sabato 19 novembre 2022

Dostoevskij: intrecci tra arte figurativa e letteratura in nome di Cristo

La complementarità tra l'iconografia ortodossa e certa pittura religiosa occidentale (anche quella rinascimentale di sapore luterano) è uno degli elementi più originali in cui mi sia capitato di imbattermi da quando mi interesso di iconografia ortodossa. L'analisi che Tat'jana Kasatkina realizza nel suo È Cristo che vive in te. Dostoevskij. L'immagine del mondo e dell'uomo: l'icona e il quadro mi ha conquistato. Le righe che seguono saccheggiano ampiamente il testo appena citato a partire dal confronto che la studiosa russa istituisce tra la Vladimirskaja e La Madonna col Bambino e il grappolo di Lucas Cranach il Vecchio.

La prima sporge direttamente dal mondo divino, dallo spazio di Dio, per ascoltare la supplica di colui che la contempla; la seconda protegge lo spazio della creazione terrena divina (non è un bisticcio di parole), ponendosi davanti ad esso, per fornire al contemplante la soluzione; la prima pone la domanda e la seconda la risposta. In entrambe Cristo è la chiave: occupa infatti il posto della "seconda stella" nella prima (tre in genere sono le stelle quante le Persone della Trinità); nella seconda accoglie il dono della madre (il grappolo d'uva, simbolo della moltitudine, cioè dell'umanità, costituita da tanti individui, cioè gli acini) e vi ripiega sopra la propria mano in segno di protezione. E il vulcano (monte dalla cima spezzata) che si vede nel dipinto di Cranach sembra pure richiamare il monte che Abramo vede alle soglie del Paradiso (così com'è raffigurato nelle icone bizantine). Ma pure la piccola sorgente d'acqua che sgorga dalla pietra (una pietra, non a caso, sepolcrale), dettaglio che si coglie osservando l'angolo in basso a sinistra dell'opera di Cranach, altro non è se non la sorgente della vita (la Fonte della Vita, come tale rappresentata su varie icone ortodosse).

Che Dostoevskij tenesse presenti alcuni capolavori pittorici di tutti i tempi è del resto dimostrato da certi schizzi che accompagnano i suoi scritti. Per esempio dal «tempio gotico, che indica tutto l'impeto dell'uomo verso il Cielo, coperto da una cupola ortodossa, il Cielo che discende sull'uomo» (Kasatkina), disegnato dallo scrittore su una pagina degli scritti preparatori per I demoni. Noi fruitori dell'opera d'arte siamo chiamati a osservare le immagini e i personaggi creati dall'artista. Ma a differenza di quanto siamo abituati a pensare - l'artista crea l'opera e il pubblico partecipa alla costruzione del suo senso poiché a ciascuno l'opera suscita sentimenti, emozioni, ricordi discendenti dall'esperienza personale - non siamo chiamati a interpretare l'opera in termini personali, bensì nell'unico senso possibile che l'artista le ha conferito. Dostoevskij ci chiede di decodificare, in sostanza, l'opera d'arte traendone l'unica interpretazione possibile: possibile, beninteso, dal punto di vista dell'artista perché è lui che "ha gli occhi", che vede perché sa vedere, che è il tramite del senso e perciò ce lo offre. L'artista può dirsi vero se le immagini e il senso che ha trasfuso nell'opera vengono colti dal pubblico esattamente come egli li ha concepiti: per ciò che egli ha voluto esprimere. Se così stanno le cose, dobbiamo interpretare la sua opera in modo univoco. Il compito richiesto al fruitore è impegnativo: siamo tutti all'altezza? Perché stando agli esempi che seguono, non è detto ci si possa riuscire.

Icona di Elena Čerkasova
(nata a Mosca nel 1959)
Una ventenne, la Kornilova, aveva gettato dalla finestra la figliastra e questa era miracolosamente rimasta illesa. La donna era subito andata a denunciarsi al distretto di polizia ed era stata condannata. Dostoevskij scrisse a Masljannikov, il quale lavorava nel distretto in cui il caso poteva essere riesaminato. E gli chiese proprio la riapertura del caso: per lui la donna aveva agito perché affetta da disturbi dovuti a una gravidanza (e il fatto che fosse andata a denunciarsi poteva essere considerato prova del suo rientro in se stessa). Perché Dostoevskij prese a cuore quella donna?

Agì come colui che deve immergere nella piscina di Betzaetà, quando un angelo discende ad agitarne l'acqua, il malato che spera di essere guarito. Ma ve ne fu uno che si lamentava perché non aveva nessuno che lo immergesse nell'acqua miracolosa. Quest'uno dovette attendere Cristo. E allora perché non assumere il ruolo di colui che può aiutare il prossimo ad immergersi? Perché non farsi strumenti dell'azione di Cristo, in attesa che egli torni tra di noi? Masljannikov era per Dostoevskij colui che poteva immergere nell'acqua di Betzaetà la Kornilova, visto che in quel momento l'angelo di Dio stava agitandone l'acqua. E tale sarebbe il senso dell'immagine bi-composta che Dostoevskij crea: essa è formata dall'eternità e dall'acronia del racconto evangelico, ma anche dall'immersione nella contemporaneità. In fondo è questo ciò che interessa a Dostoevskij: individuare nell'artista colui che "ha gli occhi" per riconoscere nel contemporaneo (il quotidiano) ciò che è eterno e assoluto. Ed è così che egli costruisce i suoi personaggi.

La lavanda dei piedi in un'icona ortodossa 
Nelle Memorie di una casa morta Dostoevskij parla della banja, rendendola tale quale un inferno: Gorjančikov vi entra e rimane sconvolto dal suono delle catene trascinate sul pavimento, dalle oscenità che pronunciano e urlano quanti vi si trovano, dal sudiciame che scorre ovunque, dalle spaventose cicatrici impresse sulla pelle delle schiene. Un uomo che non è certo un servitore, Petrov, vuole prendersi cura di lui. Lo aiuta a spogliarsi e a detergersi fino ad arrivare ai suoi piedi, anzi ai suoi "piedini": così Petrov definisce i piedi di Gorjančikov, sebbene non se ne capisca ancora il motivo. Per un momento Gorjančikov vorrebbe impedire e Petrov quest'ultima azione, ma poi riflette e dice a se stesso che è senz'altro bene lasciarlo fare.

Nell'inferno più profondo Dostoevskij crea dunque uno squarcio riempiendolo di Paradiso. Poiché il gesto di Petrov è un gesto divino che del resto richiama la lavanda evangelica dei piedi e Cristo il quale dice a Pietro che è necessario che egli si lasci lavare i piedi, altrimenti non potrebbe avere parte con lui. Se poi osserviamo l'icona ortodossa proprio della lavanda dei piedi (quella di Rublëv, per esempio), noteremo che l'assenza di prospettiva porta gli apostoli a dare l'impressione di essere divisi in due file l'una collocata sopra l'altra, e Cristo ad apparire di dimensioni sensibilmente maggiori rispetto agli apostoli stessi e a Pietro in particolare. Quelli di Pietro sembrano (sono in verità) "piedini", proprio perché tali li ha resi l'assenza di prospettiva e il punto di vista che insiste all'interno dell'icona. Se ne può inferire che Dostoevskij ha creato un frammento di Paradiso nell'inferno della banja, tessendo anche rimandi extratestuali: ha così dimostrato che non è necessario morire per vedere il Paradiso, perché quest'ultimo è già qui (ricordiamo Florenskij) e lo si può realizzare anche nell'inferno più bieco e profondo, sempre che l'uomo sia disposto ad assecondarne la realizzazione. Petrov ne è la prova. Ma se l'uomo si chiude all'altro, tale realizzazione non può avvenire.

Nel racconto Il bambino alla festa di Natale di Cristo, in un orribile scantinato un bimbo di circa sei anni, vestito con una sorta di vestaglietta, assiste (inconsapevole) alla morte della mamma proprio mentre si celebra il Natale. Quello scantinato è uno dei sinonimi iconici dell'antro che appare sull'icona ortodossa della Natività (si pensi a quella ancora di Rublëv). Maria non ha trovato un ricovero migliore per mettere al mondo il proprio Figlio, così com'è accaduto alla mamma del racconto (che è giunta da lontano col figlio). Il bimbo di circa sei anni che indossa quella vestaglietta richiama, del resto, il Bambino (sorta di adulto in miniatura) che appare nelle icone della Madre di Dio (a partire dalla Vladimirskaja). Egli fugge quindi dallo scantinato e incontra alcuni adulti (l'uomo): nessuno prova per lui la minima compassione. Il bambino, dopo avere pure ricevuto un calcio da un ragazzo grande e grosso, entra in un cortile e si rifugia dietro a una piccola catasta di legna dicendo: «Qui non potranno trovarmi, e poi è buio». Lo troveranno, invece, ma morto di freddo.

Gaudenzio Ferrari
Polittico della Natività
1511

Dostoevskij vuol farci capire che se l'uomo si chiude, impedisce implicitamente al Paradiso di realizzarsi sulla terra. Tutti coloro nei quali il bambino si è imbattuto, prima di rifugiarsi nel cortile, corrono e si danno da fare perché devono celebrare un Bambino che è nato duemila anni prima, rifiutandosi di riconoscerlo in quel bambino di sei anni che tanto ricorda l'infante dipinto sulle icone della Madre di Dio. Il bambino del racconto viene però direttamente accolto da Dio insieme a tutti quelli che sono morti e che hanno sofferto ingiustamente. Per loro vedere il Paradiso è stato possibile solo attraverso la morte, a differenza di quanto accaduto a Gorjančikov, il quale invece ne diventa parte già in terra grazie alla bontà disinteressata di Petrov. I bambini e gli animali hanno del resto qualcosa che li accomuna: l'innocenza. Ma talvolta tale innocenza non viene riconosciuta dall'uomo come segno impresso da Dio.

Guardiamo adesso il Polittico della Natività di Gaudenzio Ferrari e l'icona ortodossa della Resurrezione di Lazzaro: nella prima il volto di Dio è uguale a quello di San Giuseppe («Il Padre è vivo e, finché noi ci fidiamo di Lui [...] si prende cura di noi»), nella seconda il viso di Cristo è simile a quello di Lazzaro («Cristo deve risorgere nell'uomo perché l'uomo possa rivivere»). Ma Dostoevskij va più in profondità, propugnando quello che in realtà è il principio di tutte le icone ortodosse: l'uomo è immagine di Cristo (come tale è stato creato. Ed ecco perché Cristo può essere rappresentato iconicamente). E a questo punto è necessario parlare di Myškin.

Il principe Lev Nikolaevič Myškin, protagonista de L'idiota, rimane colpito dalla strana bellezza di Nastas'ja Filippovna: «Quella bellezza accecante era perfino insopportabile, la bellezza del viso pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi ardenti: una bellezza strana!». La stessa bellezza si ritrova sul viso di Madonna Povertà nell'affresco della Bottega di Giotto. Non sembra un dato casuale né secondario: echi francescani sembrano tornare più volte nel romanzo (del resto anche nei Karamazov Dostoevskij si riferisce a San Francesco chiamandolo «Pater seraphicus»).

Madonna della Povertà
Bottega di Giotto
Prima metà del XIV secolo
Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

Il principe Myškin dice di avere sentito che la sua mente "si snebbiava", quando fu raggiunto dal raglio di un asino («Da allora amo enormemente gli asini» afferma nello stesso passo). L'asino è l'animale in groppa al quale Cristo entra in una Gerusalemme festante pochi giorni della Passione. Ma appare anche nello schema canonico della Natività (non a caso codificato dallo stesso San Francesco). In quella dipinta da Simone dei Crocifissi l'asino è ritratto mentre raglia in modo quasi spudorato: a lui viene affidato dall'artista il compito di urlare al mondo la Buona Novella della nascita del Messia. Se ne potrebbe dedurre che Myškin si svegli interiormente al ragliare di un asino perché l'asino ha assistito al miracolo dell'Incarnazione.

Simone dei Crocifissi
Natività
Ca. 1330-1339
Firenze, Uffizi
In una celebre scena del romanzo, Myškin si reca nell'alloggio di Nastas'ja e la trova nell'alcova, dietro a una tenda verde. Ma qualche giorno dopo tutti coloro che si recheranno a casa della donna vi vedranno lo stesso Myškin, nonché Rogožin colpito da febbre cerebrale, ma di Nastas'ja non sarà detto più nulla: come se il suo corpo fosse scomparso. I due dati sembrano richiamare la Dormizione della Vergine, così come viene rappresentata sulle icone ortodosse. Perché in fondo Nastas'ja rappresenta proprio la Vergine portatrice di grazie.

Ancora Myškin, nel corso del romanzo, vede anche una riproduzione del Cristo morto di Hans Holbein il Giovane (1497-1543). A differenza di quanto si crede, Cristo viene da Holbein rappresentato non morto, ma nel primo istante della resurrezione: le dita della sua destra sembrano iniziare a contrarsi, provocando l'increspatura del lenzuolo su cui il corpo è adagiato. Quelle dita si muovono perché il soffio vitale sta tornando a invadere il corpo del crocifisso. E in quanto alla bocca aperta e agli occhi semichiusi, elementi caratteristici conseguenti in genere al trapasso, ci si dovrebbe chiedere come mai nessuno di coloro che hanno portato il corpo di Cristo nel sepolcro si fosse dato da fare per abbassare del tutto le palpebre e serrare la bocca, prima di lasciare il cadavere in attesa di tornare nel sepolcro stesso, all'alba del terzo giorno, per ungerlo. Ma la bocca sta aprendosi perché torna a respirare e gli occhi pure stanno riaprendosi perché tornano a vedere. Insomma Holbein ha descritto il momento in cui la vita ha ripreso possesso del corpo di Cristo. Perciò il dipinto sembra il contraltare della rappresentazione della morte, cioè dello scheletro umano che fa parte della Trinità di Masaccio, in Santa Maria Novella a Firenze. E se sullo scheletro si legge «Io fu ga quel che voi sete: e quel chison voi anco sarete», la stessa affermazione può valere (significativamente ribaltata) per il Cristo morto (in verità risorgente, come s'è visto) di Holbein: «Io ero come te, ma tu sarai come me (risorto alla vera vita)».

Hans Holbein il Giovane
Cristo morto nel sepolcro
Basilea, Kunstmuseum



Una riflessione ulteriore va fatta per il rapporto tra L'idiota e la Trasfigurazione di Raffaello, nella quale un ragazzo verosimilmente epilettico (si ricordi che Myškin soffre di epilessia, ma ancora prima di lui chi soffre di epilessia è proprio Dostoevskij) viene soccorso alla base della scena. Egli è l'unico che volge i propri occhi al Cristo trasfigurato (anche la bocca sembra aperta più per la meraviglia che per l'attacco epilettico). Si crea così una sorta di filo che lega Myškin al ragazzo della Trasfigurazione, ma Myškin diventa soprattutto immagine di Cristo.

Ivan Karamazov racconta al fratello un fatto che dice di avere letto su una rivista (di cui cita il titolo, sebbene non ricordi quale sia con precisione). Un bambino di otto anni ha involontariamente colpito con una pietra la zampa del levriero preferito di un proprietario terriero che è pure generale. Quando quest'ultimo scopre che il suo amato cane zoppica perché è stato colpito dal bambino, fa prendere quest'ultimo dai suoi uomini, lo tiene chiuso per tutta la notte e l'indomani lo porta con sé e con il suo seguito a una battuta di caccia, durante la quale ordina che il bambino sia completamente privato dei vestiti e che si metta a correre. Quindi lancia i suoi cani all'inseguimento dell'innocente. Il bambino, raggiunto da loro, viene sbranato sotto gli occhi della madre.

Raffaello, Trasfigurazione
Il crudele aneddoto ha un fondo di verità: proprio sul Messaggero russo il fatto è già apparso (e i lettori del romanzo non possono che riconoscerlo, se ne hanno letto la narrazione originale su quella rivista). Ma alcuni dettagli divergono: nella notizia originale il bimbo non muore e semmai sarà la madre a morire pazza per il trauma conseguente alla scena cui ha assistito. L'adattamento dostoevskijano si motiverebbe per ragioni di analogia con i protagonisti della Crocifissione di Cristo, nei termini in cui essa viene raffigurata sulle icone ortodosse. Ne prendiamo a esempio una, in cui il sinuoso movimento delle figure (al di là di una raffinatissima linea dinamica) allude al fatto che, morto Cristo, tutto inizia a vacillare a partire proprio dal genere umano. Esso si piega sotto il peso del dolore e della perdita. Ma Maria rimane ritta in piedi, quasi a significare che non viene meno quella forza che pure l'animò nell'accettare il piano divino all'atto del concepimento di Cristo. Il bambino del racconto di Ivan Karamazov è Cristo e sua madre non impazzisce e non muore, come nella notizia riportata sul Messaggero russo, ma rimane (apparentemente) in piedi, proprio come la Madre dell'icona.

La crocifissione di Grünenwald
La crocifissione
in un'icona ortodossa
Diverso è ciò che spesso accade nelle rappresentazioni occidentali della crocifissione stessa: per esempio in quella di Matthias Grünenwald, in cui non solo la Madre appare disperata, ma risultano anche significativi i dettagli delle mani sue e soprattutto di quelle di Cristo. In esse le dita sono inarcate come artigli: è una visione fortemente impressionante.

Dostoevskij ha però un altro scopo. E possiamo comprenderlo se ci rifacciamo ancora a un episodio narrato, nello stesso romanzo, da Liza Chochlakova. La donna afferma di avere un libro (quale? Dostoevskij non lo dice. Ma potrebbe essere il Vangelo, in cui della crocifissione si parla ovviamente in modo ampio). In tale libro ha letto di un ebreo che prende un bambino di quattro anni, gli taglia prima le piccole dita di entrambe le mani e poi lo crocifigge. Quindi si siede serenamente per osservare tutti i dettagli della sofferenza del bambino fino alla sua morte. La donna aggiunge di avere pensato spesso che possa essere stata lei stessa a crocifiggere il bimbo. E di immaginarsi mentre assiste a quella terribile agonia consumando la sua composta all'ananas. Non è difficile individuare in questo passo del romanzo un certo antisemitismo di Dostoevskij (è stato un ebreo a compiere il misfatto), edulcorato però dal fatto che Liza fa capire che potrebbe essere stata lei stessa la colpevole (tutti crocifiggono continuamente Cristo), senonché la menzione della composta di ananas ci riporterebbe ancora agli ebrei.

Il valore della crocifissione di Cristo è centrale nel romanzo: Cristo è morto per l'uomo e invita quest'ultimo sempre alla sua mensa. Lo dice anche lo starec Zosima al giovane Aleša, il quale (come se avesse realizzato all'improvviso il senso delle parole dell'anziano) cade in una sorta di estasi nell'osservare la straordinaria grazia del monastero col buio della sera. Ho desiderato concludere con la scena dell'estasi di Aleša poiché il monastero in cui Zosima vive è quello di Optina Pustyn', cuore del mio Soggiorno a Optina. Discesa nell'anima russa (Castelvecchi, 2021). Chi lo ha già letto forse avrà individuato, tra le pagine del mio libro, alcuni dati coerenti con la lettura che Tat'jana Kasatkina ci ha fornito di Dostoevskij.

Ivo Flavio Abela

martedì 1 novembre 2022

Quello snob di terzo tipo di Gaetano Cappelli...

Nel suo Lo snob nella società dello snobismo di massa (Oligo Editore, 2022), Gaetano Cappelli ci racconta di avere chiesto, mediante un post pubblicato sulla sua bacheca Facebook, chi fosse lo snob. Con una certa sorpresa, vista la quantità di risposte ricevute, ha dovuto concludere che essere snob non è affatto percepito come negativo. Tutt’altro. Perché lo snob è colui che, pur immerso nella massa (oggi) dei social, la rifugge, affrancandosi da cliché, da stereotipi, da “pensieri unici” (a ben vedere non ne esiste uno solo), da regole quali quelle imposte dal politically correct (efficacemente definito «la sharia dell’Occidente»). Ne vengono fuori gli snob di primo, secondo e terzo tipo (magnifico questo terzo tipo). Tale classificazione è il punto di approdo di una storia che Cappelli ricostruisce, facendola iniziare con William Makepeace Thackeray che, alla metà del XIX secolo, per primo usò il termine “snob”, poi enantiosemicamente giunto all’accezione che gli viene attualmente conferita.

Oggi, peraltro, l’universo dei social ha fatto sì che nascesse una vera e propria generazione snob (se Levy insisteva profeticamente sull’intelligenza collettiva, Cappelli può a buona ragione parlarci di snobismo collettivo). Va da sé che la natura dello snobismo di massa non può essere omogenea (i cretini veri continuano ad esserci tanto nel modello di Levy, quanto in quello di Cappelli) e certe azioni risultano più risibili che snob (alcuni nomi illustri cadono sotto gli attacchi della sua penna, come quello di colui che finisce per preferire uno sciroppone, il Lambrusco, allo champagne), ma il denominatore sembra comune. E così si arriva al ritratto di uno snob che si compiace del pop (Warhol ne è fisiologicamente esempio sublime), ma detesta proprio quella massa di cui, suo malgrado, è parte. E detesta pure le parole inflazionate che a quella massa rimandano: mainstream, per fare un esempio, senza per ciò giungere a diventare undergroud (pare a chi scrive di potere inferire), forse perché pure l
underground è ormai di massa tanto quanto. Non parliamo poi delle campionesse di quel femminismo che, volendo apparire impegnate quanto le femministe storiche, si profondono in affermazioni che sembrano barzellette e si danno a presunte battaglie di un donchisciottismo maestosamente idiota (e chi scrive si sta limitando a stringere, perché teme di non riuscire a rendere giustizia al libro di Cappelli, se non rimandando alla sua lettura diretta).

Cappelli ha scritto un piccolo libro leggero, arguto, accattivante, sublimemente sferzante. Eppure alla base ci sono una nutrita e impegnata bibliografia e un approccio da sociologo della comunicazione (ovviamente) di massa. Anche se rimane il larvato sospetto che questo caleidoscopico sferzatore e arbiter elegantiarum abbia preso un po’ tutti per i fondelli, compreso se stesso (lo dice alla fine). Ma soprattutto noi.


Ivo Flavio Abela