domenica 25 aprile 2021

Eros e trauma in «La quercia di Bruegel» di Alessandro Zaccuri

Nel bosco degli scrittori, originale collana di Aboca, si dà agio «agli scrittori più interessanti e consapevoli del nostro panorama letterario di raccontare il mondo, il loro e il nostro, proprio a partire da un albero» afferma l’editore. Alessandro Zaccuri (di cui s’è già parlato su questo blog a proposito del suo bellissimo Lo spregio. Cfr. https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2017/11/lo-spregio-di-alessandro-zaccuri-ovvero.html?m=0) ha scelto La quercia di Bruegel (2021), offrendoci ancora un saggio di una capacità narrativa che – sempre raffinata – risulta poliedrica perché ogni volta diversa a seconda del tema (non è la stessa del citato Lo spregio o di Nel nome o ancora di Come non letto, per citare solo qualche titolo di Zaccuri). E qui il tema vero non mi sembra Bruegel il Vecchio, la cui arte si riduce a un pretesto, ma l’eros – delicatamente ritratto – di un ménage à trois.

Il protagonista di La quercia di Bruegel narra in prima persona senza mai rivelare il proprio nome. Forse è uno degli scrittori che Zaccuri immagina di essere o comunque cui ha affidato una parte di sé. Il narratore, infatti, racconta di avere sempre scritto nascondendosi sotto identità fittizie, in base allo scopo e al tema di ogni libro poi pubblicato. Forse Zaccuri s’è immaginato attore di un’avventura, ad alimentare la cui forza contribuiscono un attentato terroristico, il dramma personale di un paziente che ha vissuto un forte trauma, l’eros. Che quest’ultimo sia fortemente presente nel testo ce lo provano le righe in cui il narratore accenna alla possibilità di rotolarsi su un letto con la neurologa Matilde Rovani, la carnalità della donna non più giovane ma ancora attraente, la menzione di L’origine du monde di Gustave Courbet. Anzi sembra quasi che su tale dipinto egli abbia strategicamente dirottato il desiderio in lui suscitato dall’incontro con Matilde. Per non dire poi di alcuni elementi vagamente voyeuristici contenuti – molto più avanti – nelle pagine ambientate al museo. Qui il protagonista si fa da parte per discrezione: vuole che la neurologa e il suo compagno possano visitare da soli le sale dell’edificio per godersene indisturbati le opere. Eppure non li perde di vista e ne spia i movimenti.

Peter Bruegel il Vecchio
I cacciatori nella neve
Vienna, Kunsthistorisches Museum


Nel turbinio delle battute di dialogo scambiate a un tratto con un confidenza quasi ammiccante, della visione condivisa di riproduzioni di opere d’arte riprodotte in bianco e nero, della ricerca in esse di dettagli appannati e addirittura quasi invisibili all’occhio, mi sembra di potere ravvisare le fasi di un gioco erotico che genera desiderio soprattutto mediante l’atto del vedere. L’albero fa il resto, se pensiamo al suo valore nella simbologia psico-analitica. Massimo, il paziente al cui caso la neurologa lavora, vede solo l’albero anche dove apparentemente non c’è. Come s’è già accennato, ha subito un trauma da cui è scaturita una patologia che potrà essere risolta solo in parte. Riconosce poco e nulla quando vede immagini. Eppure individua sempre l’albero, anche quando esso è impercettibile. Forse per lui esso è il simbolo di quella energia erotico-affettiva che può salvarlo? Sembrerebbe di sì. Non credo sia un caso il fatto che il rapporto con la terapeuta si trasformi presto in una relazione sentimentale che appaga entrambi. Il narratore, sebbene non lo ammetta e anzi faccia di tutto per non risultare invadente, sembra invidiare siffatto idillio di coppia. Eppure ne fa parte: viene accolto con cordialità da un per nulla geloso Massimo, che anzi gli manifesta stima e interesse. In fondo questo delicato ménage à trois sembra la situazione ideale in cui rifugiarsi per dimenticare finalmente l’orrore del terrorismo.

Un racconto come La quercia di Bruegel affascina perché è bello “giocare” con uno scrittore coltissimo e raffinato, capace di una prosa limpida e luminosa, ma anche di intrecci a volte gradevolmente spiazzanti.

Ivo Flavio Abela

sabato 24 aprile 2021

Il lungo autunno di Maurizio Soldini nel suo «Sodalizio con gli specchi»

Gli specchi ci restituiscono la nostra immagine. E con essa tutto ciò che la connota in negativo e dunque non ci è gradito. Non mi riferisco ai tratti fisionomici (sarebbe troppo scontato), ma a ciò che della nostra torbida intimità quegli stessi tratti veicolano. Talvolta non ci soffermiamo davanti agli specchi oppure li evitiamo del tutto perché ne abbiamo paura. Il sodalizio con queste superfici riflettenti diventa possibile solo se siamo certi del fatto che esse non possono arrecarci danno: possiamo sentire complici gli specchi quando la loro capacità riflettente esce annichilita dallo scontro con il buio e la notte. Allora solo alitare su di loro ce ne fa percepire la materialità, ma  dice lautore  anche la distanza. «Quale distanza? La distanza da che cosa o da chi?» vorremmo chiedergli. «Da noi stessi» ci rispondiamo poi senza scomodarlo. Tale è lidea su cui insiste Il sodalizio con gli specchi dellaccademico, medico e poeta Maurizio Soldini. È la seconda e bellissima raccolta (va senzaltro letta) che egli pubblica per Il Convivio Editore (cioè per il valentissimo Giuseppe Manitta), dopo Lo spolverio delle meccaniche terrestri (libro già recensito su questo blog. Cfr. https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2019/03/lo-spolverio-delle-meccaniche-terrestri.html).

È meglio tenersi lontani da se stessi anziché vivere alla luce: quella che impietosamente rivela tutto e smonta «ogni trama / alla nostra imperfezione», ogni particella di un disagio esistenziale aggravato da una pandemia che  curiosamente  esplode nel corso del Carnevale 2020, quando «limpiantito di mascherine» assume la funzione di inedito e anomalo contrappasso per chi è aduso a mascherarsi solo per diporto. Tra i coriandoli e una cromatica fantasmagoria sinsinuano le (sinistre?) sagome degli spaventapasseri: battistrada metaforici di chi «porta addosso un mantello di carta / dove ha scritto parole che sono di stoffa» (allusione alla tenuta degli operatori sanitari quando circolano e si presentano alla porta), mentre la pandemia intensifica il ritmo e impazza, neanche fosse essa stessa un Carnevale.

Nel surreale respiro di un mondo che adesso ha un motivo in più per non volere guardarsi allo specchio (non vedere ancora più nitida la sagoma della propria disperata impotenza), nella calma indotta in cui solo gli «operatori del déjà-vu» non smettono di dare forma pseudo-fonica al vuoto che pervade loro e i loro discorsi, in quel conseguente svilimento della parola che smette di essere tratto distintivo dellattività razionale delluomo (ovattata, comè, dalla maschera «origine ormai persa del verbum persona»), «geme dentro gemme di necessità»  icastico richiamo fonico che diventa quasi uguaglianza di parole  lincoscienza che ne ha finora caratterizzato la condotta. Nel chiuso delle proprie case, pure il salire e lo scendere di una tapparella diventano per luomo «specchio» della vita, e la tapparella stessa giunge a sostanziarsi in un sipario che potrebbe chiudersi definitivamente.
«Allegre maschere, / Pazzi garzoni,
Tutti plauditelo / Con canti e suoni!
Parigini, date passo / Al trionfo del Bue grasso»
(dal libretto di Francesco Maria Piave
per Traviata di Giuseppe Verdi):
leggendo Soldini, ripenso a Violetta
Valery e al fatto che muore di tisi mentre
impazza il Carnevale e il Bue
Grasso viene festosamente portato
lungo le strade di Parigi


Si alza allora la voce dei poeti: magari non «lavorano di notte» (come quelli di Alda Merini), ma cantano quandè mattino presto. A quellora il sodalizio con gli specchi non è stato ancora infranto dalla prepotente luce del giorno pieno (capace pure di rendere «ustorio» uno specchio), ma è stato appena increspato da unaurora le cui dita (non epicamente «di rosa» come quelle dellaurora omerica), sono comunque in grado di elargire carezze. Perché questo i poeti fanno: cantano per rendere più sopportabile la quotidianità (e quella pandemica è particolarmente devastante), in un tempo che si ferma e non ha più un prima e un dopo, un flashforward e un flashback, tanto che analessi e prolessi finiscono col coincidere nella fissità di un «eterno ritorno».

Soldini non risparmia i richiami alla tradizione alta della poesia italiana. In certi sprazzi di memoria si respira unatmosfera montaliana. Un tratto dannunziano permea quel «pioveva sulle scaturigini», tuttavia sfrondato della carica estetica per essere adattato con durezza al contesto di un ospedale in cui si soffre e si cerca di tornare a respirare. Si legge un quasi provenzalismo in La trenodia si leva: quel «penetranza». Nellultima terzina di Nel settantatré, poi, il ritmo (e ciò non sembra dovuto a unassonanza percepita dal lettore istintivamente) ci ricorda quello de Il cinque maggio manzoniano o comunque di uno dei cori di Adelchi (già), sebbene nel testo di Soldini sia menzionato un «volgo» (e ciò rafforza limpressione che il fantasma della tragedia manzoniana sia davvero qui presente) che lautore definisce a sorpresa «carducciano». Del resto il tributo ai grandi poeti della tradizione non si ferma al dico e non dico, ma diventa esplicito nei versi che vanno sotto il titolo di Leopardiana e ancora di Campo dei muratori (pasoliniana), questultima dotata di uneco finale che fa molto Qohelet. Si approda dunque al padre Dante, cioè a un trittico stilnovistico ma rivisitato arcadicamente, con la petroseggiante Come un madrigaleDomina (si vedano soprattutto i versi «tu dea ninfale / donna in terra sospiri venti e ti fai anima») e Ora come allora che è un policromo caleidoscopio.

Come già ne Lo spolverio delle meccaniche terrestri, anche qui il suono delle parole non è solo materia fonica, ma pure latore di senso. In Effimero il giorno, per esempio, il rapporto tra «effimero» ed «effemeridi» sembra significare che sia illusorio lo scorrere dei giorni tra una stagione e laltra, così come con quello tra «istanze» e «distanze» lautore potrebbe volere avvisarci del fatto che eliminare le distanze non basta: bisogna anche aggrapparsi a uno spazio fisico. Si legga poi lintera terzina successiva, tutta tessuta su una dentale ossessivamente ricorrente e dura, che in tre punti si unisce a una scivolosa labiodentale: «per divagare dalle pene dellinferno / tra il trattamento ddati e di sviste / in essere a sbrogliare il divenire».

Maurizio Soldini

Una riflessione merita la struttura della raccolta, poiché mi sembra che anchessa veicoli il senso vero dei versi di Soldini, raggruppati in cinque tempi, cui si aggiungono un In coda e un Oltre gli specchi. Nel primo tempo si colloca lincipit pandemico con i suoi immediati sviluppi coincidenti con la primavera, nel secondo si fa riferimento allestate, nel terzo allautunno. Sono solito non sfogliare mai un libro prima di leggerlo, non consultare lintroduzione o la prefazione (quando cè), non guardare lindice: desidero scoprire pagina dopo pagina ciò che lautore scrive. Giunto alla terza parte di Il sodalizio con gli specchi, ero ormai convinto del fatto che i tempi fossero quattro: «Mi manca solo il quarto con linverno» dicevo a me stesso. Invece la stagione del quarto tempo è ancora lautunno. Mi sono sentito un po spiazzato. Poi però ho notato che nel terzo tempo è trasfuso lautunno dei ricordi, nel quarto figura quello dellaccettazione di una vita il cui scorrere è inarrestabile, nonché i prodromi della notte invernale. Lautunno, poi, si dilata e deborda al punto che pure nel primo componimento del quinto tempo (perché esiste anche una quinta parte!) Soldini menziona novembre, mese ancora autunnale, mentre linverno è citato per la prima volta solo nel quarto testo della quinta parte stessa. Lautunno è dunque una stagione lunghissima (anche più  mi verrebbe da dire  del «secolo breve» di Hobswaun) che non vuole passare proprio, se si pensa che novembre (peraltro un novembre di «scirocco») viene citato nuovamente più avanti, per esempio quando si menzionano i cachi che «si spiaccicano fuori dalla polpa». Sembra che insistere sullautunno sia una necessità dellautore: si riferisce forse allautunno della propria vita? Credo di sì ed egli vuole dilatarlo il più possibile affinché non giunga il proprio inverno. Lo spaventapasseri, che lautore torna a menzionare quando il libro volge alla conclusione richiamando il Carnevale iniziale, mi sembra indizio di una fine che egli fa di tutto per rimandare a oltranza. Non a caso linverno si palesa intensamente solo «oltre gli specchi», cioè nelle due brevissime parti che sembrano più due appendici, rispetto ai cinque tempi lungo cui si snoda la materia vera del libro, quasi lautore dicesse allinverno: «Prima o poi dovrai arrivare. Ma finché puoi, rimani fuori dalla mia vita».

Ivo Flavio Abela

mercoledì 7 aprile 2021

La bellezza nell’Ortodossia e nella cultura della Russia

Il presente articolo è stato pubblicato sulla rivista on line Areopago dal fondatore e capo-redattore, il magistrato e professore Eduardo Savarese, che ringrazio della fiducia e del privilegio accordatimi (qui il link alla rivista: https://www.areopago.net/; qui quello allarticolo nella sua posizione originale: https://www.areopago.net/la-bellezza-nellortodossia-e-nella-cultura-della-russia/). Ho pensato di riportarlo anche qui, sul mio blog.


La bellezza nell’Ortodossia e nella cultura della Russia

«È vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo? State a sentire, signori […] il principe sostiene che la bellezza salverà il mondo!»: così dice il tisico Ippolìt del principe Myškin ne L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Più avanti sarà la capricciosa e borderline Aglaja a dire a Myškin: «Sono pronta a scommettere che si metterà a parlare di qualcosa sul genere della pena di morte, o della situazione economica della Russia, oppure del fatto che la bellezza salverà il mondo». L’affermazione è diventata famosa tanto da essere attribuita, soprattutto da chi non ha mai letto integralmente il romanzo, allo stesso scrittore: «Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo». Tali parole sono però solo attribuite al protagonista da Fëdor: non si comprende nemmeno se Myškin le abbia davvero mai pronunciate (il principe non lo conferma).

Consideriamo poi il finale del romanzo: Myškin diventerà pazzo, recuperando lo stato connaturato – così sembra indicarci Dostoevskij – alla sua indole di individuo generoso, mite, genuino («idiota» – appunto – secondo il pensiero comune) e dal quale era invece guarito. La bellezza non l’ha salvato: non solo essa non ha trionfato, ma proprio colui il cui animo è bello altro non si rivela che un folle. Sembra che Dostoevskij si sia divertito a delineare un intreccio e un personaggio dai quali sarebbe dovuto scaturire il segreto della felicità sulla terra (paragonabile alla formula anch’essa segreta, relativa alla pace eterna e alla sconfitta definitiva del male, incisa su una fantomatica verga da Nikolaj, fratello di Lev Tolstoj, e poi sepolta nel luogo in cui sarebbe stata interrata la bara dello scrittore), ma alla fine ci riporta con forza alla realtà e sembra volerci dire: «Davvero avreste pensato che la bontà e la mitezza possano trionfare? Il buono, il mite, il virtuoso… sono solo pazzi».

Un altro personaggio – appartenente all’universo cinematografico russo – ci insegna che la bellezza non può salvarci: il protagonista di Stalker, film diretto nel 1979 da Andrej Tarkovskij. Attraverso la zona, egli vuole condurre i suoi compagni di avventura nella stanza. I compagni accettano inizialmente di affidarsi a lui e di seguirlo, ma si fanno assalire dai dubbi proprio quando la meta è vicina. Il dolore del fallimento lacera Stalker: egli – lo dice all’apice dello sconforto quando il film si avvia alla conclusione – avrebbe solo voluto che tutti fossero felici, condividendo con l’umanità i tesori spirituali contenuti nella stanza stessa. Stalker è del resto un doppio dello stesso Tarkovskij: così ha affermato più volte Andrej Tarkovskij Jr., il figlio del regista (lo ha fatto anche in un’intervista concessami nel marzo 2020). In altri termini Stalker e lo stesso Tarkovskij sono personaggi alla Dostoevskij: hanno nutrito una fede cieca nei confronti di ideali spirituali e della possibilità di conseguire la felicità mediante la bellezza, ma alla fine si schiantano contro il muro della realtà, rimanendo turbati, disillusi, sconfitti, segnati a vita.

Mi sembra che quanto fin qui affermato sia sufficiente per comprendere l’equivoco su cui è stata fondata – da critici e da lettori poco attenti – la funzione salvifica della bellezza. Abbiamo dunque sbagliato noi a interpretarla come tale o forse Dostoevskij, i suoi personaggi, quelli tarkovskijani, lo stesso Tarkovskij ci hanno portati fuori strada? Hanno davvero voluto dimostrare il contrario di ciò che, sulla scorta delle loro parole, abbiamo sempre ritenuto? Hanno voluto farci credere che non sia possibile alcuna salvezza in questo mondo? E se invece essi si fossero riferiti a un’altra bellezza?

Pavel Nikolaevič Evdokimov (in «Teologia della bellezza») e Orlando Figes (nel bellissimo «La danza di Nataša») riferiscono un celeberrimo aneddoto. Vladimir, principe di Kiev, inviò ambasciatori presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci: desiderava comprendere l’essenza delle diverse religioni per sceglierne una. Gli emissari tornati da Costantinopoli gli riferirono che vi erano rimasti rapiti dalla bellezza dei riti, delle icone, dei decori, al punto che risultava loro difficile comprendere se si trovassero nel cielo o sulla terra. Di una cosa si dissero certi: Dio era autenticamente presente tra quanti prendevano parte a quei riti. Dio era la bellezza: è questa l’idea che permea l’anima ortodossa (mi riferisco in particolare a quella russa) e che attraversa pure, talvolta sotterraneamente, buona parte della letteratura presovietica.

Il russo non può non dirsi ortodosso: sentirsi ortodosso ed essere russo si sovrappongono al punto da arrivare a consustanziarsi. Non possiamo ignorare che non solo la Chiesa Ortodossa di Russia esercitò sempre una grande influenza sullo zarato, ma pure che in certi frangenti si dimostrò ancora più forte dello zarato stesso nel provocare le reazioni dell’opinione pubblica. Si pensi a ciò che suscitò l’emanazione della scomunica di Tolstoj, decisa peraltro senza avvisare lo zar Nikolaj II, che apprese quanto la Chiesa Ortodossa aveva stabilito solo da una rivista religiosa, una copia omaggio della quale gli veniva regolarmente recapitata. Scoppiata la Rivoluzione e deposto lo zar, il regime sovietico cancellò ogni traccia di cristianesimo. Puntando alla collettivizzazione della società, e dunque volendo estirpare dal popolo russo il senso d’identità che l’aveva fino a quel momento sostenuto, eliminò qualsiasi traccia di cristianesimo proprio perché l’anima russa era congenitamente ortodossa: distruggendo chiese e icone, estirpò la bellezza dal cuore del popolo. Alcuni anni prima della Rivoluzione il grande Anton Čechov aveva individuato nella Chiesa Ortodossa – ce lo spiega bene Figes – un’alleata dell’artista e aveva reputato la missione di quest’ultimo principalmente spirituale. All’amico Gruzinkij avrebbe detto: «La chiesa del villaggio è l’unico luogo in cui il contadino può fare esperienza della bellezza». Tale bellezza si materializza nell’icona, poiché in essa avviene «l’epifania del Trascendente», oltre che nella natura la quale – lo spiega Evdokimov – si trasforma in «roveto ardente» poiché irradia il Trascendente stesso che in essa si è trasfuso.

L’icona è immagine conduttrice dell’ortodosso durante il rito: contemplarla significa assumere la migliore disposizione d’animo per prendervi parte. Tale funzione può trasformarsi in presenza. Uno ieromonaco del monastero di Optina Pustyn’, il complesso monastico più famoso di tutta la Russia (anche perché fu visitato da Dostoevskij, Gogol’, i fratelli Kireevskij, alcuni membri della famiglia imperiale, nonché – per ben cinque volte – da Tolstoj) scrisse così nel suo diario (vale la pena leggere quasi interamente il passo, da me tradotto, perché in esso le icone fungono da guida liturgica che prepara al rito, inducendo nel fedele il pentimento e dunque disponendolo nella migliore delle condizioni al rito stesso): «Mentre mi trovavo in chiesa [...] mi sentivo circondato non dalle icone dei santi, ma da quegli stessi santi che esse raffiguravano. Mentre era in corso il servizio religioso, essi riempivano la chiesa condividendone lo spazio con me. Era inutile distogliere i miei occhi dai loro volti per nasconderli in qualche angolo buio: quelle creature divine non mi guardavano negli occhi, ma erano in grado di far penetrare il loro sguardo direttamente nel mio cuore. E dove mai avrei potuto nascondere il mio cuore? Allora mi rassegnavo a perseverare nella mia impotenza e nella mia indegnità, al cospetto di quei loro occhi che tutto erano in grado di scrutare e penetrare. I miei pensieri impuri, pieni di timore nei confronti dello sguardo di quegli esseri divini, si nascondevano da sé e cessavano di tormentarmi; il mio cuore, infiammato dal fuoco della sua stessa impurità, cominciava a bruciare grazie a quello del pentimento; era come se il mio corpo si congelasse e io iniziavo a sentire la mia indegnità, il mio continuo errare, con tutto il mio essere fino alle dita dei piedi e delle mani».

L’icona è anche immagine-guida nella vita quotidiana e familiare. In ogni casa russa non manca un gruppo più o meno nutrito di icone, davanti alle quali arde una lampada sospesa in genere a una triplice catena: nella tradizione slava la sede contenente tali icone viene definita «Angolo della Bellezza». Come si vede, l’icona è guida nel pubblico e nel privato: l’Invisibile, cioè il vero Bello, l’ha scelta come spazio fisico in cui manifestarsi e da cui irradiarsi. Inoltre se Dio ha scelto di incarnarsi, e dunque di abitare un corpo fisico, a maggior ragione bisognerebbe credere che l’icona contenga realmente il Divino, poiché il Divino stesso ha scelto di rendersi visibile: non l’uomo ha antropomorfizzato Dio, ma Dio s’è antropomorfizzato da sé (appare ovvio che gli iconoclasti, negando che Dio potesse essere rappresentato, negavano implicitamente anche il mistero dell’Incarnazione). Colui che realizza l’icona non è un artista, ma un tramite: l’artista è Dio.

Alla luce di quanto appena affermato, risulta ancora più significativa la critica che l’idealista Evdokimov rivolse alla teologia occidentale, rea di avere perduto di vista la portata spirituale dell’arte sacra. Il culmine della parabola discendente sarebbe per lui rappresentato dall’adozione della corporeità, significata dall’introduzione della prospettiva e del chiaroscuro, nonché dal trattamento plastico dei soggetti religiosi, mentre l’arte orientale continuava a mantenersi entro i limiti della prospettiva inversa e di un’impalpabile bidimensionalità (per inciso, non va tuttavia dimenticato che esiste anche una tradizione del rilievo nell’arte bizantina, ma l’icona ebbe sempre il primato). Inoltre l’arte sacra occidentale diventa sempre più allegorica, perdendo il contatto con l’immagine autentica del Divino.

Torniamo per un momento a Dostoevskij e a Tarkovskij. E se la bellezza cui essi alludono fosse proprio Dio e non (ciò vale soprattutto per il caso del citato romanzo dostoevskijano) quella puramente estetica? Esiste una cospicua letteratura riguardante la spiritualità dello scrittore russo: non solo egli si recò al monastero di Optina per cercare pace dopo avere patito la perdita di un figlio di neppure tre anni che amava intensamente, ma possedette molti testi sull’ortodossia e sull’esicasmo (alcuni gli venivano procurati da una libreria specializzata di San Pietroburgo, altri gli furono donati dai monaci optiniani). Tornato da Optina, si rimise a lavorare alla stesura dei Karamazov con rinnovata energia, ma soprattutto con una più sublime ispirazione: l’estasi di Alëša al cospetto della bellezza spirante dal monastero in cui vive Zosima altro non è che quella che Fëdor stesso dovette provare, immergendosi nella bellezza trasudante da Optina. E quella bellezza anche per lui era Dio. Andrej Tarkovskij dovette pure pensare che la bellezza suprema sia Dio. Non solo girò il capolavoro cinematografico Andrej Rublëv, ispirandosi liberamente a quel poco che si conosce del grande iconografo, ma fu perennemente alla ricerca di Dio: lo cercò in Italia e il risultato fu l’incontro con la Vladimirskaja di Portonovo, di cui ci parla in Martirologio; lo vide incarnato nell’icona della Trinità, forse la più nota tra quelle dipinte dal citato Andrej Rublëv.

Ciò che fin qui è stato discusso potrebbe essere sufficiente per dimostrare quanto l’idea di bellezza insita nell’ortodossia abbia permeato di sé l’anima russa: il russo è credente per indole. Lo sapeva bene il già citato Anton Čechov. Proprio con l’affermazione tratta da un suo racconto desidero concludere: «Per quanto possa giudicare da me stesso, dalle persone che ho conosciute vivendo, da tutto ciò che mi s’è svolto intorno, questa facoltà [la fede] è intrinseca al popolo russo in grado cospicuo. La vita russa ci si presenta come una serie ininterrotta di moti di fede e d’entusiasmo mistico, mentre l’incredulità o la negazione son cose di cui non conosce (se volete saperlo) neanche l’odore». Il russo crede nella forma più alta di bellezza: Dio. Perciò si salverà.

Ivo Flavio Abela

27 marzo 2021