domenica 23 settembre 2012

«Ed ebbero la luna» di Alessandro Damiani. Potrà mai l'uomo ritrovare se stesso?


Homo sum. Humani nihil a me alienum puto
Terenzio, Heautontimorumenos, 77

Alessandro Damiani, calabrese di nascita, trasferitosi a Fiume nel dopoguerra, ha insegnato Giornalismo all’Università di Pola e al Liceo di Fiume, ha lavorato per il Dramma Italiano, ha pubblicato sillogi poetiche, drammi, romanzi e saggi. È penna rispettosissima della norma linguistica italiana più di quanto lo siano i giornalisti e gli scrittori che non hanno mai lasciato l’Italia. È capace di creare una prosa fluida, elegante, a tratti anacronisticamente snob e aulica, sebbene sorga nel lettore esperto il sospetto che l’autore usi talvolta operativamente tale linguaggio per fare sottilmente emergere la propria ironia.

Ed ebbero la luna fu pubblicato nel 1980. Fu poi riedito nel 2009 all’interno della collana Altre Lettere Italiane (Collana degli autori italiani dell’Istria e del Quarnero) da Edit Libri (chi scrive ha avuto il privilegio di riceverne – graditissimo omaggio – un esemplare dal figlio dell’autore). Non è certo un libro da leggere in spiaggia sotto l’ombrellone a causa della quantità di riflessione in esso riversata. Era stato composto mentre imperava un disorientamento storico-ideologico che covava da tempo, complice la perversa idea sottesa al cosiddetto compromesso storico: l’accordo suicida fra il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, fortemente voluto dall’eurocomunista Enrico Berlinguer. «Ma già avevano fatto irruzione nuove forme di lotta civile, che coniugavano Marx con Cristo, precise nelle motivazioni e altrettanto convinte della necessità di rottura con esemplificazioni clamorose e richieste radicali. Lo “scandalo” del Vangelo fattosi laico» scrive del resto l’autore. Berlinguer era convinto che rivendicare l’indipendenza ideologica dei comunisti italiani dai propri compagni russi sarebbe stato sufficiente per un rilancio del PCI non solo in Italia, ma anche in quell’Europa che aveva guardato con preoccupazione al franchismo iberico. E così, facendosi attore di un patto talmente bizzarro, Berlinguer non solo sconfessava i valori della linea comunista ortodossa, ma riusciva anche a corrompere i cattolici andreottiani in nome del potere (che notoriamente «logora chi non ce l’ha»). E i risultati sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani e sono duri a morire, se è vero che certe più o meno tacite alleanze ideologico-confessionali continuano ad essere reiterate e s’incarnano in mostruose figure politiche che diventano ogni giorno «sempre più belle che intelligenti» o che promettono minchionescamente – l’avverbio è qui usato in accezione letterariamente manzoniana – di mantenersi illibate, quasi l’astensione dal sesso fosse un programma politico.

Il disorientamento storico-ideologico degli anni di piombo sarebbe esploso più che mai in seguito al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro. La responsabilità sarebbe ricaduta sul Governo italiano, accusato di non avere tentato tutto il possibile per salvare lo statista. E se pure Paolo VI rimase sconvolto dalla notizia della tragica fine di uno dei suoi amici storici (nel corso dei funerali di Moro, avrebbe rivolto a Dio parole inattese: «Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro»), Leonardo Sciascia, inascoltato da tutti fuorché dai Radicali, certo delle colpe del governo italiano, cercò giustizia nella Letteratura (sempre pietosa e pronta a risarcire), componendo L’affaire Moro, dal momento che la Storia e la politica gli si erano rivelate ingiuste e sanguinarie quanto mai in quel drammatico frangente.

Il primo dei cinque racconti – I dannati dell'utopia – che costituiscono (insieme ad un Epilogo) Ed ebbero la luna è fortemente legato alla delusione conseguente al fallimento dell’utopia incarnata nella lotta. Proprio nei giorni in cui la notizia del sequestro di Aldo Moro rotola da un notiziario all’altro, Roberto, figlio di un magistrato tutto d’un pezzo, si reca a Roma: Maurizio, un terrorista, gli ha consigliato di andarvi per parlare con Luca, un pezzo grosso (probabilmente) del terrorismo. Ma Luca non si trova (né se lo si chiama per telefono, né se lo si va a cercare a casa). Roberto rinuncia dunque a diventare un terrorista e torna a Milano, anche a causa del peggioramento delle condizioni di salute della madre. Mentre il padre è assente, gli capita di ritrovarsi a parlare con l’amico Ugo che è un giovane magistrato. Ugo è convinto del fatto che lo Stato s’identifichi con il complesso di leggi che lo regola. Presto Ugo rimane vittima di un attentato terroristico. Viene arrestata Gabriella, sorella di Roberto, con grande sgomento del padre e dello stesso Roberto che decide di indagare e di sapere se la sorella sia realmente coinvolta nell’uccisione di Ugo o se il suo arresto sia stato pilotato soltanto per tentare di increspare l’immagine di integrità del padre magistrato. Perciò va a trovarla in carcere. Durante il colloquio con lei, Roberto comprende che la sorella non è stata arrestata senza motivo e ottiene elementi che lo portano a temere di potere egli stesso essere arrestato. Non gli rimane che la fuga. Inizia una vera e propria odissea che si sviluppa attraverso i racconti successivi: l’odissea che il “dannato” Roberto deve vivere per trovare un’identità, una volta riconvertitosi in etnologo (il lettore esperto comprende che egli rimane protagonista dei racconti seguenti, sebbene non più indicato col nome di Roberto).

Il giovane vive dunque avventure ai limiti del verosimile in una geografia inizialmente orientale che fa pensare alle quinte sceniche, alle atmosfere militarmente un po’ hemingwayane, ai colori, ai profumi, ai luoghi oleograficamente dipinti in certi “titoli” della metà del secolo scorso: a un classico della Letteratura sentimentale e un po’ patinata come Sayonara o l’amore impossibile di James Michener, a un prodotto cinematografico un po’ strappalacrime come L’amore è una cosa meravigliosa, diretto da Henry King nel 1955, ancora – se si vuole risalire di qualche anno – a un altro film “epocale” come Anna e il re del Siam, diretto da John Cromwell nel 1946, solo per fare qualche esempio. E già, calcando idealmente simili esotici palcoscenici, si ha la sensazione che Damiani voglia dilatare le coordinate spazio-temporali, facendo regredire il lettore di un abbondante trentennio rispetto all’epoca dell’assassinio di Moro: l’atmosfera delle pagine immediatamente seguenti il primo racconto sembra più da Secondo Conflitto internazionale che da anni di piombo espressamente nazionali. In realtà Damiani, man mano che procede nella narrazione, tende sempre più a sfaldare in particolare la dimensione cronologica per mettere maggiormente a fuoco ciò che potrà salvare Roberto: il recupero della propria natura di essere umano.

L’odissea del protagonista – non a caso – si sposta poi nell’alveo di una geografia più occidentale dalla quale la stragrande maggioranza del genere umano sembra essere scomparsa a causa di eventi dai risvolti apocalittici. Subentrano allora desolati paesaggi (presuntamente istriani) da The day after che si alternano a bucolici quadri di vita rurale (sorta di idilli dal sapore alessandrino). Si profila così l’incitamento – da parte dell’autore – a recuperare uno stato ontologico in cui l’uomo possa bastare a se stesso, a ricreare un mondo in cui il senso dell’esistenza si incarni anche in una ritualità di azioni (come quella quotidiana e stagionale di chi dalla terra trae tutto il proprio sostentamento materiale). La terra assume il ruolo di un enorme grembo materno cui fare ritorno non certo per regredire infantilmente a una condizione prenatale, ma per ritrovare se stessi (difficilmente i vincoli morfo-etimologici che legano fra loro tre parole latine – humanitas, homo e humus – potrebbero risultare più chiari, se si tiene presente ciò che scrive Damiani). Perché un grande errore ha compiuto l’uomo: ha voluto la luna. Una volta ottenutala, ne è rimasto deluso: «A stroncare l’uomo non è stata la difficoltà di attuare i suoi sogni, ma la scoperta di averli raggiunti. Quasi non sapesse che farne».

Negli stessi anni in cui Damiani scriveva Ed ebbero la luna, il filosofo francese Jean-François Lyotard rifletteva sul venir meno delle grandi narrazioni metafisiche (una delle quali – guarda caso – era proprio il marxismo) e sulla necessità di ideare criteri che permettessero all’uomo di interpretare ed elaborare una realtà ormai ridotta in frammenti. Lyotard analizzava tale realtà alla luce di una categoria che sarebbe diventata un inflazionato tormentone (lo è ancora oggi): la postmodernità (relativamente alla quale chi scrive il presente testo ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato, come si può evincere da un post già pubblicato su questo stesso blog: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2011/02/linflazione-del-postmoderno.html. Ed è un piacere notare come anche Edward Docx voglia fare piazza pulita del postmoderno: http://temi.repubblica.it/micromega-online/addio-postmoderno-benvenuti-nellera-dellautenticita/). Damiani sembra contrapporsi a Lyotard quantomeno perché ipotizza un metodo attraverso cui ritrovare se stessi. Il protagonista approda presso la casa di un vecchio. Il vecchio – sorta di nuovo Alcinoo che ha imparato a lavorare la terra e a occuparsi del bestiame, rendendosi autosufficiente; inizialmente sfingico, enigmatico, freddo anche nell’offrire le proprie pazienti e generose cure all’etnologo Roberto, da lui ritrovato privo di sensi e ferito in seguito ad un incidente aereo – è in verità un venerando saggio. Presso la sua “corte” rurale il novello Odisseo narra il proprio vissuto liberandosene gradualmente. E il vecchio ricambia narrando il proprio. In un simile scambio di umanità veicolate dalle parole si esprimono il senso vero (e in fondo ottimistico) di questo libro e la risposta di Damiani a Lyotard: un nuovo umanesimo potrà salvare l’uomo. A condizione però che l'uomo stesso voglia realizzarlo. Sarà possibile?

Ivo Flavio Abela

Raffaello, «La Scuola di Atene», 1509-1510
Stanza della Segnatura, Città del Vaticano

lunedì 10 settembre 2012

«Finistoriae» di Annalisa Montironi. Quando, nel 1870, finì ogni storia. Anche quelle fissate nella pietra


Finistoriae di Annalisa Montironi (edito da Prova D’Autore nell’ormai lontano 2004): ecco un romanzo in cui marmi, pietre, antichità romane – testimonianze materiali di un passato mummificato, misterioso, angosciante, oscuro, ridotto allo stremo della resistenza fisica – sono esseri animati. Vivono e respirano immotamente, rimproverano, giudicano, condannano. Un romanzo in cui l’essere umano si tramuta in spazio fisico e architettonico, in edificio lapideo, subendo una metamorfosi classicamente mitologica («In principio l’amata era come la piazza davanti a San Pietro». Poi diviene «arco marmoreo, immenso, disteso nel cielo sopra campagna e colli»).

Dopo alcuni mesi di permanenza a Roma, Ignazio Dalla Francia è costretto a ritornare nel proprio paese d’origine, Giredo, nel 1870, mentre lo Stato Pontificio di Pio IX sta cedendo alla piena dei bersaglieri sabaudi e deve rassegnarsi, come già dieci anni prima il Regno delle Due Sicilie, ad essere annesso al Regno d’Italia. Ignazio vive perennemente schiacciato dal peso secolare di un casato presuntamente prestigioso. Il peso diventa insostenibile quando decide di sposare Augusta, una giovanne donna appartenente a una famiglia decaduta, che il granitico e integerrimo padre di Ignazio, cioè Odoardo Dalla Francia, cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, governatore di Giredo e Acquasparta, fedele collaboratore del papa, forse non accetterebbe mai come nuora. Finché soggiorna a Roma, Ignazio immagina e narra a se stesso e ad Augusta storie che gli consentono di alleggerire la zavorra di ciò che è stato. Ma a Giredo il passato si palesa in tutta la sua crudezza e lo accusa di mediocrità: «L’edificio s’innalza a rimproverare me, ultimo Dalla Francia, dell’incapacità di vita che manifesto ogni giorno».

Caravaggio, Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi
E così Ignazio decide di ricostruire la storia del suo casato per scoprire inediti orizzonti ermeneutici tali da consentirgli di reinterpretare il senso della propria vita. S’imbatte prima in un fascicolo di lettere alludenti al progetto di un’opera erudita, districandosi fra nomi vagamente parlanti (Teichicrate) e isidoriani dettagli alessandrinamente eziologici (Stainpace). Quindi nell’immagine inafferrabile di una donna che appare fra i flutti: il pensiero corre alle sirene di certa letteratura. Ma questa sirena è simbolo di morte cruda e pronta a ghermire, diversa dunque da quella che s’accampa sulle profondità marine e nelle pagine di «La verità sul caso Motta» di Mario Soldati. Diversa anche dalla Lighea tomasiana (poi trasfusa e trasfigurata nella Venere gattopardesca e nella giovane in abito da viaggio che verrà a prendere il principe Fabrizio Salina). Altra cosa insomma rispetto alle sirene che sono il massimo erotico cui l’uomo letterariamente aspira, l’eterno premio concesso all’uomo frustrato dalla necessità di vivere nel disagio, nel disadattamento, nel dolore: il simbolo subliminale della morte felice e serenatrice incosciamente vagheggiata.

Le indagini di Ignazio proseguono. Ed egli decide di narrare la storia del proprio casato seguendo lo snocciolarsi, sotto i propri occhi, dell’albero genealogico di famiglia. Ignazio lo ripercorre avo dopo avo, confidando ciecamente (così almeno sembra al lettore) nelle capacità terapeutico-risarcitorie della letteratura.

Ancora pietre. Anzi pietre, mattoni e modifiche architettoniche alla struttura della residenza di una famiglia i cui membri più antichi hanno tentato tutto pur di insabbiare il loro originario rango di artigiani dell’oro (che avrebbe procurato loro solo il rispetto della locale minutaglia e non certo dell’aristocrazia di Giredo). Talora gli avi vengono subito identificati sulla base delle modifiche architettoniche da ciascuno di loro apportate alla residenza familiare. Non dunque sulla base di azioni concrete che finiscono per essere marginali, se non esornative (più volte caratterizzate, del resto, dalla disonorevole pratica dell’usura), quasi nella modifica architettonica, nella disposizione di una nuova pietra, si fissasse a fuoco il senso vero della condotta dell’uomo. In tali pagine aleggia a tratti una vaga atmosfera ora da croniniano «Castello del cappellaio», ora da ventisettana manzoniana, ora da feuilleton dai risvolti a tratti noir, a tratti decisamente gotici.

Ma quando la condotta di un avo genera delitto e morte la pietra viene abbandonata: sono sufficienti un piano di calpestio semplicemente battuto e non mattonato, una cassa dalle assi grezze, i semplici prodotti dell’orto per occultare (ma con quale risultato?) la morte operata o indotta. Perché delitto e morte devono rimanere al fianco dell’assassino: ne saranno i carcerieri. E poi perché un giorno essi dovranno riemergere a deturpare l’immagine del casato.

Giuseppe De Luca nei panni del verdiano Rigoletto
Non sembra inutile citare in particolare due avi di Ignazio: Filippo e Vincenzo. Nel primo la passione per l’antico (smodata e ossessiva al punto da costringerlo a lavorare l’argilla, cercando di realizzare perfetti buccheri) schiaccia e annichilisce la sfera affettiva: Filippo non riesce ad assolvere al ruolo di padre e si uccide proprio per far sì che suo figlio non debba amare un essere come lui. Il secondo, il figlio che Filippo ha voluto rendere orfano uccidendosi, subisce un destino che è «geometria divina che rende la sua vita [...] somigliante a quella del padre, e morta, come quella, ai sensi comuni» (corsivo mio. N.d.r.): muore sua figlia. Eppure proprio a lui sembra essere riconosciuta la capacità di compiere azioni rette, se è vero che per sua iniziativa vengono eseguiti «grandiosi lavori di sistemazione in mattoni rossi che ancor oggi alleggeriscono la corte, le logge e gli archi dai quali così dolce è ammirare il gran monte incombente, e il graziosissimo pozzo nuovo, incassato nel pilastro presso la cappella».

Se i marmi, le pietre, i mattoni possiedono proprietà talmente singolari, vivono e respirano, si ritagliano un ruolo protagonistico, chi riesce a maneggiarli, scolpirli, combinarli, non è da meno: lo scalpellino è una sorta di alchimista depositario di un potere occulto. Tale è l’«artigiano deforme» e sporco, dallo «sguardo impudico» e dalla «natura stregonesca», che si rivolta contro il signorile e giusto Vincenzo, colpito dalla maledizione dello stesso scalpellino-stregone solo per avere preteso onestà e garbo: l’innocente figlia di Vincenzo annegherà in un pozzo. Sembra la rivincita dello hughiano Triboulet o del verdiano Rigoletto, se si vuole («Ah! La maledizione!»).

Papa Pio IX
Ricostruite le vicende del casato, con Ignazio la storia (ogni storia) finisce dopo un’ultimo picco rappresentato dalla tenacia, dall’integrità, dalla lapidea coerenza del padre Odoardo. Quest’ultimo rifiuta fieramente di continuare a mantenere anche sotto il Re sabaudo l’incarico di governatore che ha detenuto sotto Pio IX (non diversamente da quanto aveva fatto l’ultimo dei Gattopardi, il principe Fabrizio Salina, rifiutando la proposta sabauda a lui pervenuta tramite Chevalley). E se nel romanzo tomasiano la forza e la memoria del casato vengono cancellate definitivamente da Concetta Salina, allorché quest’ultima lancia dalla finestra ciò che rimane della carcassa di un Bendicò da anni imbalsamato e roso dai tarli, qui «la forza della stirpe» si esaurisce per consunzione con Ignazio, figlio di un essere gattopardesco quanto il Fabrizio di Tomasi. Concetta e Ignazio sono entrambi figli degli ultimi rappresentanti di un mondo travolto da Garibaldi, dai Savoia, dall’Italia unita. Ma se la forza d’animo, la determinazione, la tempra felina consentono a Concetta di sbarazzarsi del casato per motivi oggettivi e senza alcun senso di colpa, la stirpe muore in Ignazio a causa dei suoi mali soggettivi ed esistenziali, a curare i quali – non a caso – vengono invocati l’amore coniugale di Antonia e quello dei figli che i due un giorno avranno. I Dalla Francia si ritirano dal nuovo mondo e si chiudono nell’alveo – borghese, ma rassicurante e sereno – di un focolare domestico: Ignazio non è il derobertiano Consalvo.

Finistoriae è un romanzo inattuale per materia, registro linguistico (tanti aulicismi), anacronistici stilemi da letteratura d’altri tempi, ampie concessioni al genere epistolare. Tanto inattuale da risultare originale in quanto celebrazione estetica di una forma che torna finalmente a ricomporsi in un nitore fin troppo oltraggiato dai tanti – spesso gratuiti e inutili - sperimentalismi letterari odierni.

Ivo Flavio Abela