sabato 19 novembre 2022

Dostoevskij: intrecci tra arte figurativa e letteratura in nome di Cristo

La complementarità tra l'iconografia ortodossa e certa pittura religiosa occidentale (anche quella rinascimentale di sapore luterano) è uno degli elementi più originali in cui mi sia capitato di imbattermi da quando mi interesso di iconografia ortodossa. L'analisi che Tat'jana Kasatkina realizza nel suo È Cristo che vive in te. Dostoevskij. L'immagine del mondo e dell'uomo: l'icona e il quadro mi ha conquistato. Le righe che seguono saccheggiano ampiamente il testo appena citato a partire dal confronto che la studiosa russa istituisce tra la Vladimirskaja e La Madonna col Bambino e il grappolo di Lucas Cranach il Vecchio.

La prima sporge direttamente dal mondo divino, dallo spazio di Dio, per ascoltare la supplica di colui che la contempla; la seconda protegge lo spazio della creazione terrena divina (non è un bisticcio di parole), ponendosi davanti ad esso, per fornire al contemplante la soluzione; la prima pone la domanda e la seconda la risposta. In entrambe Cristo è la chiave: occupa infatti il posto della "seconda stella" nella prima (tre in genere sono le stelle quante le Persone della Trinità); nella seconda accoglie il dono della madre (il grappolo d'uva, simbolo della moltitudine, cioè dell'umanità, costituita da tanti individui, cioè gli acini) e vi ripiega sopra la propria mano in segno di protezione. E il vulcano (monte dalla cima spezzata) che si vede nel dipinto di Cranach sembra pure richiamare il monte che Abramo vede alle soglie del Paradiso (così com'è raffigurato nelle icone bizantine). Ma pure la piccola sorgente d'acqua che sgorga dalla pietra (una pietra, non a caso, sepolcrale), dettaglio che si coglie osservando l'angolo in basso a sinistra dell'opera di Cranach, altro non è se non la sorgente della vita (la Fonte della Vita, come tale rappresentata su varie icone ortodosse).

Che Dostoevskij tenesse presenti alcuni capolavori pittorici di tutti i tempi è del resto dimostrato da certi schizzi che accompagnano i suoi scritti. Per esempio dal «tempio gotico, che indica tutto l'impeto dell'uomo verso il Cielo, coperto da una cupola ortodossa, il Cielo che discende sull'uomo» (Kasatkina), disegnato dallo scrittore su una pagina degli scritti preparatori per I demoni. Noi fruitori dell'opera d'arte siamo chiamati a osservare le immagini e i personaggi creati dall'artista. Ma a differenza di quanto siamo abituati a pensare - l'artista crea l'opera e il pubblico partecipa alla costruzione del suo senso poiché a ciascuno l'opera suscita sentimenti, emozioni, ricordi discendenti dall'esperienza personale - non siamo chiamati a interpretare l'opera in termini personali, bensì nell'unico senso possibile che l'artista le ha conferito. Dostoevskij ci chiede di decodificare, in sostanza, l'opera d'arte traendone l'unica interpretazione possibile: possibile, beninteso, dal punto di vista dell'artista perché è lui che "ha gli occhi", che vede perché sa vedere, che è il tramite del senso e perciò ce lo offre. L'artista può dirsi vero se le immagini e il senso che ha trasfuso nell'opera vengono colti dal pubblico esattamente come egli li ha concepiti: per ciò che egli ha voluto esprimere. Se così stanno le cose, dobbiamo interpretare la sua opera in modo univoco. Il compito richiesto al fruitore è impegnativo: siamo tutti all'altezza? Perché stando agli esempi che seguono, non è detto ci si possa riuscire.

Icona di Elena Čerkasova
(nata a Mosca nel 1959)
Una ventenne, la Kornilova, aveva gettato dalla finestra la figliastra e questa era miracolosamente rimasta illesa. La donna era subito andata a denunciarsi al distretto di polizia ed era stata condannata. Dostoevskij scrisse a Masljannikov, il quale lavorava nel distretto in cui il caso poteva essere riesaminato. E gli chiese proprio la riapertura del caso: per lui la donna aveva agito perché affetta da disturbi dovuti a una gravidanza (e il fatto che fosse andata a denunciarsi poteva essere considerato prova del suo rientro in se stessa). Perché Dostoevskij prese a cuore quella donna?

Agì come colui che deve immergere nella piscina di Betzaetà, quando un angelo discende ad agitarne l'acqua, il malato che spera di essere guarito. Ma ve ne fu uno che si lamentava perché non aveva nessuno che lo immergesse nell'acqua miracolosa. Quest'uno dovette attendere Cristo. E allora perché non assumere il ruolo di colui che può aiutare il prossimo ad immergersi? Perché non farsi strumenti dell'azione di Cristo, in attesa che egli torni tra di noi? Masljannikov era per Dostoevskij colui che poteva immergere nell'acqua di Betzaetà la Kornilova, visto che in quel momento l'angelo di Dio stava agitandone l'acqua. E tale sarebbe il senso dell'immagine bi-composta che Dostoevskij crea: essa è formata dall'eternità e dall'acronia del racconto evangelico, ma anche dall'immersione nella contemporaneità. In fondo è questo ciò che interessa a Dostoevskij: individuare nell'artista colui che "ha gli occhi" per riconoscere nel contemporaneo (il quotidiano) ciò che è eterno e assoluto. Ed è così che egli costruisce i suoi personaggi.

La lavanda dei piedi in un'icona ortodossa 
Nelle Memorie di una casa morta Dostoevskij parla della banja, rendendola tale quale un inferno: Gorjančikov vi entra e rimane sconvolto dal suono delle catene trascinate sul pavimento, dalle oscenità che pronunciano e urlano quanti vi si trovano, dal sudiciame che scorre ovunque, dalle spaventose cicatrici impresse sulla pelle delle schiene. Un uomo che non è certo un servitore, Petrov, vuole prendersi cura di lui. Lo aiuta a spogliarsi e a detergersi fino ad arrivare ai suoi piedi, anzi ai suoi "piedini": così Petrov definisce i piedi di Gorjančikov, sebbene non se ne capisca ancora il motivo. Per un momento Gorjančikov vorrebbe impedire e Petrov quest'ultima azione, ma poi riflette e dice a se stesso che è senz'altro bene lasciarlo fare.

Nell'inferno più profondo Dostoevskij crea dunque uno squarcio riempiendolo di Paradiso. Poiché il gesto di Petrov è un gesto divino che del resto richiama la lavanda evangelica dei piedi e Cristo il quale dice a Pietro che è necessario che egli si lasci lavare i piedi, altrimenti non potrebbe avere parte con lui. Se poi osserviamo l'icona ortodossa proprio della lavanda dei piedi (quella di Rublëv, per esempio), noteremo che l'assenza di prospettiva porta gli apostoli a dare l'impressione di essere divisi in due file l'una collocata sopra l'altra, e Cristo ad apparire di dimensioni sensibilmente maggiori rispetto agli apostoli stessi e a Pietro in particolare. Quelli di Pietro sembrano (sono in verità) "piedini", proprio perché tali li ha resi l'assenza di prospettiva e il punto di vista che insiste all'interno dell'icona. Se ne può inferire che Dostoevskij ha creato un frammento di Paradiso nell'inferno della banja, tessendo anche rimandi extratestuali: ha così dimostrato che non è necessario morire per vedere il Paradiso, perché quest'ultimo è già qui (ricordiamo Florenskij) e lo si può realizzare anche nell'inferno più bieco e profondo, sempre che l'uomo sia disposto ad assecondarne la realizzazione. Petrov ne è la prova. Ma se l'uomo si chiude all'altro, tale realizzazione non può avvenire.

Nel racconto Il bambino alla festa di Natale di Cristo, in un orribile scantinato un bimbo di circa sei anni, vestito con una sorta di vestaglietta, assiste (inconsapevole) alla morte della mamma proprio mentre si celebra il Natale. Quello scantinato è uno dei sinonimi iconici dell'antro che appare sull'icona ortodossa della Natività (si pensi a quella ancora di Rublëv). Maria non ha trovato un ricovero migliore per mettere al mondo il proprio Figlio, così com'è accaduto alla mamma del racconto (che è giunta da lontano col figlio). Il bimbo di circa sei anni che indossa quella vestaglietta richiama, del resto, il Bambino (sorta di adulto in miniatura) che appare nelle icone della Madre di Dio (a partire dalla Vladimirskaja). Egli fugge quindi dallo scantinato e incontra alcuni adulti (l'uomo): nessuno prova per lui la minima compassione. Il bambino, dopo avere pure ricevuto un calcio da un ragazzo grande e grosso, entra in un cortile e si rifugia dietro a una piccola catasta di legna dicendo: «Qui non potranno trovarmi, e poi è buio». Lo troveranno, invece, ma morto di freddo.

Gaudenzio Ferrari
Polittico della Natività
1511

Dostoevskij vuol farci capire che se l'uomo si chiude, impedisce implicitamente al Paradiso di realizzarsi sulla terra. Tutti coloro nei quali il bambino si è imbattuto, prima di rifugiarsi nel cortile, corrono e si danno da fare perché devono celebrare un Bambino che è nato duemila anni prima, rifiutandosi di riconoscerlo in quel bambino di sei anni che tanto ricorda l'infante dipinto sulle icone della Madre di Dio. Il bambino del racconto viene però direttamente accolto da Dio insieme a tutti quelli che sono morti e che hanno sofferto ingiustamente. Per loro vedere il Paradiso è stato possibile solo attraverso la morte, a differenza di quanto accaduto a Gorjančikov, il quale invece ne diventa parte già in terra grazie alla bontà disinteressata di Petrov. I bambini e gli animali hanno del resto qualcosa che li accomuna: l'innocenza. Ma talvolta tale innocenza non viene riconosciuta dall'uomo come segno impresso da Dio.

Guardiamo adesso il Polittico della Natività di Gaudenzio Ferrari e l'icona ortodossa della Resurrezione di Lazzaro: nella prima il volto di Dio è uguale a quello di San Giuseppe («Il Padre è vivo e, finché noi ci fidiamo di Lui [...] si prende cura di noi»), nella seconda il viso di Cristo è simile a quello di Lazzaro («Cristo deve risorgere nell'uomo perché l'uomo possa rivivere»). Ma Dostoevskij va più in profondità, propugnando quello che in realtà è il principio di tutte le icone ortodosse: l'uomo è immagine di Cristo (come tale è stato creato. Ed ecco perché Cristo può essere rappresentato iconicamente). E a questo punto è necessario parlare di Myškin.

Il principe Lev Nikolaevič Myškin, protagonista de L'idiota, rimane colpito dalla strana bellezza di Nastas'ja Filippovna: «Quella bellezza accecante era perfino insopportabile, la bellezza del viso pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi ardenti: una bellezza strana!». La stessa bellezza si ritrova sul viso di Madonna Povertà nell'affresco della Bottega di Giotto. Non sembra un dato casuale né secondario: echi francescani sembrano tornare più volte nel romanzo (del resto anche nei Karamazov Dostoevskij si riferisce a San Francesco chiamandolo «Pater seraphicus»).

Madonna della Povertà
Bottega di Giotto
Prima metà del XIV secolo
Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

Il principe Myškin dice di avere sentito che la sua mente "si snebbiava", quando fu raggiunto dal raglio di un asino («Da allora amo enormemente gli asini» afferma nello stesso passo). L'asino è l'animale in groppa al quale Cristo entra in una Gerusalemme festante pochi giorni della Passione. Ma appare anche nello schema canonico della Natività (non a caso codificato dallo stesso San Francesco). In quella dipinta da Simone dei Crocifissi l'asino è ritratto mentre raglia in modo quasi spudorato: a lui viene affidato dall'artista il compito di urlare al mondo la Buona Novella della nascita del Messia. Se ne potrebbe dedurre che Myškin si svegli interiormente al ragliare di un asino perché l'asino ha assistito al miracolo dell'Incarnazione.

Simone dei Crocifissi
Natività
Ca. 1330-1339
Firenze, Uffizi
In una celebre scena del romanzo, Myškin si reca nell'alloggio di Nastas'ja e la trova nell'alcova, dietro a una tenda verde. Ma qualche giorno dopo tutti coloro che si recheranno a casa della donna vi vedranno lo stesso Myškin, nonché Rogožin colpito da febbre cerebrale, ma di Nastas'ja non sarà detto più nulla: come se il suo corpo fosse scomparso. I due dati sembrano richiamare la Dormizione della Vergine, così come viene rappresentata sulle icone ortodosse. Perché in fondo Nastas'ja rappresenta proprio la Vergine portatrice di grazie.

Ancora Myškin, nel corso del romanzo, vede anche una riproduzione del Cristo morto di Hans Holbein il Giovane (1497-1543). A differenza di quanto si crede, Cristo viene da Holbein rappresentato non morto, ma nel primo istante della resurrezione: le dita della sua destra sembrano iniziare a contrarsi, provocando l'increspatura del lenzuolo su cui il corpo è adagiato. Quelle dita si muovono perché il soffio vitale sta tornando a invadere il corpo del crocifisso. E in quanto alla bocca aperta e agli occhi semichiusi, elementi caratteristici conseguenti in genere al trapasso, ci si dovrebbe chiedere come mai nessuno di coloro che hanno portato il corpo di Cristo nel sepolcro si fosse dato da fare per abbassare del tutto le palpebre e serrare la bocca, prima di lasciare il cadavere in attesa di tornare nel sepolcro stesso, all'alba del terzo giorno, per ungerlo. Ma la bocca sta aprendosi perché torna a respirare e gli occhi pure stanno riaprendosi perché tornano a vedere. Insomma Holbein ha descritto il momento in cui la vita ha ripreso possesso del corpo di Cristo. Perciò il dipinto sembra il contraltare della rappresentazione della morte, cioè dello scheletro umano che fa parte della Trinità di Masaccio, in Santa Maria Novella a Firenze. E se sullo scheletro si legge «Io fu ga quel che voi sete: e quel chison voi anco sarete», la stessa affermazione può valere (significativamente ribaltata) per il Cristo morto (in verità risorgente, come s'è visto) di Holbein: «Io ero come te, ma tu sarai come me (risorto alla vera vita)».

Hans Holbein il Giovane
Cristo morto nel sepolcro
Basilea, Kunstmuseum



Una riflessione ulteriore va fatta per il rapporto tra L'idiota e la Trasfigurazione di Raffaello, nella quale un ragazzo verosimilmente epilettico (si ricordi che Myškin soffre di epilessia, ma ancora prima di lui chi soffre di epilessia è proprio Dostoevskij) viene soccorso alla base della scena. Egli è l'unico che volge i propri occhi al Cristo trasfigurato (anche la bocca sembra aperta più per la meraviglia che per l'attacco epilettico). Si crea così una sorta di filo che lega Myškin al ragazzo della Trasfigurazione, ma Myškin diventa soprattutto immagine di Cristo.

Ivan Karamazov racconta al fratello un fatto che dice di avere letto su una rivista (di cui cita il titolo, sebbene non ricordi quale sia con precisione). Un bambino di otto anni ha involontariamente colpito con una pietra la zampa del levriero preferito di un proprietario terriero che è pure generale. Quando quest'ultimo scopre che il suo amato cane zoppica perché è stato colpito dal bambino, fa prendere quest'ultimo dai suoi uomini, lo tiene chiuso per tutta la notte e l'indomani lo porta con sé e con il suo seguito a una battuta di caccia, durante la quale ordina che il bambino sia completamente privato dei vestiti e che si metta a correre. Quindi lancia i suoi cani all'inseguimento dell'innocente. Il bambino, raggiunto da loro, viene sbranato sotto gli occhi della madre.

Raffaello, Trasfigurazione
Il crudele aneddoto ha un fondo di verità: proprio sul Messaggero russo il fatto è già apparso (e i lettori del romanzo non possono che riconoscerlo, se ne hanno letto la narrazione originale su quella rivista). Ma alcuni dettagli divergono: nella notizia originale il bimbo non muore e semmai sarà la madre a morire pazza per il trauma conseguente alla scena cui ha assistito. L'adattamento dostoevskijano si motiverebbe per ragioni di analogia con i protagonisti della Crocifissione di Cristo, nei termini in cui essa viene raffigurata sulle icone ortodosse. Ne prendiamo a esempio una, in cui il sinuoso movimento delle figure (al di là di una raffinatissima linea dinamica) allude al fatto che, morto Cristo, tutto inizia a vacillare a partire proprio dal genere umano. Esso si piega sotto il peso del dolore e della perdita. Ma Maria rimane ritta in piedi, quasi a significare che non viene meno quella forza che pure l'animò nell'accettare il piano divino all'atto del concepimento di Cristo. Il bambino del racconto di Ivan Karamazov è Cristo e sua madre non impazzisce e non muore, come nella notizia riportata sul Messaggero russo, ma rimane (apparentemente) in piedi, proprio come la Madre dell'icona.

La crocifissione di Grünenwald
La crocifissione
in un'icona ortodossa
Diverso è ciò che spesso accade nelle rappresentazioni occidentali della crocifissione stessa: per esempio in quella di Matthias Grünenwald, in cui non solo la Madre appare disperata, ma risultano anche significativi i dettagli delle mani sue e soprattutto di quelle di Cristo. In esse le dita sono inarcate come artigli: è una visione fortemente impressionante.

Dostoevskij ha però un altro scopo. E possiamo comprenderlo se ci rifacciamo ancora a un episodio narrato, nello stesso romanzo, da Liza Chochlakova. La donna afferma di avere un libro (quale? Dostoevskij non lo dice. Ma potrebbe essere il Vangelo, in cui della crocifissione si parla ovviamente in modo ampio). In tale libro ha letto di un ebreo che prende un bambino di quattro anni, gli taglia prima le piccole dita di entrambe le mani e poi lo crocifigge. Quindi si siede serenamente per osservare tutti i dettagli della sofferenza del bambino fino alla sua morte. La donna aggiunge di avere pensato spesso che possa essere stata lei stessa a crocifiggere il bimbo. E di immaginarsi mentre assiste a quella terribile agonia consumando la sua composta all'ananas. Non è difficile individuare in questo passo del romanzo un certo antisemitismo di Dostoevskij (è stato un ebreo a compiere il misfatto), edulcorato però dal fatto che Liza fa capire che potrebbe essere stata lei stessa la colpevole (tutti crocifiggono continuamente Cristo), senonché la menzione della composta di ananas ci riporterebbe ancora agli ebrei.

Il valore della crocifissione di Cristo è centrale nel romanzo: Cristo è morto per l'uomo e invita quest'ultimo sempre alla sua mensa. Lo dice anche lo starec Zosima al giovane Aleša, il quale (come se avesse realizzato all'improvviso il senso delle parole dell'anziano) cade in una sorta di estasi nell'osservare la straordinaria grazia del monastero col buio della sera. Ho desiderato concludere con la scena dell'estasi di Aleša poiché il monastero in cui Zosima vive è quello di Optina Pustyn', cuore del mio Soggiorno a Optina. Discesa nell'anima russa (Castelvecchi, 2021). Chi lo ha già letto forse avrà individuato, tra le pagine del mio libro, alcuni dati coerenti con la lettura che Tat'jana Kasatkina ci ha fornito di Dostoevskij.

Ivo Flavio Abela

martedì 1 novembre 2022

Quello snob di terzo tipo di Gaetano Cappelli...

Nel suo Lo snob nella società dello snobismo di massa (Oligo Editore, 2022), Gaetano Cappelli ci racconta di avere chiesto, mediante un post pubblicato sulla sua bacheca Facebook, chi fosse lo snob. Con una certa sorpresa, vista la quantità di risposte ricevute, ha dovuto concludere che essere snob non è affatto percepito come negativo. Tutt’altro. Perché lo snob è colui che, pur immerso nella massa (oggi) dei social, la rifugge, affrancandosi da cliché, da stereotipi, da “pensieri unici” (a ben vedere non ne esiste uno solo), da regole quali quelle imposte dal politically correct (efficacemente definito «la sharia dell’Occidente»). Ne vengono fuori gli snob di primo, secondo e terzo tipo (magnifico questo terzo tipo). Tale classificazione è il punto di approdo di una storia che Cappelli ricostruisce, facendola iniziare con William Makepeace Thackeray che, alla metà del XIX secolo, per primo usò il termine “snob”, poi enantiosemicamente giunto all’accezione che gli viene attualmente conferita.

Oggi, peraltro, l’universo dei social ha fatto sì che nascesse una vera e propria generazione snob (se Levy insisteva profeticamente sull’intelligenza collettiva, Cappelli può a buona ragione parlarci di snobismo collettivo). Va da sé che la natura dello snobismo di massa non può essere omogenea (i cretini veri continuano ad esserci tanto nel modello di Levy, quanto in quello di Cappelli) e certe azioni risultano più risibili che snob (alcuni nomi illustri cadono sotto gli attacchi della sua penna, come quello di colui che finisce per preferire uno sciroppone, il Lambrusco, allo champagne), ma il denominatore sembra comune. E così si arriva al ritratto di uno snob che si compiace del pop (Warhol ne è fisiologicamente esempio sublime), ma detesta proprio quella massa di cui, suo malgrado, è parte. E detesta pure le parole inflazionate che a quella massa rimandano: mainstream, per fare un esempio, senza per ciò giungere a diventare undergroud (pare a chi scrive di potere inferire), forse perché pure l
underground è ormai di massa tanto quanto. Non parliamo poi delle campionesse di quel femminismo che, volendo apparire impegnate quanto le femministe storiche, si profondono in affermazioni che sembrano barzellette e si danno a presunte battaglie di un donchisciottismo maestosamente idiota (e chi scrive si sta limitando a stringere, perché teme di non riuscire a rendere giustizia al libro di Cappelli, se non rimandando alla sua lettura diretta).

Cappelli ha scritto un piccolo libro leggero, arguto, accattivante, sublimemente sferzante. Eppure alla base ci sono una nutrita e impegnata bibliografia e un approccio da sociologo della comunicazione (ovviamente) di massa. Anche se rimane il larvato sospetto che questo caleidoscopico sferzatore e arbiter elegantiarum abbia preso un po’ tutti per i fondelli, compreso se stesso (lo dice alla fine). Ma soprattutto noi.


Ivo Flavio Abela



 

mercoledì 17 agosto 2022

Su «La prospettiva rovesciata» di Pavel Florenskij

In effetti Florenskij non ha tutti i torti. Siamo avvezzi a reputare la resa della prospettiva come una conquista occidentale che ha letteralmente sovvertito i paradigmi rappresentativi della "realtà" (le virgolette alte sono volute) a partire dal Rinascimento (ma con prodromi collocabili anche prima, se è vero che Giotto viene da lui ritenuto "moderno", ad un'attenta analisi degli affreschi della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi).
Eppure - dice il genio russo - sembra improbabile che la prospettiva non fosse familiare anche a quelle civiltà (compreso l'Egitto dei faraoni) che sembrano lontanissime dal saperla rendere. E se prima del sovvertimento umanistico-rinascimentale la prospettiva volutamente non fosse stata usata perché, più che rendere naturale la realtà nella sua rappresentazione figurativa, si era consapevoli del fatto che essa fosse finalizzata a rendere soltanto la percezione della realtà, ma non appunto la realtà stessa?
A ben vedere - egli continua - anche i maestri che hanno fatto propria la lezione della resa in prospettiva diretta spesso sembrano prendersi vistose licenze. Basti pensare a "La scuola di Atene" di Raffaello, in cui sono impliciti almeno due piani e due punti di vista. Viceversa alcuni elementi sarebbero risultati non rappresentabili poiché semplicemente occultati a causa dell'applicazione delle regole della prospettiva. Dunque anche chi ha aderito alla resa prospettica ha talvolta derogato alle sue norme, rinunciando di conseguenza alla resa della stessa unità prospettica.

E allora le icone del XIV e del XV secolo (alcune anche del XVI), che talvolta sembrano rozze agli occhi di un critico "positivista", sono invece la prova del fatto che gli iconografi hanno rinunciato a rendere la percezione della realtà a favore della resa della realtà tout court. Ed è forse questo il motivo per cui rimaniamo attratti da quelle che presentano maggiori (presunte) imperfezioni, ancor più che da quelle che iniziano a tenere conto delle "correzioni" dovute all'applicazione delle leggi della prospettiva (a partire dal XVI secolo almeno).
Ne consegue che anche il modo di disegnare del bambino (attraverso un atto di scomposizione cognitiva) è più fededegno di quello di un artista che abbia compiuto atti di astrazione mentale per accogliere nel proprio seno creativo ed espressivo la prospettiva (che riguarda - lo si ripete - la percezione della realtà e non la realtà stessa, con la conseguente produzione di una... copia della copia!).
Il cubismo del bambino (per citare solo l'aspetto spesso più plateale del suo modo di disegnare) è dunque la chiave per la resa della realtà; l'innaturale torsione del tronco e la proiezione di profilo degli arti nelle figure egizie rispondono alla stessa esigenza di riproduzione della realtà; il cosiddetto astrattismo moderno, insieme a certi tratti caratterizzanti del cubismo, risulta per certi versi un modo per sottrarsi alla gabbia della finzione prospettica (e ciò viene pure ben spiegato da Pavel Evdokimov).
Perché - lo si voglia o no - il piano su cui riproduciamo esseri viventi e oggetti è sempre e comunque bidimensionale: la terza dimensione, che con la resa prospettica tendiamo forzatamente a introdurvi, non è reale, ma finta. Non sarà un caso che - con buona probabilità - ampi accenni di resa prospettica dovevano trovarsi nei dipinti che fungevano da sfondo scenico nella tragedia e nella commedia greca (azioni sceniche FINTE, cioè finalizzate alla creazione dell'illusione).
Corollario: se le icone costituiscono immagini che rimandano al Prototipo, nulla meglio di loro è adeguato alla rappresentazione di quel Prototipo stesso, poiché quel Prototipo è il vero essere.

Ivo Flavio Abela



martedì 16 agosto 2022

Perché «Cesare deve morire»? Orazio Licandro prova a rispondere nel suo pregevole saggio

Durante l'esilio a Sant'Elena, Napoleone Bonaparte dettò al fido Louis-Joseph Narcisse Marchand alcune note alle opere cesariane. A sua volta Marchand aveva prefato questi Précis des guerres de César, narrandovi gli ultimi giorni del grande corso, impegnato nel compulsare i libri per occupare il "non-tempo" della quotidianità isolana, ma anche per soddisfare la propria infinita curiosità per la Storia. Le riflessioni di Napoleone sarebbero state date alle stampe nel 1836, grazie a uno dei tre esecutori testamentari scelti da lui, cioè il conte Bertrand, e riguardavano anche l'idea che Bonaparte s'era fatto circa la fine ingloriosa di Giulio Cesare alle Idi di marzo del 44 a.C.

Quasi concordemente le fonti attribuiscono il cesaricidio al desiderio di potere che aveva portato Cesare a volere impadronirsi del regnum. Ma Napoleone non ne era convinto: come avrebbe potuto uno statista quale Cesare aspirare a essere rex Romanorum, in un contesto storico-politico che da cinque secoli era caratterizzato da consoli, dittatori e tribuni, cioè in una res publica per sua natura incompatibile con quel modello di regnum odiato dai romani fin dai tempi della cacciata dei Tarquini? Forse aspirava a diventare re nelle province «come se i popoli della Grecia, dell'Asia Minore, della Siria rispettassero maggiormente il trono rovesciato sul quale avevano regnato Perseo, Attalo e Tolomeo». Ma sarebbe stato ragionevole tutto ciò? E poi Cesare aveva sempre dimostrato rispetto per le istituzioni e agiva solo dopo l'emanazione dei decreti del Senato. Orazio Licandro fa suoi i dubbi di Napoleone Bonaparte e proprio dalle riflessioni dello statista corso muove il suo pregevole Cesare deve morire (Baldini&Castoldi, 2022, 340 pp.).

In Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Fausto Zevi e Filippo Cassola illustrano un documento epigrafico rinvenuto a Privernum: una tavola marmorea in quattro frammenti che reca le liste magistratuali per gli anni dal 45 al 43 a.C., così da colmare la corrispondente lacuna dei Fasti Capitolini. Cesare vi appare dictator perpetuus insieme a Lepido, suo magister militum anch'egli perpetuus. Risulta sorprendente la perpetuità della carica di magister equitum, poiché mai attestata prima. Circa la dictatura perpetua di Cesare, invece, siamo informati anche da altre fonti e dunque essa non può essere ritenuta una novità. Ma comprenderemo, man mano che ci inoltreremo nella lettura di Cesare deve morire, che intendere "perpetua" come "vitalizia" non è corretto. Ed è proprio su tale interpretazione inadeguata dell'aggettivo che sembra essersi rafforzata, nel corso del tempo, l'idea appunto che Cesare volesse servirsi della dittatura vitalizia come trampolino di lancio verso il regnum: insomma Cesare voleva trasformarsi in un vero dittatore (nella comune accezione odierna della parola: sia chiaro) e ucciderlo sarebbe stato anzi doveroso per salvare Roma dalla tanto odiata monarchia («iure caesus existimatur» per usare le parole di Svetonio). Ma l'epigrafe di Priverno, come s'è visto, introduce un dato nuovo: la perpetuità della carica di Lepido. Dunque sarebbe egli stato un viceré vitalizio? E come mai non se ne fa cenno in alcun'altra fonte? Non basta certo a sanare i dubbi la riflessione di Giovannella Cresci Marrone che ha parlato, a tal proposito, di «diarchia asimmetrica» in grado di scavalcare la «tradizionale piramide magistratuale», non considerando però che tale diarchia avrebbe creato una sorta di mostro "costituzionale".

Giulio Cesare di Nicolas Coustou
In quel 44 a.C. la dictatura veniva del resto ricoperta da Cesare per la quarta volta: nel 49 a.C. l'aveva ottenuta in absentia (dunque non su suolo romano, come volevano le convenzioni degli auguri confluite nei Libri augurales) solo per undici giorni e per convocare e presiedere i comizi elettorali (e di fatto poi non l'avrebbe esercitata); nel 48 a.C. gli si concedeva di assumerla per un massimo di dodici e non più soltanto di sei mesi (come fino a quel momento era avvenuto); nel 46 a.C. la otteneva addirittura per dieci anni (con il vincolo dell'abdicatio annuale cui sarebbe sempre seguita una nuova dictio); nel 44 a.C. otteneva quella perpetua. Eppure non risulta che qualcuno si fosse mai opposto. Tuttavia già Cicerone (Filippiche 1.1.3) riteneva la dictatura latrice di vis regia. Di certo il suo parere può avere contribuito al rafforzamento della convizione che Cesare dovesse davvero morire.

Un altro dato va considerato: Cesare ottenne la dictatura perpetua proprio mentre era in preparazione la spedizione contro i Parti. Si sarebbe infatti messo in viaggio il 18 marzo del 44 a.C., se non fosse stato ucciso quattro giorni prima. Se Cesare fosse ritornato vincitore dall'impresa, il suo prestigio sarebbe diventato enorme. Tanto più se è vero, come Plutarco afferma, che in verità Cesare aveva un progetto più ambizioso: «Attraversare l'Ircania [...] invadere la Scizia; lì avrebbe percorso le regioni adiacenti alla Germania e la Germania stessa, e sarebbe rientrato in Italia attraverso la Gallia, chiudendo così in un cerchio i suoi domini, di cui l'Oceano avrebbe costruito tutt'attorno il confine». Non poteva dunque essere l'aspetto istituzionale ad armare la mano dei cospiratori, quanto forse la frustrazione di non contare nulla al cospetto della gloria che Cesare avrebbe ottenuto da un'impresa quasi sovrumana.

Era allora necessario creare i presupposti affinché il cesaricidio, una volta compiuto, potesse apparire giusto agli occhi del popolo e dunque bisognava mettere in moto una vera e propria macchina del fango. Nulla sarebbe stato trascurato: dalla diffusione di voci più o meno di corridoio a messinscene eclatanti, quali il tentativo di incoronazione di Cesare da parte di Antonio durante i Lupercali e quella di alcune statue cesariane.

Quanto fin qui detto non basta certo a rendere ragione delle mille pieghe del discorso condotto da Orazio Licandro, ma si limita a individuare i capisaldi su cui esso si basa. Licandro non lascia alcunché al caso: ricostruisce la storia della dictatura, studia la collocazione del giovane Ottaviano, analizza lettere e orazioni di Cicerone (insistendo sul suo ideale di princeps e dettando a quest'ultimo un preciso programma politico), tratteggia le azioni e le reazioni di Bruto e Antonio, svela il vero senso della "crociera sul Nilo" di Cesare e Cleopatra. E per fare ciò, usa tutte le fonti possibili, convinto del fatto che ogni dato, cioè non solo i resoconti degli storici, ma anche le emergenze monumentali, le monete, le epigrafi, sono in grado di parlarci; insiste sulla necessità di usare un metodo ermeneutico che consenta di discernere, nelle fonti letterarie, non solo i fatti veri e il personale apporto dei singoli storiografi, ma anche le loro intenzioni; interroga anche chi ha recepito la lezione degli antichi sul cesaricidio (il già citato Bonaparte e Shakespeare, per esempio) fino al "cesarismo". Il risultato è un libro formidabile (anche dal punto di vista strettamente letterario), il cui target non è necessariamente o in modo esclusivo quello specialistico. Cesare deve morire merita di essere letto, del resto, proprio per la luce nuova con cui illumina un gigantesco statista romano troppo spesso liquidato come uno dei tanti accumulatori di potere.

Ivo Flavio Abela


Il prof. Orazio Licandro e il sottoscritto
durante una delle presentazioni di Cesare deve morire
28 luglio 2022


lunedì 6 giugno 2022

Incomunicabilità, segni, parole e amore nel romanzo di Tommaso Avati «Il silenzio del mondo»

Una donna di cuori. E poi Rosa, Laura e Francesca, l’una figlia dell’altra: Francesca lo è di Laura, Laura lo è di Rosa. Tutt’e tre sorde dalla nascita. La loro sordità non è solo un handicap, ma è anche metafora di un’incomunicabilità arginata tuttavia dall’amore. Ce ne parla Tommaso Avati nel suo bellissimo Il silenzio del mondo (Neri Pozza, 2022). La storia delle tre donne attraversa almeno un novantennio: Rosa nasce e diventa adulta nell’Italia rurale e fascista degli anni Trenta e Quaranta, Laura negli anni Settanta, Francesca nella temperie tecnologica dei nostri giorni.

Rosa è stata abbandonata insieme a una carta da gioco tagliata a metà, raffigurante la donna di cuori. Viene adottata da una coppia di contadini che non riescono ad avere un figlio in grado di sopravvivere al parto più di due settimane. L’ultima loro bimba muore nello stesso giorno in cui è nata, contravvenendo alle convinzioni della madre, secondo la quale ad ogni gravidanza il nascituro ha avuto una vita lunga pochi giorni in più del precedente. I due sfortunati coniugi accettano il consiglio di adottare allora un figlio. Preferiscono comunque prendere con sé una bambina: hanno saputo che per una femmina riceveranno un sussidio di mantenimento fino alla maggiore età. Con loro vive il fratello cieco del capofamiglia, per il quale Rosa è una sorta di figlia. Il legame tra lo zio e la nipote adottiva si rafforza soprattutto durante le ore trascorse in casa l’uno accanto all’altra: lui non può vederla, lei non può sentirlo, ma i due stanno bene insieme. Rosa apprende quindi un inedito codice di segni da una donna conosciuta casualmente (le parole di quest’ultima vengono fuori dalle dita, proprio come nell’immagine barthesiana che Avati insegue fin dall’esergo): inizia così a percepirsi nel profondo, a elaborare concetti ai quali i segni man mano appresi danno forma, a concepire il discorso interiore. Più avanti la ritroveremo a Roma dove concepirà, senza comprenderlo, la figlia Laura.

Laura ha la fortuna di vivere la propria sordità in modo consapevole, sebbene le venga impedito dal padre di usare i segni quando comunica con la madre. Poi s’innamora, si sposa, ma gradualmente si chiude in se stessa e rifiuta di comunicare con coloro che per lei sono i diversi: gli udenti. I suoi progressi sulla via dell’incomunicabilità sono paralleli alla crisi sempre più profonda che caratterizza il suo rapporto con il marito fedifrago. Da quell’urgenza di comunicare che Laura ha sentito tanto più forte quanto più aumentavano i divieti paterni di usare i segni, la donna approda al rifiuto quasi totale della comunicazione. Fallisce anche quella con la figlia Francesca, che fin da bambina ha instaurato con lei un rapporto conflittuale, preferendole il padre. Nemmeno la condivisione del codice di segni riesce ormai ad avvicinarle. Inoltre per Laura l’uomo udente è anche colui che tradisce e abbandona. Reagisce nel peggiore dei modi quando scopre che l’amore della figlia è proprio un udente, come Rosa aveva reagito negativamente quando aveva saputo che Laura era innamorata di un udente.

Avati, però, riserva al lettore alcune sorprese e, man mano che procede nella narrazione, crea una struttura ad anello: le vicende di Francesca si confonderanno con quelle dell’ormai defunta Rosa, grazie alla scoperta di un segreto che Rosa ha mantenuto fino alla morte. Quel segreto renderà affini Rosa e Francesca a tal punto da mettere in crisi anche le granitiche certezze di Laura: l’amore, nell’accezione più elevata della parola, ricomporrà l’esistenza delle tre donne, sebbene parzialmente a posteriori, rendendole parti di un unico ciclo vitale. Avati ci farà anzi tornare ancora più indietro nel tempo: una culla, una signora in preghiera, le sue dita intrecciate tanto da indolenzirsi, il vento, una carta da gioco con una donna di cuori. Scopriremo allora che le protagoniste del romanzo non sono tre ma quattro; comprenderemo che all’origine della sordità di Rosa, Laura e Francesca si pone anche un abbandono (e non di un marito ai danni della moglie). Se il ciclo comprendente le tre esistenze è un anello, il finale è il diamente che vi è incastonato.

Tommaso Avati, sordo fin dalla nascita, ha trattato la sordità, ma ha anche evitato di fare mera autobiografia (quella, spesso stucchevole, di cui patisce tanta letteratura a noi contemporanea), raccontando di tre donne (anzi quattro). Ha scelto non un lungometraggio, ma la letteratura, usando peraltro una scrittura bella, nitida e priva di orpelli esornativi. E proprio nella letteratura di oggi (quella alta) Il silenzio del mondo merita un posto speciale.

Ivo Flavio Abela





venerdì 3 giugno 2022

I Piccolo e il mistero della vita invisibile in «Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata» di Alberto Samonà

Giulio, innamorato della sua Palermo  ̶  quella ottocentesca e primonovecentesca delle grandi famiglie aristocratiche, in cui Wagner aveva composto parte del suo Parsifal  ̶  e appassionato di filosofia e occultismo, si reca nel 2003 alla villa in cui sono vissuti alcuni membri della famiglia Piccolo, sulle colline nei pressi di Capo d’Orlando. Il pretesto gli viene fornito da Bent Parodi, discendente per parte materna addirittura da Hans Christian Andersen e presidente, a partire dagli anni Ottanta, della Fondazione di cui la tenuta è ancora oggi sede. Bent aveva organizzato un convegno cui Giulio avrebbe partecipato con la sua relazione dal titolo Alchimia e trasmutazione dei metalli come paradigma della trasformazione di sé. Tale situazione ci viene presentata da Alberto Samonà lungo le prime pagine del suo Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata (Rubbettino, 2021), sebbene l’incipit vero e proprio focalizzi la nostra attenzione sulla figura del barone Casimiro Piccolo senior. A quest’ultimo si deve la ristrutturazione di un’antica dimora, verso la fine dell’Ottocento, che sarebbe diventata appunto Villa Piccolo e in cui lo stesso Casimiro senior si sarebbe stabilito, stanco di una Palermo segnata dal modernismo galoppante e dalla vita mondana per lui ormai vuota. Isolarsi sulle colline di Capo d’Orlando significava assaporare il gusto della natura e stabilire un contatto con la parte più profonda di se stesso.

I figli di Casimiro senior erano anche il suo cruccio: Giuseppe viveva dissipando il denaro di famiglia e impegnandosi in avventure extraconiugali, una delle quali  ̶  con una ballerina conosciuta al Teatro Politeama  ̶  ne causò il trasferimento a Sanremo, lontano dalla Sicilia nella quale mai sarebbe tornato; la figlia pativa di depressione, aveva sposato un conte piemontese e si era trasferita a Torino, dove occasionalmente riceveva la visita della madre, Agata Moncada Notarbartolo. Insomma né l’uno né l’altra manifestavano il minimo interesse verso la tenuta amata dal padre e verso ciò che essa rappresentava per lui. Ma Casimiro avrebbe avuto la soddisfazione di vedere la nuora (moglie di Giuseppe e ormai separata da lui) e i tre nipoti stabilirsi nella sua villa. Dei tre Lucio divenne poeta, Agata Giovanna (che fu sempre chiamata semplicemente Giovanna) era appassionata di botanica e scrisse un piccolo libro su una pianta rarissima che cresceva nel giardino, Casimiro junior (che dunque portava lo stesso nome del nonno) fu fotografo e pittore provetto, si appassionò di occultismo ed era coltissimo e capace di leggere autori  ̶  alcuni ancora sconosciuti in Italia  ̶  in lingua originale.

Rendeva interessante ed inquietante Casimiro junior la sua passione per quelle stranissime creature che nel nostro immaginario si legano alle favole e alle antiche saghe mitologiche soprattutto nordiche e greche. Egli affermava di vederle durante le sue passeggiate intorno alla casa. Quando ciò capitava, le riproduceva in pittura: elfi, folletti, streghe, lo stesso dio Pan e ancora inquietanti personaggi dalle caratteristiche a metà tra l’umano e l’animale. A ciò si aggiunga la realizzazione di un vero e proprio cimitero dei cani che la famiglia aveva posseduto nel corso degli anni e che erano morti, insieme a qualche gatto: ogni animale aveva la sua lapide con tanto di nome inciso; due volte alla settimana venivano cambiati i fiori sulle loro tombe, affinché essi fossero sempre freschi.

Del resto i cani erano reputati i veri custodi della villa: garantire loro una sepoltura serviva non solo a preserverne la memoria, ma a riconoscerne il ruolo di protettori del luogo che essi  ̶  secondo Casimiro  ̶  continuavano a esercitare poiché la loro vita non era finita, ma aveva semplicemente abbandonato il piano fisico. Casimiro, intervistato da Vanni Ronsisvalle nel 1967 (l’intervista è contenuta nel documentario Il favoloso quotidiano prodotto dalla Rai), affermò di avere sentito il latrare di almeno un paio dei cani sepolti in quell’originale cimitero (e non era certo stato il solo a udirli). Quel complesso di sepolture canine (e anche un po’ feline) era la sede ideale di tutte le energie vitali, di tutti gli esseri strani e misteriosi che appartengono allo stato intermedio tra quella che per noi è la vita materiale e reale e ciò che invece non vediamo, ma che Casimiro “vedeva” poiché era riuscito ad attivare una modalità percettiva che si spingeva oltre quella garantita dai sensi. In verità tutti e tre i Piccolo rispettavano la morte e in essa vedevano un evento non certo destinato a troncare i rapporti tra quanti essa si porta via e coloro che le sopravvivono: scomparsa la madre, i tre Piccolo continuarono a dialogare con lei e non mancarono mai di fare apparecchiare anche per lei in tavola ad ogni pasto, spesso consumato in orari improbabili. Per il resto la casa era stata strutturata in modo tale che gli occupanti potessero anche non incontrarsi per giorni.

Casimiro  ̶  si è detto  ̶  era anche coltissimo. Aveva provato a scrivere poesie e nove di queste furono pubblicate con il patrocinio di Eugenio Montale. Era stimato dal cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che trascorreva lunghi periodi nella tenuta dei Piccolo e proprio con Casimiro dibatteva a lungo  ̶  sempre all’insegna dell’arguzia e della più raffinata ironia  ̶  sulla letteratura e sui nomi di giovani e rampanti uomini di lettere che i due avrebbero voluto introdurre nel loro ambiente culturale: i due si adagiavano su uno dei tanti sedili lapidei disseminati nell’ampio giardino e si fronteggiavano per ore. Tomasi riusciva a essere particolarmente tagliente (ce lo ricorda, del resto, anche Salvatore Silvano Nigro nel suo Il principe fulvo, di cui a suo tempo ho parlato qui: https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html). Era amato dai cugini che lo chiamavano «mostro» per la sua vastissima formazione. E «Il mostro» si firmava l’autore de Il Gattopardo quando vergava le sue lettere ai Piccolo. Amava la loro villa perché vi ritrovava l’atmosfera che aveva respirato durante l’infanzia e di cui rimane traccia nei suoi Racconti. Avrebbe desiderato tornarvi, come testimonia una sua lettera scritta quando era già ricoverato a Roma a causa della malattia: il desiderio rimase tale a causa della morte poi sopraggiunta. I Piccolo e Tomasi furono davvero gli ultimi gattopardi: gli ultimi membri di un’aristocrazia che non era tale solo per ragioni araldiche, ma anche perché era il riflesso di un modo superiore di sentire. Poi  ̶  come Tomasi del resto scrisse nel suo romanzo a proposito del principe Fabrizio Salina  ̶  avrebbero preso il sopravvento jene e sciacalletti (insieme al frac, dal taglio mostruoso, che Calogero Sedara indossa per il suo ingresso ufficiale in casa Salina).

Quanto fin qui riferito non è affatto esaustivo dei contenuti del libro, ma sarebbe ingiusto rivelare al lettore le vicende di Giulio e dei Piccolo, quelle di altri personaggi tra i quali riveste un ruolo decisivo Edith, un’interessante e alquanto inafferrabile studiosa che prende parte allo stesso convegno cui anche Giulio è stato invitato. Fin d’ora si sappia però che Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata è  ̶  al di là della ferrea e documentata ricostruzione dei rami paterno e materno dei fratelli Piccolo, spesso colma di particolari inediti o comunque ignoti ai più  ̶  un libro in cui la visionarietà di Casimiro viene significata con una prosa elegante e leggera: Alberto Samonà (che forse ha trasfuso parte di sé in Giulio, erede ideale di Casimiro) ha scritto un raffinato, colto e appassionato divertissement.

Ivo Flavio Abela

giovedì 2 giugno 2022

Il disincanto e la notte delle parole (articolo pubblicato su «La Sicilia» il 9 giugno 2022)

La periferia di Milano. Il boschetto dei tossici vuoto: appena sgomberato dagli sbirri. Il cavalcavia della tangenziale. I mezzi che vi sfrecciano verso non si sa quale meta. Gli ultimi sprazzi di luce tra le nuvole. Una donna sta morendo di droga: è solo un mucchio di ossa che si abbandonano. Non percepisce la propria agonia. Muore desiderando ancora un’altra dose. Il cielo è grigio e sta per colmarsi di buio in un giorno tra inverno e primavera. Tale la situazione che Roberto Pecoraro ci presenta nell’incipit del suo Breath, appena pubblicato da Algra Editore. Il libro (e mi limito a definirlo semplicemente così o  ̶ occasionalmente  ̶ “testo”, poiché Breath non è incamerabile in uno specifico genere letterario. E del resto a che cosa servirebbe ascriverlo a una categoria definita?) è ambientato in una Milano fredda e meccanica, in cui domina un grigio esanime che ora si dissolve sinesteticamente in un iper-ricorrente vuoto, ora vira verso il nero della caligine: dello smog che intacca, marchiandola di cinereo, la pelle di tossici e zingari.


Si snoda quindi una teoria di personaggi, ciascuno con il proprio brandello di vita. Si intravede la possibilità che quei brandelli possano più avanti ricomporsi in un’unità sistemica come tessere di un puzzle. Ma l’io narrante non riesce a non prendere parte a ciò che racconta e inizia a manifestarsi, tra un personaggio e l’altro, dedicandosi qualche pagina: prima quasi timidamente, poi in modo massiccio fino ad impadronirsi della scena e a defenestrare il tossico, la cameriera d’albergo, il volontario, la zingara, l’imprenditore, il suo anziano padre. In verità l’io narrante (e l’autore, poiché è difficile distinguere l’uno dall’altro) compie un sacrifico: la rinuncia a quella che  ̶ secondo i presunti parametri di un lettore ipotizzato  ̶ è la narrazione, il rifiuto di dominare i personaggi piegandoli alla propria regìa. Ed essi vengono lasciati liberi di vivere la loro vita. Perché di fatto essi vivono di vita propria, se è vero che talvolta Pecoraro dichiara che non sa che cosa ne sarà di loro e che lo scoprirà man mano che la sua scrittura progredirà. Letteratura e vita appaiono, così, quasi incompatibili. Inutile chiedersi quale sarà allora il futuro dei personaggi di Pecoraro. Non lo sapremo mai perché lo stesso Pecoraro rinuncia a indagarlo. Sappiamo solo che continueranno a vivere al di là di Breath, in una dimensione immateriale quanto informe, come informe e immateriale è tutto ciò che ci è ignoto. Ed è così che Breath diventa scavo introspettivo sempre più profondo e ampio, al punto da assumere la forma dell’espressione lirica di un se stesso che finora si è sentito costretto a fare letteratura, cioè (nel caso di Pecoraro) a scrivere da narratore.


Il rifiuto della letteratura: Pecoraro quasi si ribella. Vuole esprimersi tramite le parole, ma rivendica la libertà di usarle come crede. Il suo linguaggio assume una carica fortemente metaforica. Non può essere che così, soprattutto quando egli insegue le libere associazioni che si creano nella sua mente. Continuano  ̶ è vero  ̶ a essere prodotte proposizioni compiute e definite. Ma la loro giustapposizione rende labile il confine tra monologo interiore e flusso di coscienza (nonostante l’uso dell’interpunzione). Quando ciò accade, anche la lingua perde la citata carica metaforica: il portato dei traslati si annulla perché, lungo lo snodarsi delle catene di libere associazione  ̶ in cui non esiste logica se non quella blanda dei moti dell’animo  ̶ il linguaggio stesso finisce per essere sottoposto a un trattamento denotativo-referenziale, che traduce fedelmente sulla carta quelle stesse catene associative. L’approdo alla lirica arriva presto: ampi stralci del testo passerebbero per poesia, se solo fossero concepiti metricamente alla stregua di versi poetici.


Rinuncia alla narrazione, abbiamo visto. Urgenza di usare le parole con l’unico limite di rispettare il meccanismo emotivo grazie a cui la mente tesse le catene associative. E se tutto ciò fosse solo la spia di un’esigenza di silenzio? Tacere per potere vivere e per lasciare che altri (i personaggi) vivano senza essere “spiati” dall’autore? Forse è così, se pensiamo che il testo di Pecoraro ci svela anche il “laboratorio” dell’autore: i suoi pensieri, il suo rapporto con lo stesso testo in fieri, la strategia compositiva, le false partenze, le riformulazioni, i dubbi, le scuse al lettore per il modo di trattare le vicende, l’abbandono del lettore stesso che a un certo punto inizia a sentirsi un po’ disorientato. Ma proprio il disorientamento porta il fruitore a comprendere l’esperimento (non so quanto il termine possa essere appropriato, ma non riesco a trovarne un altro) condotto dall’autore. Insomma Breath merita di essere letto per capire che cosa sia possibile fare tramite la letteratura, anche quando l’autore vuole rinunciarvi.


Ivo Flavio Abela








lunedì 10 gennaio 2022

"Scrivere a destra". Ovvero di quella letteratura novecentesca obliata e ora riportata alla luce da Antonio Di Grado

Non una recensione, ma una carrellata sui temi e i nomi che Antonio Di Grado affronta nel suo "Scrivere a destra" (Giulio Perrone Editore, 2021): saggio eccellente su parte della letteratura novecentesca (compresi alcuni autori, per così dire, di nicchia, se non addirittura oggi ignoti ai più), spesso marchiata come fascista, ma in realtà fatta da scrittori che - nel loro ondeggiare ora verso il MSI, ora verso il PCI; un po' verso i partigiani, un po' verso le lodi al duce - sono ideologicamente non etichettabili. Ripeto: la loro a volte temporanea adesione al Fascismo li ha non solo segnati al punto da decretarne il mancato ingresso nel canone, ma anche sepolti nell'oblio (chi conosce oggi, lungo tutta la penisola, Pettinato?). Poi ci sono anche gli arcinoti: Malaparte, per esempio, che non è stato comunque risparmiato dalla deriva di una memoria viziata: relegato più al rango di un originale esteta che di uno scrittore vero e completo.

Curzio Malaparte
Uno dei passi più belli in cui m'imbatto subito riguarda proprio Curzio Malaprte e la sua presunta equivalenza con il Woland di quel capolavoro eterno che è "Il maestro e Margherita" di Bulgakov. Pare infatti (personalmente lo ignoravo) che Malaparte e Bulgakov fossero legati da amicizia e che proprio a Malaparte Bulgakov si fosse ispirato per tracciare il personaggio del diavolo Woland (io ero certo che Bulgakov si fosse invece ispirato al Settembrini de "La montagna incantata" di Mann, ma evidentemente era solo una mia impressione). "Malaparte sarebbe dunque il diavolo?" si chiede il prof. Di Grado. Sembrerebbe di sì. E mi piacerebbe molto sentire, a tal proposito, il parere di Igor Sibaldi che, nella sua Prefazione a una delle edizioni del capolavoro di Bulgakov, sottolinea che Woland andrebbe identificato piuttosto con Stalin, al quale pure lo scrittore si rivolse per evitare l'esilio.

Proseguendo con la lettura, leggo ancora che nel 1931 vengono diffusi i risultati di un "Censimento degli scrittori fascisti" pubblicato da "Oggi e domani" e il canone proposto in "Antologia degli scrittori fascisti", curata da Mario Carli e Giuseppe Attilio Fanelli per Bemporad. Se ne deduce che, per essere un vero scrittore fascista, fosse necessaria "l'obbedienza cieca allo Stato fascista e alle sue direttive". Insomma occorreva essere "apologeti del regime". E tra questi apologeti figuravano anche il D'Annunzio dell'impresa di Fiume e Rosso di San Secondo, sui quali però pesava un pregiudizio di conformismo. Proprio a tale conformismo intendeva sottrarsi Berto Ricci (la cui prosa polemica richiamerebbe Férdinand Céline). Tre elementi lo caratterizzavano: apparire incarnazione dell'archetipo Junghiano del "puer", ovvero di quella personalità capace di gettare un ponte fra un presente minacciato di sradicamento e un passato permeato di autenticità; l'attacco, ad onta del Concordato, alla Chiesa e al Cristianesimo, ridotti - secondo Ricci - a un coacervo di raccomandazioni banali e privi di nerbo, ben lontane dalla forma di autentici precetti miranti a correggere la vita vera degli individui (di certo - aggiungeva - sarebbe stato preferibile ciò che avveniva ai tempi di San Francesco e di papa Innocenzo, quando corruzione e concubinato caratterizzavano la condotta dei pontefici e del clero, ma il Cristianesimo appariva ancora autentico); l'esaltazione di una natura che non esclude l'urbanizzazione tipicamente invasiva dei tempi moderni, poiché non si configura quale ipostasi di una vagheggiata arcadia "temporis acti". In simile quadro si collocano anche gli attacchi di Ricci a Ugo Ojetti, nonostante quest'ultimo fosse un fascista convinto, ma la sua scrittura era densa di luoghi da "sarcastica cronachetta da Guareschi ante litteram" e di certo non poteva trovare apprezzamento presso un agitatore di frusta, quale Ricci era.

Rosso di San Secondo
Contemporaneamente s'innestano, sulla scena letteraria di quegli anni, il già citato Pier Maria Rosso di San Secondo e Ruggero Vasari, aderenti al fascismo, ma frequentatori di una Berlino fucina mitteleuropea di avanguardie (la stessa cui era approdato Pirandello in un felice tentativo di non rimanere confinato in quello strato di letteratura provinciale, campanilistica, che forse, a causa della permanenza in un'Italia dai variegati e labili contorni letterari - del resto permeata di dannunzianesimo e di slogan inneggianti al duce - avrebbe finito per inghiottirlo). Rosso di San Secondo, in particolare, pur guardando a quell'oltralpe su cui si stagliavano nuovi giganti come Thomas Mann, fu comunque un vero fascista all'italiana, salvo poi mettere subliminalmente in dubbio l'efficienza della macchina fascista di sorveglianza delle città, cosa che fa in un romanzo quale "Periferia". In esso si materializza l'urlo disperato che, dai centri di ogni urbe, si sposta nelle periferie, informando il disagio e la voglia di ribellarsi alle ingiustizie. Il romanzo di Rosso di San Secondo partecipa di quest'universo di disagiati e sbandati che popolano tanta letteratura degli anni Venti e Trenta (e del resto il fascismo fu il rifugio di tanti di quei disadattati). Ricci fu tutto questo: fascista, mitteleuropa, critico del fascismo stesso, tanto da portare Montanelli a dire che Ricci "rappresenta l'archetipo della nostra giovinezza: un cumulo di errori che siamo ben felici di avere commesso".

Le personalità letterarie di quegli anni - fasciste? Non fasciste? Coerenti? Incoerenti? Frustrate? Deluse dal positivismo? - cercavano forse un interprete, un garante, un araldo che diventasse loro padre. L'esempio di Mario Puccini è fortemente significativo: egli offrì epistolarmente la possibilità di farsi carico di tale paternità a un indifferente Giovanni Verga, che però preferì chiudersi nella solitudine del letterato "aristocratico". Fu allora De Roberto (soprattutto quello di "Spasimo"), quasi a sorpresa, colui che parve accettare tale ruolo. Bellissime, poi, le pagine dedicate a Francesco Lanza da Valguarnera, autore dei gustosissimi (sebbene di gusto a volte un po' amaro si tratti) "Mimi siciliani".

Francesco Lanza
Di Grado attinge poi al Leopardi riflessivo filosofo (mi rendo conto che la formula è densa di tautologia, ma tant'è: questi miei sono semplici appunti) del "Dialogo della natura e di un Islandese", che si conclude con la tragica scomparsa del secondo: il Leopardi, cioè, lodato dai rondisti per la sua bella prosa, i quali però fraintesero il recanatese e Francesco Lanza se ne rese presto conto. Non è un caso che, pur consapevole dell'ineluttabile ciclicità quasi meccanica della vita (quella ciclicità che comprende anche è soprattutto la fine e la morte), fece in modo che non se ne rendessero conto i personaggi dei suoi mimi, costringendoli alla rassegnazione: quella di soccombere al pari dell'Islandese di Giacomo. L'esempio è presto fatto: la Luna (quella che stava silenziosa in cielo e cui il pastore errante rivolgeva domande ancora da filosofo, prendendo a prestito l'esempio dei guslari) in Lanza splende come un sole diurno e si riflette sull'acqua del pozzo. Sicché, quando l'ignaro asino beve dal pozzo stesso, non ingurgita solo l'acqua, ma pure la luna stessa e perciò viene battuto, fino alla morte, dal padrone che gli intima di vomitarla perché gli serve. Non è forse questa una scena di quelle che si legano all'universo di disgraziati, di cui s'è già detto alcune righe sopra?

A ciò si aggiunge la scristianizzazione di tutto l'armamentario di immagini, simboli e sacramentali del Cristianesimo, che sembra riportare l'uomo a una fase ancestrale, nella quale il "cruento", l'onnifago (e spiccatamente l'antropofago), il sacrificio delle vittime, costituiva ciò che oggi potrebbe essere reputato l'origine del culto, anzi di ogni culto (per una curiosa coincidenza, sto in contemporanea completando la lettura de "La filosofia del culto" di Pavel Florenskij, in cui tale tema è discusso con un acume straordinariamente illuminante). Ecco perché, tornando all'assunto iniziale, Lanza non poteva rimanere rondista (e non poteva certo amare il Leopardi filtrato dall'equivoco ermeneutico dei rondisti stessi, ma quello vero, originale) e si avviava verso il pieno di quel realismo espressionistico che avrebbe permeato gli anni Venti e Trenta. Insomma: Lanza... fascista sì, ma anch'egli in modo affatto suo. Fascista perché la terra (e i bisogni primordiali dell'uomo ad essa connessi) era un archetipo adottato dai fascisti: quella terra che appare per sineddoche fin nel titolo di "La zolla" di Lucio Ugolini (romanzo autenticamente fascista - ci avvisa Di Grado - e permeato di quel populismo che va inteso nella sua accezione originaria e non in quella che ha assunto oggi: un'accezione che ci riporta ossimoricamente in terra di Russia); ancora quella terra che risulta "di nessuno" nel film del '39, la cui sceneggiatura sarebbe stata scritta da Stefano Pirandello, il figlio di Luigi, insieme ad Alvaro: vi appare "popolata di archetipi", tra i quali la morte la fa da padrona, ad onta delle bonifiche strombazzate e realizzate dal regime. Quella è la terra di Sicilia: "irredimibile" (nonostante il Duce) e protagonista (non solo sfondo, ma autentico personaggio, infatti: credo sia bene sottolinerarlo) della nascitura narrativa del neorealismo. Lanza partecipava di tutto ciò anche per ragioni (traumaticamente) autobiografiche che, forse ancor più che nei citati autori, lo condussero a rievocare un Leopardi non tanto maestro di prosa, quanto nichilista e anzi vessillifero di morte. E quella morte ghermì, del resto, il mimografo nella tanto vituperata Valguarnera, dov'era stato condotto (una volta appurato a Catania, dove alloggiava all'albergo Sangiorgi, che poco o nulla rimaneva ormai da fare).

Margherita Sarfatti
Ma ecco le donne: Ada Negri, Grazia Deledda (sebbene la scrittrice sarda tendesse a recuperare certi archetipi rurali e non proprio a magnificare la campagna e la natura), Sibilla Aleramo (ondivaga tra protofemminismo e ripensamento, tra antifascismo e fascismo per fame, per finire togliattiana). Su tutte si erge l'ideatrice dell'armamentario simbolico fascista: Margherita Sarfatti, seconda cugina di Natalia Ginzburg, nonché biografa e amante di Mussolini (infine costretta a lasciare l'Italia dal '38 poiché di famiglia ebrea). Ma già da nove anni Mussolini l'aveva ripudiata, rifiutandosi di approvare "Novecento", frutto di un'inventiva che evidentemente aveva male interpretato le vere intenzioni di Mussolini (e dire che la Sarfatti riteneva che il respiro europeo ed artistico di "Novecento" potesse giovare pure al fascismo). Emblematica la biografia di Benito da lei scritta, fin dal titolo - laconico e icastico - "Dux". In essa a Mussolini vengono attribuite improbabili ascendenze che procedono a ritroso nel tempo fino ai capitani del popolo del Medioevo e Benito risulta verace figlio del mondo contadino; il tutto è condito con una lingua "fascista", cioè fatta di lessemi e stilemi da letteratura ottocentesca che trova infine in Carducci e Pascoli il suo apice, ma procede narrativamente "per sincopi, pause ed ellissi". Eppure qualche passo falso la Sarfatti lo compie: la stigmatizzazione del delitto Matteotti con il conseguente grande imbarazzo del regime, nel cui seno la donna aveva forse creduto "di inaugurare un vernissage, e di esporvi una scultura".

Antonia Pozzi
Un altro nome va fatto: Antonia Pozzi, morta suicida a ventisei anni, soffocata dal controllo oppressivo di un padre che, del resto, pose il veto alla diffusione della poesie della figlia anche dopo la morte di quest'ultima. Potrebbe stupire la sua menzione in un saggio dedicato a chi "scriveva a destra", poiché nulla di più lontano dal fascismo v'era nella poesia della giovane lombarda, ma vero è che la Pozzi riuscì a tessere frequentazioni con l'intellettualità maschile più vivace e in vista del suo tempo e fu esponente di un filone spiccatamente settentrionale ed europeo che si contrapponeva a quello, idealistico, dominante dal centro della penisola in giù. E se il suo amato Rilke sottolineava quanto fosse necessario scrivere poesia solo dopo avere davvero vissuto ed esperimentato in ogni ambito dell'attività umana (vita, appunto, e ancora pensiero, azione ecc.) - e dunque praticamente alla fine naturale della propria esistenza - è vero però che la Pozzi, mettendo fine alla propria vita appena superati i venticinque anni, forse credette di essere vissuta troppo a lungo e di avere completato il suo ciclo biologico-esistenziale, sebbene giovane. E così si riservò il diritto di poetare, nonostante Rilke. Va del resto sottolineato che i versi della Pozzi contengono una riflessione che assume i tratti della meditazione quasi religiosa, se è vero che vent'anni più tardi fu la cristianissima Cristina Campo a interessarsene. Il "catalogo delle donne" scrittrici e poetesse di Di Grado non si esaurisce certo con i pochi nomi fatti: altri ve ne sono e tra questi emerge la Paola Masino di "Periferia" e "Nascita e morte della massaia", che in verità mettono in discussione certi punti fermi della propaganda fascista. Ma non si può qui rendere conto dell'enorme messe di nomi e opere che Antonio Di Grado cita in questo suo saggio corposo e acutamente illuminante. Per cui mi permetto un volo pindarico che ci riporta nell'alveo del cosiddetto romanzo protestante a partire da Giorgio Spini e da Calogero Bonavia, interpreti di quella fronda di cultura evangelica che si contrapponeva alla cultura cattolica, ormai egemone grazie proprio al fascismo a partire dal Concordato. Si tenga qui presente, del resto, che furono i valdesi ad alimentare "il primo nucleo della resistenza armata".

Non registro alcun dato sulle rimanenti pagine, non perché non m'interessino (tutt'altro, giacché Vittorini, Brancati, Micheli, Salvatore Battaglia - primo maestro dell'autore - e la disamina del '68 sono notevoli): semplicemente vanno lette e sviscerate in modo molto attento e contengono anche un po' del canone a noi già noto.

Saggio eccellente, consigliato soprattutto a chi è disposto a rinunciare ai giudizi, alle etichette, ai cliché: a chi, usando quella stessa umanità cui l'autore ai appella nel finale, accetta la letteratura tout court, cioè rinunciando all'esercizio di pregiudizi ideologici e appellandosi a una comprensione per via filologica di quanto i tanti autori passati in rassegna da Di Grado ci hanno lasciato in eredità.

Ivo Flavio Abela