di Ares sono gli stessi da cui prende spunto il professore Ignazio E. Buttitta per il suo «La danza di Ares. Forme e funzioni delle danze armate» (Bonanno Editore) di recentissima pubblicazione: eccellente saggio in cui l'epos (soprattutto) greco, l'ethos sotteso a certi rituali romani, il carattere popolare di alcune tradizioni ancora oggi vive, si fondono restituendoci un quadro il cui supporto è la tela dello "studio dell'uomo". Attraverso il dipanarsi di una sorta di narrazione ininterrotta (che ha il sapore dei rilievi continui "arrotolati" sulle colonne coclidi), l'autore ci accompagna insieme ad Ares lungo tremila anni di "storia dell'uomo".
«Riti funebri in onore di Ettore il glorioso» (febbraio 2014)
«Così parlò. E quelli buoi e giovenche ai carri
Aggiogarono. E subito si riversarono fuori dalla città.
Per nove giorni trasportarono legna in abbondanza;
Ma quando sorse la decima Aurora che luce dà ai mortali,
Proprio allora portarono Ettore il coraggioso versando lacrime,
Posero il morto sull'altissima pira, vi appiccarono il fuoco.
Quando tornò a mostrarsi l'Aurora - figlia del mattino - dalle dita rosate,
Proprio allora il popolo di Ettore il glorioso si radunò intorno alla pira.
Allorché, ormai convenuti, tutti si ritrovarono insieme,
Spensero innanzitutto la pira con vino chiarissimo:
Tutta per quanto spazio ne aveva attaccato la furia del fuoco; ed ecco che
Le bianche ossa raccolsero familiari e compagni
Gemendo. E il pianto scorreva abbondante lungo le guance.
Dopo averle prese, le posero in un'urna d'oro,
Avvoltele in morbidi pepli purpurei.
Quindi posero l'urna in una fossa profonda e da sopra
La ricoprirono con fitte pietre grandi.
Subito un tumulo v'innalzarono, mentre intorno guardie dappertutto s'appostavano,
Affinché gli Achei dagli schinieri belli non tentassero insidie anzitempo.
Innalzato il tumulo, se ne tornarono indietro. E dunque,
Ben raccolti tutti insieme, consumarono uno splendido banchetto
Nella reggia di Priamo, il re da Zeus nutrito.
Così onorarono il sepolcro di Ettore domatore di cavalli»
Testo originale
«Ὣς ἔφαθ', οἳ δ' ὑπ' ἀμάξῃσιν βόας ἡμιόνους τε
ζεύγνυσαν, αἶψα δ' ἔπειτα πρὸ ἄστεος ἠγερέθοντο.
ἐννῆμαρ μὲν τοί γε ἀγίνεον ἄσπετον ὕλην•
ἀλλ' ὅτε δὴ δεκάτη ἐφάνη φαεσίμβροτος ἠώς,
καὶ τότ' ἄρ' ἐξέφερον θρασὺν Ἕκτορα δάκρυ χέοντες,
ἐν δὲ πυρῇ ὑπάτῃ νεκρὸν θέσαν, ἐν δ' ἔβαλον πῦρ.
Ἦμος δ' ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,
τῆμος ἄρ' ἀμφὶ πυρὴν κλυτοῦ Ἕκτορος ἔγρετο λαός.
αὐτὰρ ἐπεί ῥ' ἤγερθεν ὁμηγερέες τ' ἐγένοντο
πρῶτον μὲν κατὰ πυρκαϊὴν σβέσαν αἴθοπι οἴνῳ
πᾶσαν, ὁπόσσον ἐπέσχε πυρὸς μένος• αὐτὰρ ἔπειτα
ὀστέα λευκὰ λέγοντο κασίγνητοί θ' ἕταροί τε
μυρόμενοι, θαλερὸν δὲ κατείβετο δάκρυ παρειῶν.
καὶ τά γε χρυσείην ἐς λάρνακα θῆκαν ἑλόντες
πορφυρέοις πέπλοισι καλύψαντες μαλακοῖσιν.
αἶψα δ' ἄρ' ἐς κοίλην κάπετον θέσαν, αὐτὰρ ὕπερθε
πυκνοῖσιν λάεσσι κατεστόρεσαν μεγάλοισι•
ῥίμφα δὲ σῆμ' ἔχεαν, περὶ δὲ σκοποὶ ἥατο πάντῃ,
μὴ πρὶν ἐφορμηθεῖεν ἐϋκνήμιδες Ἀχαιοί.
χεύαντες δὲ τὸ σῆμα πάλιν κίον• αὐτὰρ ἔπειτα
εὖ συναγειρόμενοι δαίνυντ' ἐρικυδέα δαῖτα
δώμασιν ἐν Πριάμοιο διοτρεφέος βασιλῆος.
Ὣς οἵ γ' ἀμφίεπον τάφον Ἕκτορος ἱπποδάμοιο»
Omero, «Iliade», XXIV, 782 – 803
Scena da un sarcofago romano Fine III sec. d.C. Louvre «Il corpo di Ettore viene riportato a Troia» (E chissà quante deposizioni di Cristo sono derivate da un simile modello) |
«Inno a Bacco» (Sofocle, «Antigone», V Stasimo, vv. 1115 – 1152; 29 giugno 2014)
Statua bronzea di Dioniso ritrovata nelle acque del Tevere e conservata a Roma (età adrianea o antonina) |
«Dio dai molti nomi, orgoglio della figlia di Cadmo
E prole tonitruante
Di Zeus, tu che proteggi la nobile
Italia, tu che regni
Nel grembo ospitale
Di Demetra Eleusina, o Bacco, l'invasata
Città-madre Tebe
Abitando presso le liquide
Correnti del selvaggio Ismeno sopra il seme del drago,
Tu che sulla rupe dalla duplice cima scorgono la sfavillante
Caligine densa, quando le Coricie
Ninfe Baccanti v'ascendono,
E le correnti di Castalia.
E te inviano
Le coste coperte di edera e la rigogliosa sponda
Ricca di vigneti dei monti Nisei,
Quando parole immortali
T'invocano, a visitare le strade di Tebe:
Tu la onori come la più nobile fra tutte le città
Insieme alla Madre colpita dal fulmine;
E adesso che tutta la città è prostrata
Da un male spietato,
Valica col piede che dona purezza il monte Parnaso
Ed il braccio gemente del mare.
Tu che guidi la danza degli astri che spirano fuoco, custode
Delle voci notturne,
Giovane sangue di Zeus, mostrati,
Signore, con la tua corte di
Baccanti che, smaniando per tutta la notte, inneggiano
A Bacco dispensatore di gioia»
Testo originale
«Πολυώνυμε, Καδμείας νύμφας ἄγαλμα
καὶ Διὸς βαρυβρεμέτα
γένος, κλυτὰν ὃς ἀμφέπεις
Ἰταλίαν, μέδεις δὲ
παγκοίνοις, Ἐλευσινίας
Δῃοῦς ἐν κόλποις, Βακχεῦ Βακχᾶν
ὁ ματρόπολιν Θήβαν
ναιετῶν παρ᾽ ὑγρῶν
Ἰσμηνοῦ ῥείθρων ἀγρίου τ᾽ ἐπὶ σπορᾷ δράκοντος
σὲ δ᾽ ὑπὲρ διλόφου πέτρας στέροψ ὄπωπε
λιγνύς, ἔνθα Κωρύκιαι
στείχουσι νύμφαι Βακχίδες,
Κασταλίας τε νᾶμα.
Καί σε Νυσαίων ὀρέων
κισσήρεις ὄχθαι χλωρά τ᾽ ἀκτὰ
πολυστάφυλος πέμπει,
ἀμβρότων ἐπέων
εὐαζόντων Θηβαΐας ἐπισκοποῦντ᾽ ἀγυιάς•
τὰν ἐκ πᾶσαι τιμᾷς ὑπερτάταν πόλεων
ματρὶ σὺν κεραυνίᾳ•
καὶ νῦν, ὡς βιαίας ἔχεται
πάνδαμος πόλις ἐπὶ νόσου,
μολεῖν καθαρσίῳ ποδὶ Παρνασίαν ὑπὲρ κλιτὺν
ἢ στονόεντα πορθμόν.
Ιὼ πῦρ πνειόντων χοράγ᾽ ἄστρων, νυχίων
φθεγμάτων ἐπίσκοπε,
παῖ Διὸς γένεθλον, προφάνηθ᾽
ὦναξ, σαῖς ἅμα περιπόλοις
Θυίαισιν, αἵ σε μαινόμεναι πάννυχοι χορεύου
σιτὸν ταμίαν Ἴακχον»
«Il sogno di Atossa» (Eschilo, «Persiani», I episodio, vv. 176 – 214; 30 giugno 2014)
«Sempre con molti sogni notturni
Vivo quasi in simbiosi, da quando mio figlio, disposto un esercito,
È in viaggio, volendo devastare la terra degli Ioni;
Però mai ne vidi uno così chiaro
Come la notte precedente: te lo narrerò.
Parve a me che due donne riccamente vestite,
L'una munita di pepli persiani,
L'altra invece di dorici, si mostrassero,
Molto più notevoli per statura delle donne di adesso,
Perfette in bellezza, e sorelle di un sangue
Medesimo; come patria abitavano l'una la terra
Di Grecia, avutala in sorte, l'altra una terra straniera.
Esse una lite, come credevo di vedere,
Accendevano fra sé; mio figlio, accortosene,
Le tratteneva, le calmava, ai carri
Le aggioga e redini ai colli
Pone. E si rizzava superba in quella guisa
L'una che aveva bocca facile a essere dominata dalle briglie,
L'altra si dibatteva, e con le mani i ferri del carro
Lacera e trascina a forza,
Ormai libera dal morso, e rompe a mezzo il giogo.
Mio figlio cade, e appare il padre
Dario compiangendolo. Quando lo vede,
Serse strappa i pepli che gli cingono il corpo.
Ripeto che ho visto di notte tutto ciò.
Quando m'alzai e con le mani una fonte
Dalla bella corrente toccai, con mano sacrificatrice
Mi accostai ad un altare, agli dèi che allontanano i mali
Volendo offrire una libagione, di cui questi sono i compimenti.
Vedo un'aquila che fugge verso l'ara
Di Febo; rimasi muta per la paura, amici;
Quindi un falco vedo che di corsa
Con le ali si slancia e la testa con gli artigli
Le dispiuma; quella nient'altro che abbassarsi
Faceva: tali cose sono terribili per me a vedersi,
Per voi ad essere ascoltate. Lo sapete bene: mio figlio
Se avesse buona sorte, potrebbe diventare uomo in grado di destare ammirazione,
Ma se la sorte non l'assiste – non tenuto a giustificarsi al cospetto della città,
Indenne comunque, ugualmente di questa terra rimane signore»
Testo originale
«Πολλοῖς μὲν αἰεὶ νυκτέροις ὀνείρασιν
ξύνειμ᾽, ἀφ᾽ οὗπερ παῖς ἐμὸς στείλας στρατὸν
Ἰαόνων γῆν οἴχεται πέρσαι θέλων•
ἀλλ᾽ οὔτι πω τοιόνδ᾽ ἐναργὲς εἰδόμην
ὡς τῆς πάροιθεν εὐφρόνης• λέξω δέ σοι.
Ἐδοξάτην μοι δύο γυναῖκ᾽ εὐείμονε,
ἡ μὲν πέπλοισι Περσικοῖς ἠσκημένη,
ἡ δ᾽ αὖτε Δωρικοῖσιν, εἰς ὄψιν μολεῖν,
μεγέθει τε τῶν νῦν ἐκπρεπεστάτα πολύ,
κάλλει τ᾽ ἀμώμω, καὶ κασιγνήτα γένους
ταὐτοῦ• πάτραν δ᾽ ἔναιον ἡ μὲν Ἑλλάδα
κλήρῳ λαχοῦσα γαῖαν, ἡ δὲ βάρβαρον.
τούτω στάσιν τιν᾽, ὡς ἐγὼ ᾽δόκουν ὁρᾶν,
τεύχειν ἐν ἀλλήλῃσι• παῖς δ᾽ ἐμὸς μαθὼν
κατεῖχε κἀπράυνεν, ἅρμασιν δ᾽ ὕπο
ζεύγνυσιν αὐτὼ καὶ λέπαδν᾽ ὑπ᾽ αὐχένων
τίθησι. Χἠ μὲν τῇδ᾽ ἐπυργοῦτο στολῇ
ἐν ἡνίαισί τ᾽ εἶχεν εὔαρκτον στόμα,
ἡ δ᾽ ἐσφάδᾳζε, καὶ χεροῖν ἔντη δίφρου
διασπαράσσει, καὶ ξυναρπάζει βίᾳ
ἄνευ χαλινῶν, καὶ ζυγὸν θραύει μέσον.
Πίπτει δ᾽ ἐμὸς παῖς, καὶ πατὴρ παρίσταται
Δαρεῖος οἰκτίρων σφε• τὸν δ᾽ ὅπως ὁρᾷ
Ξέρξης, πέπλους ῥήγνυσιν ἀμφὶ σώματι.
Καὶ ταῦτα μὲν δὴ νυκτὸς εἰσιδεῖν λέγω.
Ἐπεὶ δ᾽ ἀνέστην καὶ χεροῖν καλλιρρόου
ἔψαυσα πηγῆς, σὺν θυηπόλῳ χερὶ
βωμὸν προσέστην, ἀποτρόποισι δαίμοσιν
θέλουσα θῦσαι πέλανον, ὧν τέλη τάδε.
Ὁρῶ δὲ φεύγοντ᾽ αἰετὸν πρὸς ἐσχάραν
Φοίβου• φόβῳ δ᾽ ἄφθογγος ἐστάθην, φίλοι•
μεθύστερον δὲ κίρκον εἰσορῶ δρόμῳ
πτεροῖς ἐφορμαίνοντα καὶ χηλαῖς κάρα
τίλλονθ᾽• ὁ δ᾽ οὐδὲν ἄλλο γ᾽ ἢ πτήξας δέμας
παρεῖχε. Ταῦτ᾽ ἔμοιγε δείματ᾽ ἔστ᾽ ἰδεῖν,
ὑμῖν δ᾽ ἀκούειν. εὖ γὰρ ἴστε, παῖς ἐμὸς
πράξας μὲν εὖ θαυμαστὸς ἂν γένοιτ᾽ ἀνήρ,
κακῶς δὲ πράξας - οὐχ ὑπεύθυνος πόλει,
σωθεὶς δ᾽ ὁμοίως τῆσδε κοιρανεῖ χθονός»
«Come curare le opere di Demetra» (Esiodo, «Le opere e i giorni», vv. 383 - 392; 3 luglio 2014)
«Quando le Plèiadi, figlie d’Atlante, si levano,
Iniziate la mietitura, quando tramontano invece l'aratura.
Esse per quaranta giorni e quaranta notti
Rimangono nascoste, e di nuovo, compiendosi il giro dell’anno,
Quando s'arrota la lama, riappaiono.
Questa è dunque la legge dei campi, per quelli che al mare
Vicino dimorano e per quelli che valli profonde,
Lontano dal mare spumoso, e terra pingue
Abitano: di seminare nudi, di arare nudi,
Di raccogliere nudi, se a tempo compiute tutte
Le opere di Demetra si vogliano approntare»
Testo originale
«Πληιάδων Ἀτλαγενέων ἐπιτελλομενάων
ἄρχεσθ᾽ ἀμήτου, ἀρότοιο δὲ δυσομενάων.
αἳ δή τοι νύκτας τε καὶ ἤματα τεσσαράκοντα
κεκρύφαται, αὖτις δὲ περιπλομένου ἐνιαυτοῦ
φαίνονται τὰ πρῶτα χαρασσομένοιο σιδήρου.
οὗτός τοι πεδίων πέλεται νόμος οἵ τε θαλάσσης
ἐγγύθι ναιετάουσ᾽ οἵ τ᾽ ἄγκεα βησσήεντα
πόντου κυμαίνοντος ἀπόπροθι, πίονα χῶρον,
ναίουσιν· γυμνὸν σπείρειν, γυμνὸν δὲ βοωτεῖν,
γυμνὸν δ᾽ ἀμάειν, εἴ χ᾽ ὥρια πάντ᾽ ἐθέληισθα
ἔργα κομίζεσθαι Δημήτερος»
In foto «Il giardino fatato», cioè un "minigiardino" che non solo mi ha ricordato (per il contesto verbale in cui l'immagine era stata inserita quando mi fu inviata) i versi di Esiodo, ma mi ha anche richiamato alla mente la tradizione relativa alla realizzazione dei cosiddetti giardini di Adone durante le Adonie, feste ateniesi della durata di otto giorni. Sembra peraltro che lo stesso Canova abbia tenuto presente tale tradizione quando realizzò «Venere e Adone» (Musée d'Art et d'Histoire di Ginevra. La genesi del mito avrebbe un'origine fenicia). E grazie all'amico che mi ha inviato l'immagine.
«La danza di Ares» (Omero, «Iliade», VII, 233 - 241; 12 gennaio 2015)
«Gli rispose allora il grande Ettore agitatore d'elmo:
"Nobile Aiace Telamonio, signore di genti,
Non tentarmi quasi fossi un ragazzino fragile
O una donna che ignora azioni guerresche.
Io bene infatti conosco battaglie e stragi di uomini;
So alla destra, so alla sinistra dirigere lo scudo
Rigido, combattere armato di scudo mi è proprio;
So provocare lo strepito delle cavalle veloci;
So cantare danzando a pie' fermo per il terribile Ares"»
Testo originale
«Τὸν δ' αὖτε προσέειπε μέγας κορυθαίολος Ἕκτωρ·
"Αἶαν διογενὲς Τελαμώνιε κοίρανε λαῶν
μή τί μευ ἠΰτε παιδὸς ἀφαυροῦ πειρήτιζε
ἠὲ γυναικός, ἣ οὐκ οἶδεν πολεμήϊα ἔργα.
αὐτὰρ ἐγὼν εὖ οἶδα μάχας τ' ἀνδροκτασίας τε·
οἶδ' ἐπὶ δεξιά, οἶδ' ἐπ' ἀριστερὰ νωμῆσαι βῶν
ἀζαλέην, τό μοι ἔστι ταλαύρινον πολεμίζειν·
οἶδα δ' ἐπαΐξαι μόθον ἵππων ὠκειάων·
οἶδα δ' ἐνὶ σταδίῃ δηΐῳ μέλπεσθαι Ἄρηϊ"»
«Ettore e Andromaca» (Omero, «Iliade», VI, 407-439; 466-502. 15 gennaio 2015)
Sergej Petrovič Postnikov «Ettore e Andromaca» |
«Infelice, ti ucciderà il tuo coraggio, né hai compassione
Del figlio piccolo e di me misera, che presto vedova
Di te sarò: presto infatti ti uccideranno gli Achei
Assalendoti tutti; sarebbe meglio per me
- Privata di te - finire sotto terra: infatti non più altro
Conforto vi sarà, allorché tu abbia seguito il destino,
Ma solo dolori; non ho più il padre e l'augusta madre.
L'inclito Achille uccise infatti mio padre,
Distrusse peraltro la bene abitata città dei Cilici,
Tebe dalle alte porte; uccise Eezione,
Ma non lo spogliò delle armi: n'ebbe rispetto in cuore
E subito lo bruciò con le armi ben lavorate
E un tumulo vi pose sopra; intorno poi piantarono olmi
Le ninfe dei monti, figlie di Zeus egioco.
I sette fratelli che avevo in casa
Tutti in un sol giorno andarono nell'Ade:
L'inclito Achille dai piedi veloci li uccise infatti tutti
Presso i buoi dai piedi striscianti e le candide pecore.
La madre, che regnava sotto il Placo selvoso,
Dopo che qui la condusse insieme agli altri beni,
Presto la liberò accettando immenso riscatto,
Ma Artemide arciera la colpì nella casa del padre.
Ettore, tu insomma mi sei padre e madre augusta
E fratello, tu mi sei florido marito:
Abbi dunque pietà e resta qui sulla torre,
Non rendere orfano il figlio e vedova la moglie;
Schiera l'esercito presso il fico selvatico, dove al massimo
Accessibile è la città e il muro s'erge superabile.
Tre volte infatti, giunti qui, hanno già fatto la prova i migliori
Che erano con i due Aiaci e l'illustre Idomeneo,
Con gli Atridi e il valoroso figlio di Tideo:
O che qualcuno bene esperto di oracoli lo abbia detto loro,
O che il loro stesso coraggio li eccita e li aizza»
[...]
Avendo così parlato, il nobile Ettore si protese verso il figlio;
Subito il bimbo al seno della nutrice ben cinta
Si trasse strillando, atterrito alla vista di suo padre,
Temendo il bronzo e il cimiero dalla cresta equina,
Vedendolo oscillare terribile alla sommità dell'elmo.
Risero il caro padre e la nobile madre;
Subito dal capo l'elmo tolse l'illustre Ettore
E lo pose - tutto scintillante - a terra;
Subito il caro figlio baciò e cullò con le mani.
Disse, pregando Zeus e gli altri dèi:
«O Zeus e voi altri dèi, concedete che sia questo
Mio figlio, come lo sono io del resto, insigne fra i Troiani
E che, valoroso per coraggio, domini potentemente su Ilio;
E qualcuno possa dire un giorno: "Costui di gran lunga è migliore del padre"
Quando torni dalla guerra; porti le spoglie insanguinate
Avendo ucciso un uomo nemico. Ne goda in cuore la madre».
Avendo così parlato, fra le mani della cara moglie pose
Suo figlio: quella lo accolse allora sul seno profumato
Sorridendo tra le lacrime; guardandola lo sposo n'ebbe pietà,
L'accarezzò con la mano, le rivolse parola e la chiamò per nome:
«Infelice, non dolerti troppo nel cuore:
Infatti nessun uomo mi scaglierà nell'Ade contro il destino;
Dico che nessuno tra gli uomini è mai sfuggito al fato,
Né cattivo, né valoroso, non appena sia nato.
Ma tornando a casa, dedicati alle tue faccende,
Al telaio e alla rocca, e alle serve ordina
Che il lavoro sia mandato avanti: la guerra sarà oggetto di cura per gli uomini
Tutti - e soprattutto per me - che ad Ilio nascemmo».
Avendo detto così, l'illustre Ettore prese l'elmo
Dalla chioma equina; sua moglie s'avviò verso casa
Volgendosi indietro di tratto in tratto, versando pianto abbondante.
Quando giunse alla casa bene abitata
D'Ettore sterminatore, all'interno trovò molte
Ancelle: in tutte loro instillò il pianto.
Quelle ancora vivo Ettore piangevano nella sua casa:
Infatti dicevano che di ritorno dalla guerra non
Sarebbe giunto, sfuggendo all'ira e alle mani degli Achei.
Testo originale
«δαιμόνιε, φθίσει σε τὸ σὸν μένος, οὐδ' ἐλεαίρεις
παῖδά τε νηπίαχον καὶ ἔμ' ἄμμορον, ἣ τάχα χήρη
σεῦ ἔσομαι· τάχα γάρ σε κατακτανέουσιν Ἀχαιοὶ
πάντες ἐφορμηθέντες· ἐμοὶ δέ κε κέρδιον εἴη
σεῦ ἀφαμαρτούσῃ χθόνα δύμεναι· οὐ γὰρ ἔτ' ἄλλη
ἔσται θαλπωρὴ ἐπεὶ ἂν σύ γε πότμον ἐπίσπῃς
ἀλλ' ἄχε'· οὐδέ μοι ἔστι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ.
ἤτοι γὰρ πατέρ' ἁμὸν ἀπέκτανε δῖος Ἀχιλλεύς,
ἐκ δὲ πόλιν πέρσεν Κιλίκων εὖ ναιετάουσαν
Θήβην ὑψίπυλον· κατὰ δ' ἔκτανεν Ἠετίωνα,
οὐδέ μιν ἐξενάριξε, σεβάσσατο γὰρ τό γε θυμῷ,
ἀλλ' ἄρα μιν κατέκηε σὺν ἔντεσι δαιδαλέοισιν
ἠδ' ἐπὶ σῆμ' ἔχεεν· περὶ δὲ πτελέας ἐφύτευσαν
νύμφαι ὀρεστιάδες κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο.
οἳ δέ μοι ἑπτὰ κασίγνητοι ἔσαν ἐν μεγάροισιν
οἳ μὲν πάντες ἰῷ κίον ἤματι Ἄϊδος εἴσω·
πάντας γὰρ κατέπεφνε ποδάρκης δῖος Ἀχιλλεὺς
βουσὶν ἐπ' εἰλιπόδεσσι καὶ ἀργεννῇς ὀΐεσσι.
μητέρα δ', ἣ βασίλευεν ὑπὸ Πλάκῳ ὑληέσσῃ,
τὴν ἐπεὶ ἂρ δεῦρ' ἤγαγ' ἅμ' ἄλλοισι κτεάτεσσιν,
ἂψ ὅ γε τὴν ἀπέλυσε λαβὼν ἀπερείσι' ἄποινα,
πατρὸς δ' ἐν μεγάροισι βάλ' Ἄρτεμις ἰοχέαιρα.
Ἕκτορ ἀτὰρ σύ μοί ἐσσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ
ἠδὲ κασίγνητος, σὺ δέ μοι θαλερὸς παρακοίτης·
ἀλλ' ἄγε νῦν ἐλέαιρε καὶ αὐτοῦ μίμν' ἐπὶ πύργῳ,
μὴ παῖδ' ὀρφανικὸν θήῃς χήρην τε γυναῖκα·
λαὸν δὲ στῆσον παρ' ἐρινεόν, ἔνθα μάλιστα
ἀμβατός ἐστι πόλις καὶ ἐπίδρομον ἔπλετο τεῖχος.
τρὶς γὰρ τῇ γ' ἐλθόντες ἐπειρήσανθ' οἱ ἄριστοι
ἀμφ' Αἴαντε δύω καὶ ἀγακλυτὸν Ἰδομενῆα
ἠδ' ἀμφ' Ἀτρεΐδας καὶ Τυδέος ἄλκιμον υἱόν·
ἤ πού τίς σφιν ἔνισπε θεοπροπίων ἐῢ εἰδώς,
ἤ νυ καὶ αὐτῶν θυμὸς ἐποτρύνει καὶ ἀνώγει»
[...]
Ὣς εἰπὼν οὗ παιδὸς ὀρέξατο φαίδιμος Ἕκτωρ·
ἂψ δ' ὃ πάϊς πρὸς κόλπον ἐϋζώνοιο τιθήνης
ἐκλίνθη ἰάχων πατρὸς φίλου ὄψιν ἀτυχθεὶς
ταρβήσας χαλκόν τε ἰδὲ λόφον ἱππιοχαίτην,
δεινὸν ἀπ' ἀκροτάτης κόρυθος νεύοντα νοήσας.
ἐκ δ' ἐγέλασσε πατήρ τε φίλος καὶ πότνια μήτηρ·
αὐτίκ' ἀπὸ κρατὸς κόρυθ' εἵλετο φαίδιμος Ἕκτωρ,
καὶ τὴν μὲν κατέθηκεν ἐπὶ χθονὶ παμφανόωσαν·
αὐτὰρ ὅ γ' ὃν φίλον υἱὸν ἐπεὶ κύσε πῆλέ τε χερσὶν
εἶπε δ' ἐπευξάμενος Διί τ' ἄλλοισίν τε θεοῖσι·
«Ζεῦ ἄλλοι τε θεοὶ δότε δὴ καὶ τόνδε γενέσθαι
παῖδ' ἐμὸν ὡς καὶ ἐγώ περ ἀριπρεπέα Τρώεσσιν,
ὧδε βίην τ' ἀγαθόν, καὶ Ἰλίου ἶφι ἀνάσσειν·
καί ποτέ τις εἴποι πατρός γ' ὅδε πολλὸν ἀμείνων
ἐκ πολέμου ἀνιόντα· φέροι δ' ἔναρα βροτόεντα
κτείνας δήϊον ἄνδρα, χαρείη δὲ φρένα μήτηρ».
Ὣς εἰπὼν ἀλόχοιο φίλης ἐν χερσὶν ἔθηκε
παῖδ' ἑόν· ἣ δ' ἄρα μιν κηώδεϊ δέξατο κόλπῳ
δακρυόεν γελάσασα· πόσις δ' ἐλέησε νοήσας,
χειρί τέ μιν κατέρεξεν ἔπος τ' ἔφατ' ἔκ τ' ὀνόμαζε·
«δαιμονίη μή μοί τι λίην ἀκαχίζεο θυμῷ·
οὐ γάρ τίς μ' ὑπὲρ αἶσαν ἀνὴρ Ἄϊδι προϊάψει·
μοῖραν δ' οὔ τινά φημι πεφυγμένον ἔμμεναι ἀνδρῶν,
οὐ κακὸν οὐδὲ μὲν ἐσθλόν, ἐπὴν τὰ πρῶτα γένηται.
ἀλλ' εἰς οἶκον ἰοῦσα τὰ σ' αὐτῆς ἔργα κόμιζε
ἱστόν τ' ἠλακάτην τε, καὶ ἀμφιπόλοισι κέλευε
ἔργον ἐποίχεσθαι· πόλεμος δ' ἄνδρεσσι μελήσει
πᾶσι, μάλιστα δ' ἐμοί, τοὶ Ἰλίῳ ἐγγεγάασιν».
Ὣς ἄρα φωνήσας κόρυθ' εἵλετο φαίδιμος Ἕκτωρ
ἵππουριν· ἄλοχος δὲ φίλη οἶκον δὲ βεβήκει
ἐντροπαλιζομένη, θαλερὸν κατὰ δάκρυ χέουσα.
αἶψα δ' ἔπειθ' ἵκανε δόμους εὖ ναιετάοντας
Ἕκτορος ἀνδροφόνοιο, κιχήσατο δ' ἔνδοθι πολλὰς
ἀμφιπόλους, τῇσιν δὲ γόον πάσῃσιν ἐνῶρσεν.
αἳ μὲν ἔτι ζωὸν γόον Ἕκτορα ᾧ ἐνὶ οἴκῳ·
οὐ γάρ μιν ἔτ' ἔφαντο ὑπότροπον ἐκ πολέμοιο
ἵξεσθαι προφυγόντα μένος καὶ χεῖρας Ἀχαιῶν.
APPENDICE
I versi (sopra riportati) relativi alla danza di Ares sono gli stessi da cui prende spunto il professore Ignazio E. Buttitta per il suo «La danza di Ares. Forme e funzioni delle danze armate» (Bonanno Editore) di recentissima pubblicazione: eccellente saggio in cui l'epos (soprattutto) greco, l'ethos sotteso a certi rituali romani, il carattere popolare di alcune tradizioni ancora oggi vive, si fondono restituendoci un quadro il cui supporto è la tela dello "studio dell'uomo". Attraverso il dipanarsi di una sorta di narrazione ininterrotta (che ha il sapore dei rilievi continui "arrotolati" sulle colonne coclidi), l'autore ci accompagna insieme ad Ares lungo tremila anni di "storia dell'uomo".
Ivo Flavio Abela
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