Chi più ne ha, più ne metta: «La mattina appena alzato, caffè fumante o latte e cacao, mi stiro, scorro i titoli del giornale, la Sicilia in prima pagina. Quasi quasi mi faccio uno studio sulla mafia. Il primo che arriva s'accomoda». E così i bigotti dell'antimafia producono carte e nuotano «disinvolti in un mare di mafiosità», ma scorgono «solo la pozzanghera della mafia della cronaca nera», mentre non guardano al fatto che la mafiosità alberga ovunque: nel prefetto, nell'arcivescovo, nel provveditore agli studi, nei posteggiatori abusivi, financo nei maschi che dettano legge a casa loro, ecc. ecc. Se di mafia si deve parlare – ritiene invece l'autore – che si parli di «mafia di carne». E si abbandonino al loro destino i pasticcioni, gli scunchiuruti (siamo in Sicilia e ci sarà concesso usare una parola del nostro dizionario) e pure Nando Dalla Chiesa che arrivava a dare del mafioso a Santi Correnti solo perché il professore sentiva e pensava in modo nazio-separatista, perché non voleva ammettere che «lo sviluppo economico del Nord non deve nulla al Sud che con le sue mille radici ha prodotto e produce la pianta sempreverde dell'arretratezza e dello scarso senso civico».
E poiché non c'è “letteratura” senza “geografia” – è inutile scrivere se non si parte dalle coordinate e dal dato geomorfologico tanto cari (e a ragione) alla Geografia Umana – Tino Vittorio parte dalla sua Catania, anzi da via Plebiscito, dov'è cresciuto: quella strada che attraversa mezza città vecchia, piena di putìe, che fra il 4 e il 5 febbraio si riempie di fumi prodotti dalla combustione della carne di cavallo venduta e mangiata mentre passa la santa patrona (arrust'e mangia). E dov'è cresciuto pure un uomo privo di qualsiasi connotato mafioso (non possiede un tratto fisionomico, non articola un gesto abituale, non pronuncia una parola: non fa il minimo di nulla in modo platealmente mafioso. Pure l'abbigliamento è ordinario. E pure la quotidianità: moglie, figli, mamma): l'uomo di mafia, appunto, l'intervista al quale viene riferita nella parte finale del libro (ecco la mafia vera: quella di carne. Umana e non di cavallo).
Catania. Perché un tempo si sosteneva che in Sicilia mafiosa fosse solo Palermo. Invece pure il liotru è mafioso con tutto l'obelisco: non solo in via Plebiscito (e nei dintorni che sconfinano in aree relativamente lontane dal centro storico come il Villaggio Sant'Agata) la mafiosità si è espressa al meglio attraverso le gesta sempre più eroiche di tutti quei giovani che volevano «un giubbotto di pelle e una camicia di seta, presto!», ma s'è manifestata pure attraverso le azioni di quattro noti campioni dell'imprenditoria, cioè Costanzo, Rendo, Finocchiaro, Graci (sebbene dall'elenco di quanti comandano gli imprenditori siano apparentemente esclusi. Anzi appaiono talvolta vittime). Sono tutti e quattro campioni di una classe borghese-mafiosa che ebbe l'incipit in una marsina maldestramente ornata da una Croce della Corona d'Italia: quella dello sciacalletto Calogero Sedara, stando almeno all'opinione di Sciascia, alla cui interpretazione del fenomeno mafioso Tino Vittorio dedica una cospicua parte del suo libro.
Peraltro Sciascia individuava il paradosso (ma perché dovrebbe essere un paradosso poi?) per cui solo in epoca fascista i ceti più umili in Sicilia furono liberi di produrre per migliorare le proprie condizioni, cosa mai avvenuta né prima né dopo, con buona pace dei professoroni accreditati: Diego Gambetta, secondo cui il mafioso vende protezione privata (eppure – dice Vittorio – «non c'è un episodio riportato nel libro di Gambetta e tratto dalla stampa quotidiana presente in ogni edicola del suolo patrio, da Gela a Casalpusterlengo, che comprovi l'assunto della mancanza di fiducia quale terreno su cui si innalzerebbero le cattedrali della mafia»); Nicola Tranfaglia che s'inerpica su per un pericoloso quanto inconsistente sentiero, facendo risalire l'origine della mafia alla dominazione spagnola (salvo essere sarcasticamente smentito da Vittorio che reputa quantomeno strano il fatto che la Spagna non conosca fenomeni mafiosi all'interno dei propri confini); Luciano Cafagna (sorta di terrone leghizzato ante litteram, per il quale «l'Unità non deve andare in frantumi»), secondo cui il Sud non volle approfittare della ricchezza generosamente elargita dal Nord, preferendo dirottarla verso il clientelismo, anziché finalizzarla a progetti autenticamente miranti alla crescita; l'intoccabile Giuseppe Giarrizzo che insistette sulla formazione di un ceto politico siciliano, emerso intorno al 1870 con l'avvento al potere della Sinistra storica.
E adesso diamo fuoco alle polveri. Tempo fa Luciano Mirone, nel suo «A Palermo per non morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa», riportò le seguenti parole di Riccardo Orioles: «Un sedicente intellettuale catanese, Tino Vittorio, poco dopo il delitto, scrisse un libro, La mafia di carta, per dichiarare che Fava era stato ucciso per questioni di donne, non certo per mafia. E lo stampò con i soldi dell'Università». A parte l'inflazionata espressione «sedicente intellettuale» (talmente cristallizzata ormai da apparire quasi idiomatica), non risulta che Tino Vittorio si sia mai autodefinito «intellettuale» (è del resto piuttosto nota la sua idiosincrasia per qualsiasi etichetta, com'è agevole desumere dal suo «Melenzanologia», edito da Bonanno nel 2014). Non risulta neanche che il professore Vittorio abbia mai attinto a fondi universitari per pubblicare "carta" dal dubbio valore, come tanti suoi colleghi. Non risulta infine che abbia affermato chiaramente che Fava fu ucciso per questioni di donne (lo afferma invece il suo intervistato). Risulta invece che Orioles non ha tenuto sufficientemente conto (malafede? Peloso moralismo ipocrita?) di un'ipotesi all'epoca formulata a proposito del delitto Fava: esso sarebbe stato ordito per colpire indirettamente, tra gli altri, i «Quattro Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa», cioè i quattro imprenditori sopra citati, come peraltro lo stesso Fava li aveva definiti. Alcuni piccoli dettagli: Fava aveva diretto «Il Giornale del Sud» (il primo numero era stato pubblicato il 4 giugno 1980), di cui era comproprietario proprio Gaetano Graci. L'aveva quindi abbandonato nell'ottobre 1981. Dal dicembre del 1982 aveva diretto un'altra rivista, cioè «I siciliani». Nel corso del 1983 su «I siciliani» fu pubblicata un'intervista dal titolo «L'impresa Costanzo, l'industria e la Sicilia» (le risposte furono fornite dall'avvocato Daniele Rodagno in qualità di responsabile dell'ufficio legale dell'azienda di Costanzo). Ci si chiede allora come mai Fava avesse diretto un giornale di cui era comproprietario Graci, come mai avesse pubblicato un'intervista rilasciata dal portavoce di Costanzo e in cui si parlava di mafia, economia, banche. Orioles si è mai posto simili domande?
È ora di fermarsi. Sia spazio alla lettura di un testo difficilmente inscrivibile in un genere letterario dai contorni definiti (è un po' saggio e un po' pamphlet, ma anche narrazione dai risvolti thriller e noir) e sostenuto da una scrittura scolpita, impressa, spigolosa, tagliente, martellante, terribilmente persuasiva (basta leggere l'emblematico capitolo dal titolo «I bigotti della mafiologia»: ogni enunciato ha il suono del bronzo brunito). Su questo blog Camilleri non è amato. Istintivamente, per libera associazione, per cortocircuito mentale, senza alcuna logica, si è pensato però a lui mentre il libro di Tino Vittorio veniva letto. Bene: se Camilleri mettesse da parte la sua minchioneria linguistica e scrivesse ogni tanto come qui scrive Vittorio, si finirebbe senz'altro per amare «Montalbano».
Ivo Flavio Abela
Appendice. La copertina del libro è gradevole e razionale, sebbene capace di stimolare le pulsioni e le associazioni psichiche più irrazionali. L'autore, lo sconosciuto (almeno in ambito culturale) Maurizio Zappalà, propone un Narciso in abiti borghesi, magrittianamente (molto magrittianamente) reinterpretato. Alle sue spalle il Male (creatura di per sé esistente ovvero ombra distorta proiettata dall'essere umano. Non fa molta differenza, in fondo), di cui non s'accorge colui che riduce il proprio universo alla contemplazione di se stesso e del proprio ombelico: il Narciso ingenuo. Nonostante quanto detto, la copertina del libro non merita di essere riprodotta in questa recensione. La rovina infatti un testo molto discutibile e un po' delirante (riportato nel primo dei due risvolti di copertina), scritto dallo stesso Zappalà: egli avrebbe forse voluto dire tanto o tutto. Ma alla fine ha affermato il nulla, come capita a chi ha insufficiente dimestichezza con la scrittura. Consigliargli di continuare a fare il suo mestiere (pare sia architetto)? Direi di sì. Ma ciò che risulta più interessante è la formula «street copertina» da lui usata. La copertina di (o da) strada... Anzi, considerata l'origine etnea dell'ideatore di tale espressione linguistica, gli consigliamo di tradurla in catanese per usarla in futuro: «a copertin'i strata». Suona bene. E poi fa tanto piscarìa e acqua a linzolu.
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