lunedì 10 gennaio 2022

"Scrivere a destra". Ovvero di quella letteratura novecentesca obliata e ora riportata alla luce da Antonio Di Grado

Non una recensione, ma una carrellata sui temi e i nomi che Antonio Di Grado affronta nel suo "Scrivere a destra" (Giulio Perrone Editore, 2021): saggio eccellente su parte della letteratura novecentesca (compresi alcuni autori, per così dire, di nicchia, se non addirittura oggi ignoti ai più), spesso marchiata come fascista, ma in realtà fatta da scrittori che - nel loro ondeggiare ora verso il MSI, ora verso il PCI; un po' verso i partigiani, un po' verso le lodi al duce - sono ideologicamente non etichettabili. Ripeto: la loro a volte temporanea adesione al Fascismo li ha non solo segnati al punto da decretarne il mancato ingresso nel canone, ma anche sepolti nell'oblio (chi conosce oggi, lungo tutta la penisola, Pettinato?). Poi ci sono anche gli arcinoti: Malaparte, per esempio, che non è stato comunque risparmiato dalla deriva di una memoria viziata: relegato più al rango di un originale esteta che di uno scrittore vero e completo.

Curzio Malaparte
Uno dei passi più belli in cui m'imbatto subito riguarda proprio Curzio Malaprte e la sua presunta equivalenza con il Woland di quel capolavoro eterno che è "Il maestro e Margherita" di Bulgakov. Pare infatti (personalmente lo ignoravo) che Malaparte e Bulgakov fossero legati da amicizia e che proprio a Malaparte Bulgakov si fosse ispirato per tracciare il personaggio del diavolo Woland (io ero certo che Bulgakov si fosse invece ispirato al Settembrini de "La montagna incantata" di Mann, ma evidentemente era solo una mia impressione). "Malaparte sarebbe dunque il diavolo?" si chiede il prof. Di Grado. Sembrerebbe di sì. E mi piacerebbe molto sentire, a tal proposito, il parere di Igor Sibaldi che, nella sua Prefazione a una delle edizioni del capolavoro di Bulgakov, sottolinea che Woland andrebbe identificato piuttosto con Stalin, al quale pure lo scrittore si rivolse per evitare l'esilio.

Proseguendo con la lettura, leggo ancora che nel 1931 vengono diffusi i risultati di un "Censimento degli scrittori fascisti" pubblicato da "Oggi e domani" e il canone proposto in "Antologia degli scrittori fascisti", curata da Mario Carli e Giuseppe Attilio Fanelli per Bemporad. Se ne deduce che, per essere un vero scrittore fascista, fosse necessaria "l'obbedienza cieca allo Stato fascista e alle sue direttive". Insomma occorreva essere "apologeti del regime". E tra questi apologeti figuravano anche il D'Annunzio dell'impresa di Fiume e Rosso di San Secondo, sui quali però pesava un pregiudizio di conformismo. Proprio a tale conformismo intendeva sottrarsi Berto Ricci (la cui prosa polemica richiamerebbe Férdinand Céline). Tre elementi lo caratterizzavano: apparire incarnazione dell'archetipo Junghiano del "puer", ovvero di quella personalità capace di gettare un ponte fra un presente minacciato di sradicamento e un passato permeato di autenticità; l'attacco, ad onta del Concordato, alla Chiesa e al Cristianesimo, ridotti - secondo Ricci - a un coacervo di raccomandazioni banali e privi di nerbo, ben lontane dalla forma di autentici precetti miranti a correggere la vita vera degli individui (di certo - aggiungeva - sarebbe stato preferibile ciò che avveniva ai tempi di San Francesco e di papa Innocenzo, quando corruzione e concubinato caratterizzavano la condotta dei pontefici e del clero, ma il Cristianesimo appariva ancora autentico); l'esaltazione di una natura che non esclude l'urbanizzazione tipicamente invasiva dei tempi moderni, poiché non si configura quale ipostasi di una vagheggiata arcadia "temporis acti". In simile quadro si collocano anche gli attacchi di Ricci a Ugo Ojetti, nonostante quest'ultimo fosse un fascista convinto, ma la sua scrittura era densa di luoghi da "sarcastica cronachetta da Guareschi ante litteram" e di certo non poteva trovare apprezzamento presso un agitatore di frusta, quale Ricci era.

Rosso di San Secondo
Contemporaneamente s'innestano, sulla scena letteraria di quegli anni, il già citato Pier Maria Rosso di San Secondo e Ruggero Vasari, aderenti al fascismo, ma frequentatori di una Berlino fucina mitteleuropea di avanguardie (la stessa cui era approdato Pirandello in un felice tentativo di non rimanere confinato in quello strato di letteratura provinciale, campanilistica, che forse, a causa della permanenza in un'Italia dai variegati e labili contorni letterari - del resto permeata di dannunzianesimo e di slogan inneggianti al duce - avrebbe finito per inghiottirlo). Rosso di San Secondo, in particolare, pur guardando a quell'oltralpe su cui si stagliavano nuovi giganti come Thomas Mann, fu comunque un vero fascista all'italiana, salvo poi mettere subliminalmente in dubbio l'efficienza della macchina fascista di sorveglianza delle città, cosa che fa in un romanzo quale "Periferia". In esso si materializza l'urlo disperato che, dai centri di ogni urbe, si sposta nelle periferie, informando il disagio e la voglia di ribellarsi alle ingiustizie. Il romanzo di Rosso di San Secondo partecipa di quest'universo di disagiati e sbandati che popolano tanta letteratura degli anni Venti e Trenta (e del resto il fascismo fu il rifugio di tanti di quei disadattati). Ricci fu tutto questo: fascista, mitteleuropa, critico del fascismo stesso, tanto da portare Montanelli a dire che Ricci "rappresenta l'archetipo della nostra giovinezza: un cumulo di errori che siamo ben felici di avere commesso".

Le personalità letterarie di quegli anni - fasciste? Non fasciste? Coerenti? Incoerenti? Frustrate? Deluse dal positivismo? - cercavano forse un interprete, un garante, un araldo che diventasse loro padre. L'esempio di Mario Puccini è fortemente significativo: egli offrì epistolarmente la possibilità di farsi carico di tale paternità a un indifferente Giovanni Verga, che però preferì chiudersi nella solitudine del letterato "aristocratico". Fu allora De Roberto (soprattutto quello di "Spasimo"), quasi a sorpresa, colui che parve accettare tale ruolo. Bellissime, poi, le pagine dedicate a Francesco Lanza da Valguarnera, autore dei gustosissimi (sebbene di gusto a volte un po' amaro si tratti) "Mimi siciliani".

Francesco Lanza
Di Grado attinge poi al Leopardi riflessivo filosofo (mi rendo conto che la formula è densa di tautologia, ma tant'è: questi miei sono semplici appunti) del "Dialogo della natura e di un Islandese", che si conclude con la tragica scomparsa del secondo: il Leopardi, cioè, lodato dai rondisti per la sua bella prosa, i quali però fraintesero il recanatese e Francesco Lanza se ne rese presto conto. Non è un caso che, pur consapevole dell'ineluttabile ciclicità quasi meccanica della vita (quella ciclicità che comprende anche è soprattutto la fine e la morte), fece in modo che non se ne rendessero conto i personaggi dei suoi mimi, costringendoli alla rassegnazione: quella di soccombere al pari dell'Islandese di Giacomo. L'esempio è presto fatto: la Luna (quella che stava silenziosa in cielo e cui il pastore errante rivolgeva domande ancora da filosofo, prendendo a prestito l'esempio dei guslari) in Lanza splende come un sole diurno e si riflette sull'acqua del pozzo. Sicché, quando l'ignaro asino beve dal pozzo stesso, non ingurgita solo l'acqua, ma pure la luna stessa e perciò viene battuto, fino alla morte, dal padrone che gli intima di vomitarla perché gli serve. Non è forse questa una scena di quelle che si legano all'universo di disgraziati, di cui s'è già detto alcune righe sopra?

A ciò si aggiunge la scristianizzazione di tutto l'armamentario di immagini, simboli e sacramentali del Cristianesimo, che sembra riportare l'uomo a una fase ancestrale, nella quale il "cruento", l'onnifago (e spiccatamente l'antropofago), il sacrificio delle vittime, costituiva ciò che oggi potrebbe essere reputato l'origine del culto, anzi di ogni culto (per una curiosa coincidenza, sto in contemporanea completando la lettura de "La filosofia del culto" di Pavel Florenskij, in cui tale tema è discusso con un acume straordinariamente illuminante). Ecco perché, tornando all'assunto iniziale, Lanza non poteva rimanere rondista (e non poteva certo amare il Leopardi filtrato dall'equivoco ermeneutico dei rondisti stessi, ma quello vero, originale) e si avviava verso il pieno di quel realismo espressionistico che avrebbe permeato gli anni Venti e Trenta. Insomma: Lanza... fascista sì, ma anch'egli in modo affatto suo. Fascista perché la terra (e i bisogni primordiali dell'uomo ad essa connessi) era un archetipo adottato dai fascisti: quella terra che appare per sineddoche fin nel titolo di "La zolla" di Lucio Ugolini (romanzo autenticamente fascista - ci avvisa Di Grado - e permeato di quel populismo che va inteso nella sua accezione originaria e non in quella che ha assunto oggi: un'accezione che ci riporta ossimoricamente in terra di Russia); ancora quella terra che risulta "di nessuno" nel film del '39, la cui sceneggiatura sarebbe stata scritta da Stefano Pirandello, il figlio di Luigi, insieme ad Alvaro: vi appare "popolata di archetipi", tra i quali la morte la fa da padrona, ad onta delle bonifiche strombazzate e realizzate dal regime. Quella è la terra di Sicilia: "irredimibile" (nonostante il Duce) e protagonista (non solo sfondo, ma autentico personaggio, infatti: credo sia bene sottolinerarlo) della nascitura narrativa del neorealismo. Lanza partecipava di tutto ciò anche per ragioni (traumaticamente) autobiografiche che, forse ancor più che nei citati autori, lo condussero a rievocare un Leopardi non tanto maestro di prosa, quanto nichilista e anzi vessillifero di morte. E quella morte ghermì, del resto, il mimografo nella tanto vituperata Valguarnera, dov'era stato condotto (una volta appurato a Catania, dove alloggiava all'albergo Sangiorgi, che poco o nulla rimaneva ormai da fare).

Margherita Sarfatti
Ma ecco le donne: Ada Negri, Grazia Deledda (sebbene la scrittrice sarda tendesse a recuperare certi archetipi rurali e non proprio a magnificare la campagna e la natura), Sibilla Aleramo (ondivaga tra protofemminismo e ripensamento, tra antifascismo e fascismo per fame, per finire togliattiana). Su tutte si erge l'ideatrice dell'armamentario simbolico fascista: Margherita Sarfatti, seconda cugina di Natalia Ginzburg, nonché biografa e amante di Mussolini (infine costretta a lasciare l'Italia dal '38 poiché di famiglia ebrea). Ma già da nove anni Mussolini l'aveva ripudiata, rifiutandosi di approvare "Novecento", frutto di un'inventiva che evidentemente aveva male interpretato le vere intenzioni di Mussolini (e dire che la Sarfatti riteneva che il respiro europeo ed artistico di "Novecento" potesse giovare pure al fascismo). Emblematica la biografia di Benito da lei scritta, fin dal titolo - laconico e icastico - "Dux". In essa a Mussolini vengono attribuite improbabili ascendenze che procedono a ritroso nel tempo fino ai capitani del popolo del Medioevo e Benito risulta verace figlio del mondo contadino; il tutto è condito con una lingua "fascista", cioè fatta di lessemi e stilemi da letteratura ottocentesca che trova infine in Carducci e Pascoli il suo apice, ma procede narrativamente "per sincopi, pause ed ellissi". Eppure qualche passo falso la Sarfatti lo compie: la stigmatizzazione del delitto Matteotti con il conseguente grande imbarazzo del regime, nel cui seno la donna aveva forse creduto "di inaugurare un vernissage, e di esporvi una scultura".

Antonia Pozzi
Un altro nome va fatto: Antonia Pozzi, morta suicida a ventisei anni, soffocata dal controllo oppressivo di un padre che, del resto, pose il veto alla diffusione della poesie della figlia anche dopo la morte di quest'ultima. Potrebbe stupire la sua menzione in un saggio dedicato a chi "scriveva a destra", poiché nulla di più lontano dal fascismo v'era nella poesia della giovane lombarda, ma vero è che la Pozzi riuscì a tessere frequentazioni con l'intellettualità maschile più vivace e in vista del suo tempo e fu esponente di un filone spiccatamente settentrionale ed europeo che si contrapponeva a quello, idealistico, dominante dal centro della penisola in giù. E se il suo amato Rilke sottolineava quanto fosse necessario scrivere poesia solo dopo avere davvero vissuto ed esperimentato in ogni ambito dell'attività umana (vita, appunto, e ancora pensiero, azione ecc.) - e dunque praticamente alla fine naturale della propria esistenza - è vero però che la Pozzi, mettendo fine alla propria vita appena superati i venticinque anni, forse credette di essere vissuta troppo a lungo e di avere completato il suo ciclo biologico-esistenziale, sebbene giovane. E così si riservò il diritto di poetare, nonostante Rilke. Va del resto sottolineato che i versi della Pozzi contengono una riflessione che assume i tratti della meditazione quasi religiosa, se è vero che vent'anni più tardi fu la cristianissima Cristina Campo a interessarsene. Il "catalogo delle donne" scrittrici e poetesse di Di Grado non si esaurisce certo con i pochi nomi fatti: altri ve ne sono e tra questi emerge la Paola Masino di "Periferia" e "Nascita e morte della massaia", che in verità mettono in discussione certi punti fermi della propaganda fascista. Ma non si può qui rendere conto dell'enorme messe di nomi e opere che Antonio Di Grado cita in questo suo saggio corposo e acutamente illuminante. Per cui mi permetto un volo pindarico che ci riporta nell'alveo del cosiddetto romanzo protestante a partire da Giorgio Spini e da Calogero Bonavia, interpreti di quella fronda di cultura evangelica che si contrapponeva alla cultura cattolica, ormai egemone grazie proprio al fascismo a partire dal Concordato. Si tenga qui presente, del resto, che furono i valdesi ad alimentare "il primo nucleo della resistenza armata".

Non registro alcun dato sulle rimanenti pagine, non perché non m'interessino (tutt'altro, giacché Vittorini, Brancati, Micheli, Salvatore Battaglia - primo maestro dell'autore - e la disamina del '68 sono notevoli): semplicemente vanno lette e sviscerate in modo molto attento e contengono anche un po' del canone a noi già noto.

Saggio eccellente, consigliato soprattutto a chi è disposto a rinunciare ai giudizi, alle etichette, ai cliché: a chi, usando quella stessa umanità cui l'autore ai appella nel finale, accetta la letteratura tout court, cioè rinunciando all'esercizio di pregiudizi ideologici e appellandosi a una comprensione per via filologica di quanto i tanti autori passati in rassegna da Di Grado ci hanno lasciato in eredità.

Ivo Flavio Abela