lunedì 6 giugno 2022

Incomunicabilità, segni, parole e amore nel romanzo di Tommaso Avati «Il silenzio del mondo»

Una donna di cuori. E poi Rosa, Laura e Francesca, l’una figlia dell’altra: Francesca lo è di Laura, Laura lo è di Rosa. Tutt’e tre sorde dalla nascita. La loro sordità non è solo un handicap, ma è anche metafora di un’incomunicabilità arginata tuttavia dall’amore. Ce ne parla Tommaso Avati nel suo bellissimo Il silenzio del mondo (Neri Pozza, 2022). La storia delle tre donne attraversa almeno un novantennio: Rosa nasce e diventa adulta nell’Italia rurale e fascista degli anni Trenta e Quaranta, Laura negli anni Settanta, Francesca nella temperie tecnologica dei nostri giorni.

Rosa è stata abbandonata insieme a una carta da gioco tagliata a metà, raffigurante la donna di cuori. Viene adottata da una coppia di contadini che non riescono ad avere un figlio in grado di sopravvivere al parto più di due settimane. L’ultima loro bimba muore nello stesso giorno in cui è nata, contravvenendo alle convinzioni della madre, secondo la quale ad ogni gravidanza il nascituro ha avuto una vita lunga pochi giorni in più del precedente. I due sfortunati coniugi accettano il consiglio di adottare allora un figlio. Preferiscono comunque prendere con sé una bambina: hanno saputo che per una femmina riceveranno un sussidio di mantenimento fino alla maggiore età. Con loro vive il fratello cieco del capofamiglia, per il quale Rosa è una sorta di figlia. Il legame tra lo zio e la nipote adottiva si rafforza soprattutto durante le ore trascorse in casa l’uno accanto all’altra: lui non può vederla, lei non può sentirlo, ma i due stanno bene insieme. Rosa apprende quindi un inedito codice di segni da una donna conosciuta casualmente (le parole di quest’ultima vengono fuori dalle dita, proprio come nell’immagine barthesiana che Avati insegue fin dall’esergo): inizia così a percepirsi nel profondo, a elaborare concetti ai quali i segni man mano appresi danno forma, a concepire il discorso interiore. Più avanti la ritroveremo a Roma dove concepirà, senza comprenderlo, la figlia Laura.

Laura ha la fortuna di vivere la propria sordità in modo consapevole, sebbene le venga impedito dal padre di usare i segni quando comunica con la madre. Poi s’innamora, si sposa, ma gradualmente si chiude in se stessa e rifiuta di comunicare con coloro che per lei sono i diversi: gli udenti. I suoi progressi sulla via dell’incomunicabilità sono paralleli alla crisi sempre più profonda che caratterizza il suo rapporto con il marito fedifrago. Da quell’urgenza di comunicare che Laura ha sentito tanto più forte quanto più aumentavano i divieti paterni di usare i segni, la donna approda al rifiuto quasi totale della comunicazione. Fallisce anche quella con la figlia Francesca, che fin da bambina ha instaurato con lei un rapporto conflittuale, preferendole il padre. Nemmeno la condivisione del codice di segni riesce ormai ad avvicinarle. Inoltre per Laura l’uomo udente è anche colui che tradisce e abbandona. Reagisce nel peggiore dei modi quando scopre che l’amore della figlia è proprio un udente, come Rosa aveva reagito negativamente quando aveva saputo che Laura era innamorata di un udente.

Avati, però, riserva al lettore alcune sorprese e, man mano che procede nella narrazione, crea una struttura ad anello: le vicende di Francesca si confonderanno con quelle dell’ormai defunta Rosa, grazie alla scoperta di un segreto che Rosa ha mantenuto fino alla morte. Quel segreto renderà affini Rosa e Francesca a tal punto da mettere in crisi anche le granitiche certezze di Laura: l’amore, nell’accezione più elevata della parola, ricomporrà l’esistenza delle tre donne, sebbene parzialmente a posteriori, rendendole parti di un unico ciclo vitale. Avati ci farà anzi tornare ancora più indietro nel tempo: una culla, una signora in preghiera, le sue dita intrecciate tanto da indolenzirsi, il vento, una carta da gioco con una donna di cuori. Scopriremo allora che le protagoniste del romanzo non sono tre ma quattro; comprenderemo che all’origine della sordità di Rosa, Laura e Francesca si pone anche un abbandono (e non di un marito ai danni della moglie). Se il ciclo comprendente le tre esistenze è un anello, il finale è il diamente che vi è incastonato.

Tommaso Avati, sordo fin dalla nascita, ha trattato la sordità, ma ha anche evitato di fare mera autobiografia (quella, spesso stucchevole, di cui patisce tanta letteratura a noi contemporanea), raccontando di tre donne (anzi quattro). Ha scelto non un lungometraggio, ma la letteratura, usando peraltro una scrittura bella, nitida e priva di orpelli esornativi. E proprio nella letteratura di oggi (quella alta) Il silenzio del mondo merita un posto speciale.

Ivo Flavio Abela





venerdì 3 giugno 2022

I Piccolo e il mistero della vita invisibile in «Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata» di Alberto Samonà

Giulio, innamorato della sua Palermo  ̶  quella ottocentesca e primonovecentesca delle grandi famiglie aristocratiche, in cui Wagner aveva composto parte del suo Parsifal  ̶  e appassionato di filosofia e occultismo, si reca nel 2003 alla villa in cui sono vissuti alcuni membri della famiglia Piccolo, sulle colline nei pressi di Capo d’Orlando. Il pretesto gli viene fornito da Bent Parodi, discendente per parte materna addirittura da Hans Christian Andersen e presidente, a partire dagli anni Ottanta, della Fondazione di cui la tenuta è ancora oggi sede. Bent aveva organizzato un convegno cui Giulio avrebbe partecipato con la sua relazione dal titolo Alchimia e trasmutazione dei metalli come paradigma della trasformazione di sé. Tale situazione ci viene presentata da Alberto Samonà lungo le prime pagine del suo Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata (Rubbettino, 2021), sebbene l’incipit vero e proprio focalizzi la nostra attenzione sulla figura del barone Casimiro Piccolo senior. A quest’ultimo si deve la ristrutturazione di un’antica dimora, verso la fine dell’Ottocento, che sarebbe diventata appunto Villa Piccolo e in cui lo stesso Casimiro senior si sarebbe stabilito, stanco di una Palermo segnata dal modernismo galoppante e dalla vita mondana per lui ormai vuota. Isolarsi sulle colline di Capo d’Orlando significava assaporare il gusto della natura e stabilire un contatto con la parte più profonda di se stesso.

I figli di Casimiro senior erano anche il suo cruccio: Giuseppe viveva dissipando il denaro di famiglia e impegnandosi in avventure extraconiugali, una delle quali  ̶  con una ballerina conosciuta al Teatro Politeama  ̶  ne causò il trasferimento a Sanremo, lontano dalla Sicilia nella quale mai sarebbe tornato; la figlia pativa di depressione, aveva sposato un conte piemontese e si era trasferita a Torino, dove occasionalmente riceveva la visita della madre, Agata Moncada Notarbartolo. Insomma né l’uno né l’altra manifestavano il minimo interesse verso la tenuta amata dal padre e verso ciò che essa rappresentava per lui. Ma Casimiro avrebbe avuto la soddisfazione di vedere la nuora (moglie di Giuseppe e ormai separata da lui) e i tre nipoti stabilirsi nella sua villa. Dei tre Lucio divenne poeta, Agata Giovanna (che fu sempre chiamata semplicemente Giovanni) era appassionata di botanica e scrisse un piccolo libro su una pianta rarissima che cresceva nel giardino, Casimiro junior (che dunque portava lo stesso nome del nonno) fu fotografo e pittore provetto, si appassionò di occultismo ed era coltissimo e capace di leggere autori  ̶  alcuni ancora sconosciuti in Italia  ̶  in lingua originale.

Rendeva interessante ed inquietante Casimiro junior la sua passione per quelle stranissime creature che nel nostro immaginario si legano alle favole e alle antiche saghe mitologiche soprattutto nordiche e greche. Egli affermava di vederle durante le sue passeggiate intorno alla casa. Quando ciò capitava, le riproduceva in pittura: elfi, folletti, streghe, lo stesso dio Pan e ancora inquietanti personaggi dalle caratteristiche a metà tra l’umano e l’animale. A ciò si aggiunga la realizzazione di un vero e proprio cimitero dei cani che la famiglia aveva posseduto nel corso degli anni e che erano morti, insieme a qualche gatto: ogni animale aveva la sua lapide con tanto di nome inciso; due volte alla settimana venivano cambiati i fiori sulle loro tombe, affinché essi fossero sempre freschi.

Del resto i cani erano reputati i veri custodi della villa: garantire loro una sepoltura serviva non solo a preserverne la memoria, ma a riconoscerne il ruolo di protettori del luogo che essi  ̶  secondo Casimiro  ̶  continuavano a esercitare poiché la loro vita non era finita, ma aveva semplicemente abbandonato il piano fisico. Casimiro, intervistato da Vanni Ronsisvalle nel 1967 (l’intervista è contenuta nel documentario Il favoloso quotidiano prodotto dalla Rai), affermò di avere sentito il latrare di almeno un paio dei cani sepolti in quell’originale cimitero (e non era certo stato il solo a udirli). Quel complesso di sepolture canine (e anche un po’ feline) era la sede ideale di tutte le energie vitali, di tutti gli esseri strani e misteriosi che appartengono allo stato intermedio tra quella che per noi è la vita materiale e reale e ciò che invece non vediamo, ma che Casimiro “vedeva” poiché era riuscito ad attivare una modalità percettiva che si spingeva oltre quella garantita dai sensi. In verità tutti e tre i Piccolo rispettavano la morte e in essa vedevano un evento non certo destinato a troncare i rapporti tra quanti essa si porta via e coloro che le sopravvivono: scomparsa la madre, i tre Piccolo continuarono a dialogare con lei e non mancarono mai di fare apparecchiare anche per lei in tavola ad ogni pasto, spesso consumato in orari improbabili. Per il resto la casa era stata strutturata in modo tale che gli occupanti potessero anche non incontrarsi per giorni.

Casimiro  ̶  si è detto  ̶  era anche coltissimo. Aveva provato a scrivere poesie e nove di queste furono pubblicate con il patrocinio di Eugenio Montale. Era stimato dal cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che trascorreva lunghi periodi nella tenuta dei Piccolo e proprio con Casimiro dibatteva a lungo  ̶  sempre all’insegna dell’arguzia e della più raffinata ironia  ̶  sulla letteratura e sui nomi di giovani e rampanti uomini di lettere che i due avrebbero voluto introdurre nel loro ambiente culturale: i due si adagiavano su uno dei tanti sedili lapidei disseminati nell’ampio giardino e si fronteggiavano per ore. Tomasi riusciva a essere particolarmente tagliente (ce lo ricorda, del resto, anche Salvatore Silvano Nigro nel suo Il principe fulvo, di cui a suo tempo ho parlato qui: https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html). Era amato dai cugini che lo chiamavano «mostro» per la sua vastissima formazione. E «Il mostro» si firmava l’autore de Il Gattopardo quando vergava le sue lettere ai Piccolo. Amava la loro villa perché vi ritrovava l’atmosfera che aveva respirato durante l’infanzia e di cui rimane traccia nei suoi Racconti. Avrebbe desiderato tornarvi, come testimonia una sua lettera scritta quando era già ricoverato a Roma a causa della malattia: il desiderio rimase tale a causa della morte poi sopraggiunta. I Piccolo e Tomasi furono davvero gli ultimi gattopardi: gli ultimi membri di un’aristocrazia che non era tale solo per ragioni araldiche, ma anche perché era il riflesso di un modo superiore di sentire. Poi  ̶  come Tomasi del resto scrisse nel suo romanzo a proposito del principe Fabrizio Salina  ̶  avrebbero preso il sopravvento jene e sciacalletti (insieme al frac, dal taglio mostruoso, che Calogero Sedara indossa per il suo ingresso ufficiale in casa Salina).

Quanto fin qui riferito non è affatto esaustivo dei contenuti del libro, ma sarebbe ingiusto rivelare al lettore le vicende di Giulio e dei Piccolo, quelle di altri personaggi tra i quali riveste un ruolo decisivo Edith, un’interessante e alquanto inafferrabile studiosa che prende parte allo stesso convegno cui anche Giulio è stato invitato. Fin d’ora si sappia però che Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata è  ̶  al di là della ferrea e documentata ricostruzione dei rami paterno e materno dei fratelli Piccolo, spesso colma di particolari inediti o comunque ignoti ai più  ̶  un libro in cui la visionarietà di Casimiro viene significata con una prosa elegante e leggera: Alberto Samonà (che forse ha trasfuso parte di sé in Giulio, erede ideale di Casimiro) ha scritto un raffinato, colto e appassionato divertissement.

Ivo Flavio Abela

giovedì 2 giugno 2022

Il disincanto e la notte delle parole (articolo pubblicato su «La Sicilia» il 9 giugno 2022)

La periferia di Milano. Il boschetto dei tossici vuoto: appena sgomberato dagli sbirri. Il cavalcavia della tangenziale. I mezzi che vi sfrecciano verso non si sa quale meta. Gli ultimi sprazzi di luce tra le nuvole. Una donna sta morendo di droga: è solo un mucchio di ossa che si abbandonano. Non percepisce la propria agonia. Muore desiderando ancora un’altra dose. Il cielo è grigio e sta per colmarsi di buio in un giorno tra inverno e primavera. Tale la situazione che Roberto Pecoraro ci presenta nell’incipit del suo Breath, appena pubblicato da Algra Editore. Il libro (e mi limito a definirlo semplicemente così o  ̶ occasionalmente  ̶ “testo”, poiché Breath non è incamerabile in uno specifico genere letterario. E del resto a che cosa servirebbe ascriverlo a una categoria definita?) è ambientato in una Milano fredda e meccanica, in cui domina un grigio esanime che ora si dissolve sinesteticamente in un iper-ricorrente vuoto, ora vira verso il nero della caligine: dello smog che intacca, marchiandola di cinereo, la pelle di tossici e zingari.


Si snoda quindi una teoria di personaggi, ciascuno con il proprio brandello di vita. Si intravede la possibilità che quei brandelli possano più avanti ricomporsi in un’unità sistemica come tessere di un puzzle. Ma l’io narrante non riesce a non prendere parte a ciò che racconta e inizia a manifestarsi, tra un personaggio e l’altro, dedicandosi qualche pagina: prima quasi timidamente, poi in modo massiccio fino ad impadronirsi della scena e a defenestrare il tossico, la cameriera d’albergo, il volontario, la zingara, l’imprenditore, il suo anziano padre. In verità l’io narrante (e l’autore, poiché è difficile distinguere l’uno dall’altro) compie un sacrifico: la rinuncia a quella che  ̶ secondo i presunti parametri di un lettore ipotizzato  ̶ è la narrazione, il rifiuto di dominare i personaggi piegandoli alla propria regìa. Ed essi vengono lasciati liberi di vivere la loro vita. Perché di fatto essi vivono di vita propria, se è vero che talvolta Pecoraro dichiara che non sa che cosa ne sarà di loro e che lo scoprirà man mano che la sua scrittura progredirà. Letteratura e vita appaiono, così, quasi incompatibili. Inutile chiedersi quale sarà allora il futuro dei personaggi di Pecoraro. Non lo sapremo mai perché lo stesso Pecoraro rinuncia a indagarlo. Sappiamo solo che continueranno a vivere al di là di Breath, in una dimensione immateriale quanto informe, come informe e immateriale è tutto ciò che ci è ignoto. Ed è così che Breath diventa scavo introspettivo sempre più profondo e ampio, al punto da assumere la forma dell’espressione lirica di un se stesso che finora si è sentito costretto a fare letteratura, cioè (nel caso di Pecoraro) a scrivere da narratore.


Il rifiuto della letteratura: Pecoraro quasi si ribella. Vuole esprimersi tramite le parole, ma rivendica la libertà di usarle come crede. Il suo linguaggio assume una carica fortemente metaforica. Non può essere che così, soprattutto quando egli insegue le libere associazioni che si creano nella sua mente. Continuano  ̶ è vero  ̶ a essere prodotte proposizioni compiute e definite. Ma la loro giustapposizione rende labile il confine tra monologo interiore e flusso di coscienza (nonostante l’uso dell’interpunzione). Quando ciò accade, anche la lingua perde la citata carica metaforica: il portato dei traslati si annulla perché, lungo lo snodarsi delle catene di libere associazione  ̶ in cui non esiste logica se non quella blanda dei moti dell’animo  ̶ il linguaggio stesso finisce per essere sottoposto a un trattamento denotativo-referenziale, che traduce fedelmente sulla carta quelle stesse catene associative. L’approdo alla lirica arriva presto: ampi stralci del testo passerebbero per poesia, se solo fossero concepiti metricamente alla stregua di versi poetici.


Rinuncia alla narrazione, abbiamo visto. Urgenza di usare le parole con l’unico limite di rispettare il meccanismo emotivo grazie a cui la mente tesse le catene associative. E se tutto ciò fosse solo la spia di un’esigenza di silenzio? Tacere per potere vivere e per lasciare che altri (i personaggi) vivano senza essere “spiati” dall’autore? Forse è così, se pensiamo che il testo di Pecoraro ci svela anche il “laboratorio” dell’autore: i suoi pensieri, il suo rapporto con lo stesso testo in fieri, la strategia compositiva, le false partenze, le riformulazioni, i dubbi, le scuse al lettore per il modo di trattare le vicende, l’abbandono del lettore stesso che a un certo punto inizia a sentirsi un po’ disorientato. Ma proprio il disorientamento porta il fruitore a comprendere l’esperimento (non so quanto il termine possa essere appropriato, ma non riesco a trovarne un altro) condotto dall’autore. Insomma Breath merita di essere letto per capire che cosa sia possibile fare tramite la letteratura, anche quando l’autore vuole rinunciarvi.


Ivo Flavio Abela