domenica 9 maggio 2021

Un Icaro poeta. Ovvero Sebastiano A. Patanè Ferro in «Gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci)»

Un passato che viene insistentemente evocato. Non perché se ne abbia nostalgia o si desideri regredire fino a illudersi di ricreare una condizione intrauterina. Ma perché adesso (col senno del poi e grazie alle esperienze accumulate lungo il cosmopolita scorrere di una vita avventurosa) ogni evento vissuto può trovare la propria collocazione. Tale sembra l'assunto su cui si basa Gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci) di Sebastiano A. Patanè Ferro, appena edito da Edizioni Smasher con la prefazione di Anita Resuli e le Due parole introduttive dello stesso autore. Vi confluiscono due sillogi: la prima, Dell'assenza, contiene quindici liriche; la seconda, che dà il titolo al libro, ventisei. L'idea di accostarle nella pubblicazione ci viene spiegata da Patanè: tutto ciò che del passato non esiste più - e che l'autore evoca ricorsivamente nella prima raccolta - ha lasciato il vuoto, anzi l'assenza che è la protagonista dell'oggi e della seconda raccolta. Epperò a me sembra che nella seconda silloge l'assenza sia soprattutto quella di un amore che è svanito e la cui importanza l'autore non aveva ancora del tutto svelato nella prima.

Fin dalla prima lirica si palesano oggetti che del tempo trascorso recano i marchi: la consunzione e un'indifferenza tanto incolpevole da assumere i tratti di un'innocenza edenica. Non sono essi i colpevoli del nulla odierno, né si sono perduti per propria iniziativa. L'io poetico vuole vestirsi di quella stessa indifferenza, ma per motivi di comodo: essa gli permetterebbe forse di ignorare la propria incapacità di piangere (eppure l'io poetico vorrebbe piangere e a quegli stessi oggetti del passato si rivolge affinché gli dispensino proprio il pianto). Il vuoto, il nulla, l'incapacità di sentire e vivere emotivamente sono amplificati dalla consapevolezza della propria finitezza rispetto all'immensità del vento, al silenzio della distesa di un mare di grano e al numero indefinito di valli verdeoro (questo verdeoro deve essere una miscela cromatica particolarmente evocativa per noi mediterranei che fummo greci: chrysoprasino, cioè appunto verdeoro, è pure la foglia cui viene paragonata l'isola di Cipro in una vecchia canzone musicata da Mikis Theodorakis). Lo sguardo del poeta si rivolge non solo agli oggetti, ma anche alle creature animate e, prima fra tutte, all'origine di se stesso: il padre con cui ciascun uomo s'identifica. La sua disorientante mancanza, sancita da un «abbraccio perso nell'ultimo cuscino», viene avvertita come ciclicamente ineluttabile e dunque come legge che è bene accettare («io stesso sarò altrove quando mio figlio chiederà di me»). Il poeta risale ancora alle fiabe e ai passatempi dell'infanzia (quando giocava a ritagliare le figure di carta in serie): insomma al tempo in cui ancora i versi non erano arrivati. Neppure questi ultimi sono riusciti poi a resistere allo scorrere del tempo e a trasformarsi in presenza per l'oggi; i fiori, chiamati in aiuto come bocche capaci di aprirsi al passato per interrogarlo, sembrano riuscire meglio nell'impresa (più avanti saranno addirittura capaci di riempire fogli bianchi).

Nel compiere simili tentativi di recuperare il passato si profila l'Icaro poeta. Non può essere casuale il ricorrente motivo delle ali: il volo costituisce un altro elemento di raccordo tra la prima e la seconda silloge. Ma le ali sono «con scadenza», come se la possibilità di volare fosse concessa al poeta sempre a tempo e con l'ovvia raccomandazione di non volare troppo vicino al sole. Non perché rischierebbe di fare sciogliere la cera, ma perché la luce potrebbe repentinamente spegnersi («tutta la luce infine è solo una candela»). Allora egli non precipiterebbe perché ha osato troppo, ma perché rimarrebbe privo della capacità di vedere: il buio - se mai fosse possibile - renderebbe il vuoto ancora più vuoto, amplificando l'assenza. Il poeta raccomanda a se stesso prudenza: perfino le ali degli angeli sono state «accecate».

Una scena del film Lo specchio.
Poco prima una voce fuori campo
recita il testo di Arsenij Tarkovskij,
padre del regista Andrej,
da cui sono tratti i versi citati a fianco
Quando poi gli angoli «aprono i loro acuti per ingoiarci e scaraventarci», il poeta s'irrigidisce e diviene acqua che non scorre, ma vede semmai scorrere i ponti sopra di sé. Impossibile è ogni ritorno: «Cosa mi chiedi adesso / che in tasca ho solo chiodi / e nemmeno un mezzoeuro per la fontana». Icaro dichiara candidamente: «non ho ali che possano dolermi [...] e io poi non cado». Ma forse vuole solo dire che non cade più, come gli accadeva in passato. Siamo nel pieno della seconda silloge e in «quando si sollevarono in volo i corvi lasciarono grani di nero tutt'intorno» assume consistenza quel vuoto d'amore causato da un destino avverso e sinistro (chissà perché ho ripensato a due versi di Arsenij Tarkovskij: «Quando il destino seguiva i nostri passi, / come un pazzo col rasoio in mano»). Arriva la sera con l'usato profluvio di pensieri, quando il cielo stesso appare «così compatto così malato così estraneo». Quando si deciderà il tanto amato passato a raggiungere e a soccorrere il presente del poeta?

Ivo Flavio Abela


Aggiunta del 27 maggio 2021

Ho appena appreso che da questa notte Sebastiano non c'è più. Meno di due settimane fa mi aveva parlato di un'ernia cervicale che forse si era "risvegliata" con forza e aveva aggiunto che avrebbe dovuto sottoporsi a una serie di controlli. Mi aveva anche detto che non gli sarebbe stato facile farsi vivo. Proprio ieri pomeriggio avevo provato a inviargli un messaggio perché mi sembrava comunque strano non avere più ricevuto sue notizie. Naturalmente il messaggio è rimasto senza risposta. Oggi io sono (siamo in tanti, a dire il vero) disorientato e sconvolto da questa notizia. Mi resta, tuttavia, la gioia (purtroppo effimera, ma sempre gioia è) di avere scritto questo pezzo per lui e di sapere che aveva fatto in tempo a leggerlo e a esserne felice.