La mattina dello scorso 15 giugno
ho casualmente letto un articolo relativo a Luke, un bambino americano addolorato a causa della morte del proprio cane. L’articolo narrava che ogni
giorno, per quasi due mesi, la mamma di Luke aveva scritto a nome del figlio una
lettera da recapitare a Moe (questo il nome del beagle) presso la Nuvola 1 del
Paradiso dei Cani. Inaspettatamente Luke aveva ricevuto una risposta da Moe. Il
cane gli faceva sapere che stava bene: giocava tutto il giorno ed era felice di avere avuto un
amico come Luke. Sembra che il redattore della risposta fosse stato un postino
dal cuore tenero. Egli, attratto da una di quelle lettere a causa dell’assenza di affrancatura, avrebbe deciso di aprirla e di rispondere a nome del cane, aiutando Luke ad accettarne la perdita. Non avrei – credo – conservato memoria di un tale, alquanto futile articolo, se non mi fossi prima imbattuto in un aneddoto simile, deus ex machina del quale era una
personalità stavolta illustre: una mattina Franz Kafka passeggiava con la propria
giovane convivente, Dora Diamont, in un parco berlinese; incontrò una bambina
che piangeva perché la sua bambola si era persa. Kafka le disse che non si era persa,
ma s’era allontanata perché aveva deciso di vivere nuove esperienze. S’impegnò dunque a
portarle una lettera al giorno, per circa una ventina di giorni, da parte della
bambola: lettere che egli stesso avrebbe scritto perché «la scrittura nasce sempre da
una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il
dolore che essa provoca». L’aneddoto kafkiano e la citazione sono tratti da «Soli eravamo», pubblicato recentemente da Fabrizio Coscia (scrittore, giornalista,
insegnante).
Innanzitutto una riflessione (forse verbosa, ma per me necessaria). Le grandi narrazioni si sono esaurite. Siamo circondati da jaeggiani alfabeti di sabbia che vengono spacciati dai loro autori per romanzi (anzi per «storie». «Storia» – nell’accezione di ‘racconto’, ‘narrazione’, ‘intreccio’ – è diventata parola passe-partout. La usano tutti: pure i miei studenti. E mi arrabbio, facendo loro notare che i genericismi diventano stucchevoli quando esistono fior di non inutili tecnicismi nel linguaggio della narratologia e della critica): prodotti che nulla lasciano al lettore. Forse è il momento di tacere e di ritornare ai maestri: è il momento di rileggere il canone. Alcuni giorni fa pensavo che, se proprio si vuol scrivere, si potrebbero fare almeno dialogare fra loro gli immortali (ho sempre immaginato un romanzo epistolare del quale siano protagonisti impossibili Pavel Florenskij e Anton Čechov). O i personaggi creati dalla fantasia dei maestri (e non solo in ambito letterario): il Viandante sul Mare di Nebbia di Caspar David Friedrich con l’Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, Ifigenia (quella dell’exemplum lucreziano) con la Margherita di Bulgakov: qualcosa di molto simile a quanto realizzato da Italo Calvino allorché fece sì che il tolstojano principe Andrej Bolkonskij e il barone Cosimo Piovasco di Rondò s’incontrassero, ottenendo un effetto sublime (che Cosimo non fosse ancora entrato, per ovvie ragioni, nel gotha dei grandi personaggi di tutti i tempi importa poco). Ma forse Calvino era Calvino. E qualsiasi tentativo di ripetere l’esperimento potrebbe risultare fallimentare, se attuato dai modesti esseri umani nostri contemporanei (mi sono appena reso conto del fatto che la mia fantasia vira quasi sempre verso la Grande Madre Russia).
Innanzitutto una riflessione (forse verbosa, ma per me necessaria). Le grandi narrazioni si sono esaurite. Siamo circondati da jaeggiani alfabeti di sabbia che vengono spacciati dai loro autori per romanzi (anzi per «storie». «Storia» – nell’accezione di ‘racconto’, ‘narrazione’, ‘intreccio’ – è diventata parola passe-partout. La usano tutti: pure i miei studenti. E mi arrabbio, facendo loro notare che i genericismi diventano stucchevoli quando esistono fior di non inutili tecnicismi nel linguaggio della narratologia e della critica): prodotti che nulla lasciano al lettore. Forse è il momento di tacere e di ritornare ai maestri: è il momento di rileggere il canone. Alcuni giorni fa pensavo che, se proprio si vuol scrivere, si potrebbero fare almeno dialogare fra loro gli immortali (ho sempre immaginato un romanzo epistolare del quale siano protagonisti impossibili Pavel Florenskij e Anton Čechov). O i personaggi creati dalla fantasia dei maestri (e non solo in ambito letterario): il Viandante sul Mare di Nebbia di Caspar David Friedrich con l’Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, Ifigenia (quella dell’exemplum lucreziano) con la Margherita di Bulgakov: qualcosa di molto simile a quanto realizzato da Italo Calvino allorché fece sì che il tolstojano principe Andrej Bolkonskij e il barone Cosimo Piovasco di Rondò s’incontrassero, ottenendo un effetto sublime (che Cosimo non fosse ancora entrato, per ovvie ragioni, nel gotha dei grandi personaggi di tutti i tempi importa poco). Ma forse Calvino era Calvino. E qualsiasi tentativo di ripetere l’esperimento potrebbe risultare fallimentare, se attuato dai modesti esseri umani nostri contemporanei (mi sono appena reso conto del fatto che la mia fantasia vira quasi sempre verso la Grande Madre Russia).
E a questo punto mi sento sostenuto anche da
Odysseas Elytis: «Oh sì, mi sembra che la letteratura dei popoli indipendenti
sia finita. Entriamo nell’era della paraletteratura delle province europee:
qualcosa di leggibile, ma che non è esattamente lingua, qualcosa che riguarda
il pensiero, ma che non lo tiene occupato, qualcosa ricco di fantasia, ma una
fantasia pronta e confezionata come al cinema, che non ha bisogno cioè della nostra
collaborazione. D’accordo. Ma, lo si voglia o meno, se nessuno chiede lamette,
nessuno le fabbricherà» («Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del
poeta», pp. 20-21). Ecco ciò che manca oggi alla letteratura: la qualità. E
pure la capacità di coinvolgere il lettore. Forse – stando ancora a Elytis – latita
il lettore stesso (ma su quest’ultimo punto non m’interessa soffermarmi).
«Soli eravamo» ha un pregio enorme: suscita
movimenti incontrollabili nel lettore, ne alimenta l’immaginazione, crea uno
spazio virtuale in cui la mente del fruitore è libera di muoversi e di
respirare. L’apertura, la duttilità, il carattere di satura lanx (nell’accezione etimologica della formula) del libro di
Coscia – saggio, narrazione, pamphlet,
autobiografia – lascia il lettore libero di attribuire ad ogni pagina un
significato legato alla propria esperienza. E costituisce un antidoto contro
la mania di scrivere (pseudo)narrazioni – vuote,
ripetitive, piatte, prive di fascino: in una parola, storie! – di cui oggi patiscono tanti sedicenti scrittori. Il procedere a sprazzi, per frammenti, il tessere
e intrecciare più piani narrativi, nei quali aneddoti di cui sono protagonisti
scrittori, pittori, musicisti, si fondono con episodi autobiografici, lo
rendono originale, parlante, vivo, mercuriale: il lettore si trova, pagina dopo pagina, coinvolto ora in questo, ora in quell’altro groviglio di maglie della rete
testuale. E così mi sto sentendo piacevolmente costretto a non scrivere una recensione
tradizionale, ma un testo che non saprei neanch’io definire perché in fondo si
limita a rendere ragione delle associazioni che in me «Soli eravamo» ha
suscitato (e poi, a ben vedere, ogni recensione è comunque un atto ermeneutico, filtri e matrici del quale sono i retaggi di esperienze personali).
Monte Athos |
Franz Krüger «Ritratto dello zar Alessandro I» |
Lo starets Fëdor Kuzmìč |
Sergej Volkonskij |
Lungo il filo delle sparizioni e
delle fughe vere o fittizie o ancora virtuali che sto arbitrariamente e
immeritatamente tessendo insieme all’autore del libro, spicca un giovane, menzionato
da Coscia nel capitolo su Brahms e Schumann. Il giovane, appassionato di musica
soltanto classica, iscritto alla Facoltà di Filosofia, laureato con una tesi su Schopenhauer
(peraltro pubblicata), improvvisamente accettò un incarico presso un’importante
azienda dolciaria di Bruxelles. Ebbene: «Né io, né nessuno di loro potemmo mai
capire il motivo di quella partenza improvvisa, di quella fuga dalle sue
passioni, di quella rinuncia. I soldi non erano una spiegazione sufficiente, il
suo carattere difficile nemmeno. Ricordo che aveva un’ambizione smisurata: si
sentiva al di sopra di tutti – e forse lo era davvero – come destinato a un
grande avvenire, ma viveva conflitti interiori irrisolti, pulsioni
inconfessate. Che ne è stato di lui? Dei suoi dischi, del suo pianoforte, delle
sue letture? Da che cosa è fuggito? Ci sono pezzi del nostro passato che si
perdono nel nulla, senza possibilità di recupero. Ma l’oblio, a volte, è più
salutare del ricordo» (citazione tratta dalla pagina 182). Accettare un impiego
in un’azienda dolciaria pur di fuggire e sparire mi sembra l’equivalente
dell’ipotetico destino del più volte citato Majorana. E non posso che ripensare
al modo in cui Salvatore Silvano Nigro ha parlato del fisico nel suo «Il
principe fulvo», associando
due date (perché per Nigro «date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e
nello spazio»): il 1938 e il 1883 che hanno in
comune tre cifre su quattro. Il 1938 è l’anno in cui il fisico fece perdere le
sue tracce, mentre viaggiava su un piroscafo diretto a Napoli (come Rosario La
Ciura, protagonista del tomasiano racconto «Lighea», che sparì mentre si dirigeva
a Napoli sul Rex; ancora come Ippolito Nievo, scomparso la notte fra il 4 e il
5 marzo 1861 al largo della penisola sorrentina, insieme a tutto l’equipaggio
del vapore Ercole; e – perché no? – pure come l’avvocato Motta di Mario Soldati). Il 1883 è l’anno in cui Benito Mussolini nacque
a Predappio. Ma è anche l’anno in cui scomparve il principe Fabrizio Salina, risparmiando a se stesso la visione dei «formiconi» fascisti (gli stessi dai quali forse volle prendere le distanze Majorana).
Naturalmente risulta
impossibile continuare a rendere conto della varietà dei temi, degli aneddoti,
delle riflessioni presenti in «Soli
eravamo», la lettura integrale del quale raccomando senz’altro anche a scopo terapeutico: può costituire un proficuo antidoto contro la tendenza – che affligge ormai me e molti miei simili – a prendere le distanze dalla letteratura contemporanea a causa del livellamento qualitativo che la consuma. Risulta del resto impossibile anche verbalizzare tutte le associazioni che la lettura di «Soli eravamo» può innescare nella mente del fruitore. Tuttavia non mi
spiace accennare a quello che per me è il capitolo forse più bello di tutto il testo: «Mi piace Brahms». Vi si
narra l’amore provato appunto da Brahms per Clara Wieck, più anziana di lui di
quattordici anni e moglie di Schumann, e del vero e proprio triangolo edipico che ne derivò, se è vero
che Schumann rappresentò sempre per Brahms un importante punto di riferimento. Fra
Brahms e Clara, però, non accadde concretamente mai nulla. Anzi, proprio in coincidenza con la morte
di Schumann, Brahms prese le distanze dalla donna, adducendo come giustificazione il
fatto che, nel momento in cui le passioni superano nell’uomo il limite, l’uomo
stesso diventa un invalido che deve essere curato. Fabrizio menziona l’Adagio
di Brahms del «Quintetto per archi e clarinetto» che incarna quell’«idea della
musica come desiderio metafisico», cosa
che ispira in me echi manniani («La musica sveglia il tempo» afferma
Settembrini ne «La montagna
incantata», espressione non a caso scelta poi da Daniel Baremboim come titolo
di un suo fortunato libro). E cita anche la Quarta sinfonia di Brahms, il che potrebbe
anche confermare il sospetto, infiltratosi nel mio animo dalla lettura fin
delle prime righe del capitolo, che Fabrizio Coscia l’abbia scritto ascoltando «Il
mito dell’amore» di Franco Battiato (https://www.youtube.com/watch?v=qxT9d1kzkNM).
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