martedì 28 novembre 2017

"Il grande innocente" di Gabriel Del Sarto. Verso la luce salvifica della poesia

Con il sovvertimento di ogni legge fisica relativa al funzionamento del tempo e della vita si apre "Il grande innocente" di Gabriel Del Sarto (Nino Aragno editore, 2017). L'Anticlinale menzionato nella lirica d'apertura è infatti un elemento fisico che va percorso da sotto in su per raggiungere la vetta del monte di cui costituisce il declivio (e che sembra sia più avanti richiamato dalla "dorsale del tempo"). Su esso tutto scorre dal basso in alto (anche i liquidi e gli idrocarburi). E si ha quasi la sensazione che, nella propria ascesa di un terrestre e insieme esistenziale nuovo Monte Carmelo, l'uomo sia in fondo assecondato da quel sovvertimento della fisica. Del resto Gabriel Del Sarto si professa angelo come l'omonima e nota creatura appunto angelica. In lui sembra apparire talvolta una vena che, se non può dirsi mistica alla Juan De La Cruz, è comunque fortemente riflessiva, introspettiva, spirituale, e che lo porta a interpretare anche la materialità e i colori - il marmo e il bianco in particolare - in modo metafisico. Del resto quella parola - "Anticlinale" - reca maiuscola l'iniziale, come avviene con la parola "Assoluto", quando essa diventa sinonimo di "Onnipotente". Nella stessa lirica si precisa che "la morte prima / è quella della parola che manca", affermazione quasi epigrammatica che, al di là del senso universale, sembra una parziale dichiarazione programmatica della propria fede nella parola stessa, la cui produzione frenetica Gabriel avverte come un'urgenza. Anche perché nella poesia risiede per lui la possibilità di sentirsi vivo (quasi come se, privato della necessità di esprimersi mediante la produzione di versi, egli potesse diventare una sorta di dead man walking condannato all'attesa della definitiva morte fisica).

Porte (e cardini), sfere, finestre, vetrate, diventano così il correlativo oggettivo de "Il grande innocente", poiché questi apparentemente prosaici oggetti permettono ai ricordi di acquisire una forma tangibile e duratura, di non rimanere "cose al limite del vento", e dunque di non dissolversi (del resto per un attimo anche le porte "sono di vento", ma la percezione del loro colore verde permette a chi le osserva di reputarle reali, almeno finché il loro colore non smetterà di essere visibile e dunque di apparire consistente).

È correlativo oggettivo anche lo scaffale di un supermercato, nella misura in cui l'istante che separa l'uomo dall'afferrare l'oggetto posto sullo stesso scaffale potrebbe aiutare l'avventore a comprendere "le numerose meccaniche di una solitidine" e forse anche quelle della propria estrema caducità  (più avanti definita "termine della corsa"). Luoghi ed eventi ordinari (un incontro di basket, un concerto, una fabbrica), in altri termini, si alternano nei versi di Gabriel a luoghi ed eventi non fisici, ma del pensiero, in un continuo gioco di sconfinamento del fisico e del materiale nell'impalpabile e viceversa.

Un capitolo a parte viene tessuto intorno a un personaggio, Paterson, già protagonista di un progetto di scrittura collettiva, "La deriva del continente", cui Gabriel ha partecipato in passato (e bene ha fatto a riportarlo nell'alveo della scrittura individuale, rivelandosi talvolta gli esperimenti di scrittura collettiva prove che, per così dire, dietro le quinte hanno sempre bisogno di una mano unificante comunque individuale, con la conseguente ed ovvia dimostrazione del fatto che forse l'intelligenza collettiva somiglia più a una chimera che a una creatura reale). Paterson è Gabriel ed è pure (lo denuncia lo stesso Autore) ciascun membro di quella porzione di varia umanità che popola gli uffici. Se le porte, le finestre, le vetrate sono i correlativi oggettivi di ricordi che rischiano altrimenti una progressiva rarefazione fino alla totale scomparsa, gli uffici sono le scatole sceniche in cui i correlativi si collocano. Dentro tali contenitori (ma talvolta anche immediatamente fuori. Si pensi alla menzione di elementi esterni come il Tamigi) si snoda la "veglia" in cui tutti sostano - ignorando il motivo di tale indugio - incapaci di capire che "il presente è dove abita la pace" e preferendo rifugiarsi in una speranza che diventa "disperazione di un avvento infinito". Gabriel, angelo che conosce la luce, dimostra tuttavia di non avere perduto la capacita di osservarla: "Il bianco di fronte a me del capannone [...] accompagna la luce finale del sole che osservo verso i piloni del porto". Quasi a significare che alla fine di tutto non c'è il buio, non c'è la morte, ma appunto la luce che è segno di vita. E non può essere casuale il fatto che la fine della raccolta non sia caratterizzata dalla presenza di un epilogo, ma sorprendentemente da un "inizio". Tutto ciò risulta possibile a Gabriel, nonostante la difficoltà derivante - in quanto non solo angelo, ma prima di tutto uomo - dal non riuscire del tutto a scrollarsi di dosso i dubbi, le incertezze, le elegiache amarezze conseguenti ad un evento tragico, traumatico, violento, di quelli che si trasmettono ai discendenti mediante il sangue e la memoria, cioè la morte violenta del nonno partigiano.

All'uccisione dell'avo è dedicato un capitolo il cui titolo diventa titolo anche dell'intera raccolta. L'eco dell'evento non si è mai spenta: è tornata nei racconti della vedova con una ricorsività rituale, in una stanza che funge da cella del tempio in cui si consumano il rito stesso della memoria e l'offerta del sacrificio di se stessi sull'altare della potenza evocativa e medianica della parola. Ciò che rimane all'Autore è un dolore freddo che si estrinseca anche nell'immaginare gli istanti immediatamente successivi alla scarica di proiettili di cui il nonno è stato bersaglio. Ma la disperazione viene cancellata dalla serena e pacificante accettazione spontanea di quella morte (il senso di parole già citate, cioè "il presente è dove abita la pace", trova qui il suo più alto esempio), con l'effetto salvifico di condurre a non desiderare più vendette. Quell'accettazione passa anche attraverso l'unità recuperata nel momento in cui due mani (della nonna e del nipote) si saldano "perché la poesia possa dire più della prosa". Chi scrive non può fare a meno di tornare con la mente a vari versi di Elytis, dai quali emerge la funzione della poesia come sorta di ufficio religioso il cui officiante è il poeta stesso, in quanto capace di creare nuova realtà attraverso l'uso sempre inedito della parola. Va del resto sottolineato che in Del Sarto anche i dubbi hanno svolto una funzione positiva, insieme al "sospetto che quelle idee e quegli ideali (per i quali il nonno è morto. N.d.r.) non siano portatori di verità assolute".

L'accettazione spontanea della tragedia sembra del resto assecondata dall'amore (collocato fra i "cardini") che l'Autore prova per la figlia, alla quale augura una vita lunghissima (per un attimo si ha il sospetto che la figlia si confonda con la compagna dell'Autore, in un respiro che annulla ogni barriera distintiva tra amore paterno e amore di compagno). E pure se Gabriel un giorno non ci sarà più, il nome di lei "è il tuo, il mio, senza fine musica / per il mondo che comincia". Ecco che "L'inizio" ha inizio (si perdoni il calembour) e non diverrà mai fine finché Gabriel sentirà l'urgenza di farsi carico della fatica di quel "piccolo sciame sconosciuto" formato dalle parole.

A chi scrive non importa indugiare su un'analisi linguistica e retorica dei versi di Del Sarto, tesa a individuare le caratteristiche precipue in particolare del lessico e del modo in cui l'Autore realizza il pur interessante tessuto sintattico delle proprie liriche. Ciò che più è risultato urgente e intrigante per l'autore del presente testo è l'interpretazione dell'originale e ardito modo in cui l'io narrante del poeta ha tessuto la trama della propria storia interna, cioè dell'ascesa mistica su per quel perturbante Anticlinale d'apertura, lungo il quale ha condotto stretto a sé, con tenacia e magnetismo, anche il lettore.

Ivo Flavio Abela




domenica 26 novembre 2017

"Ambienti saturi" di Fabio Donalisio. Esistenza e/è nulla

Un metaforico miniappartamento, chiuso, privo di ossigeno, opprimente, forse buio, è forma della vita di chi - suo malgrado - vi abita come un recluso. Vi si dispongono immagini, sensazioni, ipostasi di un'esistenza che si rivela negazione di se stessa, illusione. È ciò che appare (perché tale è la sua struttura) "Ambienti saturi" di Fabio Donalisio (Amos Edizioni, 2017).

Nel vestibolo la libertà. Ci sarebbe da gioire se essa non fosse mera paura del vuoto e del nulla che spinge l'uomo ad una ricerca perenne (di se stesso?), pungolato incolpevolmente da una vita che vita non è, ma è solo un coacervo di rumore con cui talvolta bisogna farla finita di netto, da una cecità che è eccesso di vedere, dal bruciore e dell'afonia/agonia provocati dalla "durezza della sabbia nella gola".

Nel cucinino neanche la guerra (un tempo connaturata alla terra - e quindi all'umanità - con cui rima) appare più motore della vita. E la libertà, che sappiamo ormai essere solo paura, viene ulteriormente destituita del suo senso, finendo per coincidere col progressivo imbarbarimento dell'essere umano (o forse col tentativo reiterato di tornare allo stato di natura). Una sedia (immagine da teatro d'avanguardia) è l'unico segno di una presenza che forse ha in altri tempo sorretto, ma pure quel segno è destinato a perire in un inferno di fiamme: unico approdo, già terreno prima di essere metafisico, per chi nutre l'illusione di vivere.

Nella zona notte anche l'amore perde la sua forza mediante la facile destrutturazione linguistica della più umana e trita espressione con cui talvolta si pretende di significarlo. Amore e menzogna vanno di pari passo.

Non resta che il ripostiglio. Ma il nulla vi si è accumulato come accumulate vi appaiono le parole che vi leggiamo e che ognuno di noi dovrebbe sapere interpretare a proprio modo (del resto tale appare l'auspicio dichiarato dall'Autore nella Nota conclusiva).

Poesia difficile e non scevra di un voluto barocchismo, tesa allo stremo di una tessitura linguistico-retorica in cui domina l'ossimoro, su effetti fonici a volte dantescamente petrosi. Anzi tutto il testo, nella sua globalità, è un ossimoro continuo e alimentato da opposizioni, la più cospicua delle quali è quella insistente sulla coppia "esistenza/non esistenza" con netta "vittoria di senso", ovviamente, della non esistenza. E i prestiti (meglio i debiti) sono tanti (basti leggere i seguenti due versi: "e come potevamo noi parlare / col nulla ciarliero del rumore fisso"). "Lirica tanatopoetica" per usare una formula riferita dall'Autore. Ma anche nichilistica. Di quella che piace o non piace, senza mezzi termini o sfumature. Ad onta della complessità, potrebbe risultare degna di qualche interesse.

Ivo Flavio Abela

Aggiunta del 27 maggio 2018. Ho letto questa raccolta per la seconda volta in questi giorni. Mi chiedo come sia possibile avere ricevuto, a distanza di più sei mesi dalla prima lettura, un'impressione completamente diversa. Forse sei mesi fa, dovendo scrivere questa recensione (lo feci peraltro in una giornata molto intensa), m'ero fatto prendere dal sacro fuoco dell'ermeneusi che talvolta lascia spazio più a una valutazione propriamente meccanica. In questi giorni, invece, mi sono lasciato trascinare - in corso di lettura - soltanto dal gusto. Ebbene: non solo trovo adesso brutte le poesie di Donalisio, ma trovo pure che esse non significhino alcunché. Direi quasi che è roba inutile e siamo lontani dalla Poesia vera: quella con la P maiuscola.

lunedì 20 novembre 2017

«Lo spregio» di Alessandro Zaccuri. Ovvero della redenzione e dell'amor paterno

«Gli ho sempre voluto bene
a mio figlio.
E lui lo sapeva»

Il duro, spigoloso, spietato Franco Morelli, detto il Moro, ha ereditato da suo padre la Trattoria dell'Angelo. La cuoca Giustina, una donna timida, vocata alla servitù, incapace di ribellarsi a qualsiasi imposizione del marito, è diventata sua moglie. Insieme hanno allevato un trovatello che si chiama Angelo e dal quale Franco è ammirato e amato quasi fosse la perfezione fatta uomo. La trattoria non è l'unica fonte di sostentamento del Moro. Egli intrattiene traffici pure con prostitute e contrabbandieri. Fra Angelo e Franco si perviene, con l'andare del tempo, a un tacito accordo sulla base del quale Angelo viene autorizzato a servirsi, a scopo di consumo personale, della merce contrabbandata. Presto si stabiliscono nelle vicinanze un boss e i suoi figli maschi: mafiosi meridionali condannati al soggiorno obbligato in una residenza peraltro lussuosa. Salvo, il più baldanzoso dei figli di don Ciccio, decide di conoscere Angelo che in verità, incuriosito da Salvo fin dal suo arrivo, non ha mai avuto il coraggio di avvicinarlo. I due diventano amici inseparabili. Angelo vede in Salvo un modello. Lo ammira a tal punto da iniziare a vestirsi come lui, procurandosi solo abiti firmati.

Tutto procede a meraviglia finché Salvo non coinvolge Angelo nel furto (ai danni del povero e ingenuo Livio Mambrotti) di una statua di san Michele con le ali spiegate, la spada puntata dritta e alta verso il cielo, lo scudo ai piedi in segno di duello finito, un Lucifero malridotto sotto un tallone. Il simulacro, scolpito nel 1922 da Giacomo Guiderzoni e adesso rubato dal giardino di casa Mambrotti, viene portato nella residenza di don Ciccio, restaurato e poi svelato nel corso di una solenne cerimonia familiare alla quale viene ammesso - grande onore - lo stesso Angelo. Quest'ultimo, tuttavia, a causa dell'ammirazione sempre più debordante, sebbene scaturente da un sincero affetto, nei confronti di Salvo, vuole sentirsi come e meglio di lui anche in tale frangente. Acquista dunque dal Tirabassi, un tizio caduto finanziariamente in disgrazia, uno strano oggetto di circa tre metri d'altezza: una sorta di angelo di ferraglia, dotato di un meccanismo elettrico che, se azionato, mostra l'interno della struttura, trasmettendo la sensazione che in tale marchingegno sia stato immortalato il momento della lotta fra Lucifero e Michele, quando l'esito del dissidio è ancora incerto. Colloca l'ammasso di ferraglia davanti alla Trattoria dell'Angelo e invita Salvo per mostrarglielo, convinto che l'amico non potrà che rimanere ammirato al cospetto non solo dell'opera, ma anche dell'ardita mossa di Angelo. Ma Salvo si irrita terribilmente e se ne va senza pronunciare parola. Angelo non comprende il motivo di quella reazione: non sa che il suo gesto, in verità nato dall'affettuoso culto tributato all'amico, ha assunto agli occhi di Salvo i connotati del lancio spudorato di un pericoloso guanto di sfida.

Il resto va in questa sede taciuto perché è bene che sia scoperto mediante la fruizione e la lettura personali. Ma si può anticipare che «Lo spregio» (Marsilio, 2016) è la storia di un essere profondamente umano (anche in seno alla propria disonestà e all'esercizio di un'autorità cieca, rigida, glaciale), nella cui interiorità l'amore sempre taciuto, mai dimostrato, eppure fortissimo e profondamente radicato, di un padre per il proprio figlio, opera il miracolo di una redenzione che giunge ad assumere la forma del sacrificio di se stesso e della palinodia del proprio modo di sentire, pensare, essere. A lettura ultimata si ha la sensazione di avere emotivamente patito, ma d'averlo fatto in nome della bellezza delle tinte prima pacate, poi sempre più luminose, di cui la mano sapiente e raffinata di Alessandro Zaccuri colora la redenzione laica di un uomo. «Lo spregio» ha vinto il Premio Comisso e ciò non può meravigliarci. Chi scrive attende con impazienza il 5 febbraio 2018, quando avrà l'occasione di presentare il libro parlandone proprio con l'Autore.

Ivo Flavio Abela

La consegna del Premio Comisso 2017



Uomini e oggetti secondo Hans Erich Nossack nel suo «La fine. Amburgo 1943»

«La fine. Amburgo 1943» di Hans Erich Nossack (1901 - 1977) fu originariamente pubblicato nel 1948. È poi apparso a più riprese anche in Italia (l'edizione alla quale mi rifaccio è quella del 2005, compresa nella collana Intersezioni del Mulino) ed è una delle più toccanti e intense testimonianze di chi assistette alla distruzione di Amburgo operata dagli Alleati.

Avendo deciso di tenere sotto pressione la popolazione tedesca per far sì che essa si ponesse apertamente contro il governo nazista e lo costringesse a proclamare la resa, essi iniziano a lanciare a più riprese centinaia di volantini: vogliono convincere i tedeschi del fatto che qualsiasi resistenza da parte loro è ormai inutile. Quindi passano ai bengala che si limitano ad illuminare gli obiettivi da colpire. Questi ultimi devono essere nevralgici così che la loro distruzione possa avere conseguenze nefaste, impedendo lo svolgimento della normale vita quotidiana. Vengono quindi sganciati missili esplosivi ed incendiari: Amburgo deve essere del tutto rasa al suolo. Ciò che non viene distrutto dai missili è divorato dalle fiamme che si generano per autocombustione, a causa dell'elevatissima temperatura raggiunta nei cortili e nelle piccole vie che si trasformano in autentici forni crematori, consumando innanzitutto gli abiti, quindi la pelle delle vittime (lo scenario è talmente apocalittico da richiamare alla memoria - sebbene in termini di pure assonanza - le modalità in cui perirono le vittime della colata piroplastica vesuviana del 79 d.C.). Quattro giorni e quattro notti di bombardamenti. Sessantamila morti. E ciò che più impressiona, in seno a quella che viene definita «Operazione Gomorra» (sulla scorta del destino della città biblica cui si riferisce il XIX capitolo della «Genesi») è il fatto che le vittime civili vengano reputate soltanto un inevitabile effetto collaterale dei bombardamenti stessi.

Anche la casa di Hans viene distrutta, ma egli riesce casualmente a salvare la propria vita insieme a quella della sorella. Poco prima dell'inizio dei bombardamenti i due hanno deciso infatti di concedersi alcuni giorni di vacanza nella campagna a Sud di Amburgo. Hanno dunque preso in affitto una piccola casa. Quando gli aerei degli Alleati iniziano ad attraversare i cieli di Amburgo, essi si trovano già fuori città, cosa che comunque non impedisce all'autore di vedere tutto ciò che accade, lasciando talvolta la sorella al sicuro nella cantina della casa affittata.

Al ritorno ad Amburgo i due si trovano al cospetto di una superstite umanità ridotta a un groviglio di esseri senz'anima. I sopravvissuti non appaiono neanche disperati. Semmai preferiscono starsene in silenzio, in disparte, quasi a prendere le distanze da tutto e da tutti. Coloro i quali sono riusciti a procurarsi o a salvare qualcosa diventano oggetto di invidia, vengono odiati da quegli altri sopravvissuti che hanno perduto ogni cosa, nonostante il fatto che siano stati colpiti dalla stessa tragedia. È l'apoteosi della totale disumanizzazione dei sopravvissuti, se è vero che essi giungono al paradosso di non riconoscere il proprio simile e di individuarvi semmai un nemico, talvolta solo a causa del fortunato possesso di un oggetto: «La corsa affannosa per comprare un piatto di terraglia. E quella gioia toccante, infantile sui volti quando uno tornava a casa con un pacchetto sotto al braccio, quasi avesse strappato qualcosa al destino. E quelli che lo vedevano chiedevano pieni di invidia e curiosità: Dove c'è da comprarne? Eppure non si trattava che di un oggetto, così poco dignitoso per forma e materiale che un tempo le persone ne avrebbero provato vergogna» (p. 98). La vita senza gli oggetti sembra impossibile.

Del resto è impossibile la vita degli oggetti senza di noi. In un altro passo terribile per forza evocativa Nossack racconta infatti che, mentre le case bruciavano durante quelle notti terribili, insieme ad esse ardevano e si consumavano anche tanti oggetti che erano appartenuti a chi in quelle stesse case era vissuto fino a quel momento. Tra le fiamme si potevano talora scorgere una fotografia sbiadita, una bambola, un'opera d'arte: tutti oggetti il cui valore - ci avverte Nossack - non può essere quantificato in cifre. Poiché non è stimabile il valore di oggetti che hanno riempito la nostra vita e che noi abbiamo caricato della nostra memoria e dei nostri vissuti. Quegli oggetti - dice Nossack - chiedevano ai loro proprietari di non abbandonarli tra le fiamme. Perché se ci sono stati utili, anche noi abbiamo contratto un debito nei loro confronti: hanno bisogno di noi per vivere, «assorbono in sé il nostro calore e lo custodiscono con gratitudine, per poi restituircelo arricchendoci con esso nei tempi bui». Non è un caso che questa "teoria degli oggetti" venga chiamata in causa quando ci si riferisce ai cosiddetti bio-oggetti del teatro di Tadeusz Kantor, cioè a quella sorta di oggetti-totem che egli collocava sulla scena e il cui compito era stimolare nell'attore l'emersione e la verbalizzazione di vissuti, emozioni, sensazioni.

Ivo Flavio Abela


domenica 19 novembre 2017

«Il desiderio e la ricerca del tutto». Per Frederick Rolfe l'anima gemella esiste

Frederick Rolfe (1860 - 1913) fu un ironico, intelligente, colto scrittore inglese, innamorato dell'Italia e di Venezia. Cercò di diventare prete, ma l'impresa (perché tale si rivelò) gli fu resa quasi impossibile da chi reputava la sua condotta moralmente discutibile e non adeguata ad un ministro di Dio, a causa della sua non sempre occultata omosessualità. «Il desiderio e la ricerca del tutto» (Castelvecchi, 2014) è un romanzo che si potrebbe anche definire brillante per l'ironica verve narrativa di Rolfe. Il titolo è tratto da un passo del «Simposio» platonico (193): «Il desiderio e la ricerca del tutto è detto Amore», del resto posto in esergo ad apertura. E tale platonica scelta non è certo casuale: Nicholas e Gilda, i protagonisti, s'incontrano e le loro vite si saldano grazie ad un patto che i due stringono verbalmente. Ma l'incontro non sembra casuale: ciascuno di loro è la metà di un intero; essi sono la prova di quanto narrato da Aristofane nel citato dialogo platonico a proposito dell'invidia di Zeus che, indignato dallo stato di perfezione in cui l'essere umano viveva, lo spaccò in due, condannando ciascuna delle due parti così ottenute all'infelicità e alla talvolta perenne ricerca del proprio complemento. Solo ricongiungendosi con l'altra, ciascuna delle due metà può restaurare lo stato di beatitudine distrutto dall'intervento divino.

Nicholas, proprio come Rolfe, è uno scrittore che ha invano seguito la via del sacerdozio, ma da superiori e maestri è sempre stato ritenuto inadatto ad abbracciare tale ufficio. Ha dunque scelto di imporre a se stesso vent'anni di continuo esercizio del celibato per dimostrare di poter essere un ottimo prete. La narrazione prende cronologicamente le mosse dagli ultimi mesi di tale ventennio, cioè quando il limite del periodo di astensione dal matrimonio e dalle relazioni sentimentali sta per scadere (dettaglio che si rivela determinante anche per l'intero apparato drammaturgico del romanzo, come si noterà alla fine). Procuratosi un'imbarcazione definita nel gergo marinaresco «topo di mare» (dotata di una cabina posta al centro del ponte, di altri due piccoli corpi coperti e disposti alle estremità, uno dei quali funge da dispensa), salpato da Venezia, doppiate le coste meridionali della penisola, attraversa lo Stretto di Messina come una sorta di nuovo Ulisse (Rolfe è scrittore colto e indulge spesso a riferimenti mitologici, greci e latini. Nello specifico a Scilla e Cariddi).

Frederick Rolfe
Mentre il topo di mare è ancorato lungo la costa della Calabria, Nicholas sente che la barca viene di colpo sollevata, come se il mare stesse crescendo di livello; avverte quindi la nitida sensazione di sprofondare. Non sa ancora che quegli strani movimenti delle acque sono stati conseguenza del famigerato terremoto del 1908: insomma il maremoto, conseguente al sisma, che demolì, abbattendosi con forza contro di essa, la cosiddetta «palazzata» messinese (cioè la teoria di edifici residenziali magnifici esteticamente, ma strutturalmente fragili che si affacciava sul mare dalle parti dell'odierna Ganzirri). Disceso all'alba sulla terra ferma, Nicholas penetra nella casa di campagna di un'onesta famiglia i cui membri risultano tutti morti, eccetto uno che è soltanto privo di sensi: un giovane di circa sedici anni completamente nudo, di statura alta e slanciata, dalla struttura muscolare forte e vigorosa, dotato di una pelle bella e levigata. Il suo torace tornito sembra quello di qualsiasi sedicenne che non risparmia le proprie forze nel lavoro manuale. Però, a ben vedere, sembra formare due timidi seni di donna, magari non molto pronunciati, se è vero che possono essere scambiati per due pettorali piuttosto turgidi. E del resto un dettaglio denuncia che quello non è un ragazzo, ma una giovane donna.

Nicholas trascina faticosamente la giovane sulla barca, la colloca distesa sul proprio giaciglio, tira fuori alcuni indumenti puliti per lei ed esce dalla cabina deciso ad attendere pazientemente il risveglio di quella splendida creatura. La giovane si riprende, si alza, indossa gli indumenti, va incontro al suo salvatore. Di lei emergono subito l'intelligenza, la bontà, il senso di giustizia e di responsabilità, l'onestà. Nicholas, tuttavia, non vuole lasciarsi coinvolgere da momentanei cedimenti emotivi e invita la giovane a tornare sulla terra ferma (sa infatti che i soccorsi per le vittime del sisma stanno arrivando). La giovane si piega all'invito, ma - proprio quando meno Nicholas se l'aspetta - ella si ripresenta sulla sua barca e lo implora di concederle di rimanere con lui. Gli promette che lo servirà con fedeltà e che lo proteggerà da qualsiasi male. Nicholas accetta. In fondo quella rassicurante compagnia non gli dispiace. Pur valentissimo in qualità di scrittore, ha già patito perché i suoi meriti non sempre sono stati riconosciuti. E poi perché truffato da due avvocati che, impegnatisi ad amministrare i suoi beni e a gestire anche i proventi della vendita dei suoi libri, non hanno rispettato gli impegni e si sono pure resi irreperibili.

Insieme Nicholas e Zildo (così d'ora in avanti Rolfe chiama sempre la giovane, cioè col diminutivo veneziano di Ermenegilda, ma nella forma maschile, quasi a rendere più palpabile l'atmosfera di debordante ambiguità che la creatura riesce incolpevolmente a creare intorno a sé) raggiungono Venezia in treno. Nicholas ha infatti preferito pagare due uomini affinché portassero il topo di mare a Venezia, volendo finalmente rinunciare ai disagi di un lungo e stancante viaggio di ritorno per mare. Pervenuti a destinazione, i due raggiungono l'albergo in cui Nicholas è solito alloggiare quando si trova in città. Dopo una prima delusione dovuta al fatto che Nicholas trova già occupata la camera che gli è sempre stata riservata e deve dunque accontentarsi di una diversa soluzione, egli (spinto pure dall'ammirazione e dall'affetto che inizia a provare per Zildo) compra al "ragazzo" abiti da gondoliere, affitta un piccolo e dignitoso appartamento nel quale Zildo stesso potrà vivere, anzi anticipa per lui pure il pagamento dell'affitto di dodici mesi. Nicholas è in verità un uomo spigoloso, talvolta asociale, privo di diplomazia, ma solo perché nemico dell'ipocrisia e dei falsi cerimoniosi costumi sociali. Ma è buono ed è sempre pronto ad agire in difesa e a protezione dei più deboli. Zildo diventa del resto il gondoliere (nessuno riuscirà mai a sospettare che egli sia invece una ragazza) della nuova imbarcazione, simile a una gondola, che Nicholas decide di acquistare e che i veneziani chiamano «pupparìn». Zildo, del resto, finisce poi per conoscere una giovane e simpatica donna americana e la porta in giro per la laguna. La turista, colpita dalla disponibilità e dalla gentilezza di Zildo, gli dice che è disposta a ricompensarlo in qualsiasi modo egli voglia. Zildo si limita a chiederle la collana di perline che ella porta al collo. Ritiene infatti di essere in grado di realizzarne di simili. La donna gli regala la collana e Zildo inizia a procurarsi le perline di cristallo e tutto l'occorrente per realizzare collane, dopo averne disegnato i modelli su uno speciale tipo di carta quadrettata, una risma della quale gli è stata regalata dal padrone.

Dal canto suo lo scrittore si procura subito alcuni nemici: la sua totale assenza di ipocrisia, scambiata evidentemente per quella forma di altera superbia sprezzante che risulta agli occhi della società ancora più perniciosa e offensiva se esercitata nei confronti di chi conta, porta alcuni immorali individui che agiscono nell'ombra, pur dicendosi suoi amici, a volere vederlo sul lastrico. Nicholas perde tutto. Dunque prima lascia l'albergo, poi vive per un breve periodo in condizioni spaventosamente precarie in una casa prestatagli da una coppia di ipocriti e diabolici inglesi erastiani, infine si rassegna a dormire, facendo in modo che nessuno se n'accorga, sul fondo del pupparìn. Una notte Nicholas giunge a rischiare la vita. Siamo all'incirca all'ultima trentina delle quasi quattrocento pagine del libro (il lettore ha ormai l'impressione che la parabola terrena dell'infelice Nicholas stia per concludersi). Ma di colpo la scena narrativa si riaccende all'interno del piccolo appartamento che Nicholas ha preso in affitto per Zildo. Lo scrittore, perduti i sensi durante l'ennesima notte di stenti all'addiaccio, si risveglia in quella che dovrebbe essere la camera da letto di Zildo. La osserva e la trova ordinata, pulita, lustrata come se Zildo non l'avesse mai utilizzata, ma l'avesse curata con l'unico scopo di potervi ospitare il proprio padrone. Quest'ultimo, riuscito ad alzarsi, visita interamente il piccolo appartamento e raggiunge una cameretta molto angusta. Da alcuni incontrovertibili segni capisce che Zildo ha scelto come propria camera da letto quella specie di scomodo buco pur di non "contaminare" con la propria presenza la stanza che ha riservato al padrone. Nicholas è commosso e prova una strana felicità: quella che subentra quando ci si rende conto di avere trovato, in termini platonici, la propria metà.

Quando Zildo rientra in casa, avviene qualcosa di simile a un vicendevole riconoscimento. Peraltro Gilda (finalmente possiamo tornare a parlare di Zildo per ciò che è: una donna) non solo ha messo da parte qualche soldo grazie alla vendita delle collane che è diventata brava nel realizzare, ma è pure riuscita a rientrare in possesso di una cospicua quantità di sterline d'oro che aveva lasciato nascoste nel tronco di un albero cavo presso la casa in cui, vittima del terremoto, Nicholas l'aveva trovata. Ed è pure riuscita a entrare in possesso di una lettera inviata a Nicholas da prestigiosi e seri editori che si dicono disposti a pubblicarne i libri e s'impegnano a offrirgli il migliore trattamento economico possibile. Guarda caso, il ventennio di celibato è del resto scaduto.

Ivo Flavio Abela