venerdì 3 giugno 2022

I Piccolo e il mistero della vita invisibile in «Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata» di Alberto Samonà

Giulio, innamorato della sua Palermo  ̶  quella ottocentesca e primonovecentesca delle grandi famiglie aristocratiche, in cui Wagner aveva composto parte del suo Parsifal  ̶  e appassionato di filosofia e occultismo, si reca nel 2003 alla villa in cui sono vissuti alcuni membri della famiglia Piccolo, sulle colline nei pressi di Capo d’Orlando. Il pretesto gli viene fornito da Bent Parodi, discendente per parte materna addirittura da Hans Christian Andersen e presidente, a partire dagli anni Ottanta, della Fondazione di cui la tenuta è ancora oggi sede. Bent aveva organizzato un convegno cui Giulio avrebbe partecipato con la sua relazione dal titolo Alchimia e trasmutazione dei metalli come paradigma della trasformazione di sé. Tale situazione ci viene presentata da Alberto Samonà lungo le prime pagine del suo Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata (Rubbettino, 2021), sebbene l’incipit vero e proprio focalizzi la nostra attenzione sulla figura del barone Casimiro Piccolo senior. A quest’ultimo si deve la ristrutturazione di un’antica dimora, verso la fine dell’Ottocento, che sarebbe diventata appunto Villa Piccolo e in cui lo stesso Casimiro senior si sarebbe stabilito, stanco di una Palermo segnata dal modernismo galoppante e dalla vita mondana per lui ormai vuota. Isolarsi sulle colline di Capo d’Orlando significava assaporare il gusto della natura e stabilire un contatto con la parte più profonda di se stesso.

I figli di Casimiro senior erano anche il suo cruccio: Giuseppe viveva dissipando il denaro di famiglia e impegnandosi in avventure extraconiugali, una delle quali  ̶  con una ballerina conosciuta al Teatro Politeama  ̶  ne causò il trasferimento a Sanremo, lontano dalla Sicilia nella quale mai sarebbe tornato; la figlia pativa di depressione, aveva sposato un conte piemontese e si era trasferita a Torino, dove occasionalmente riceveva la visita della madre, Agata Moncada Notarbartolo. Insomma né l’uno né l’altra manifestavano il minimo interesse verso la tenuta amata dal padre e verso ciò che essa rappresentava per lui. Ma Casimiro avrebbe avuto la soddisfazione di vedere la nuora (moglie di Giuseppe e ormai separata da lui) e i tre nipoti stabilirsi nella sua villa. Dei tre Lucio divenne poeta, Agata Giovanna (che fu sempre chiamata semplicemente Giovanni) era appassionata di botanica e scrisse un piccolo libro su una pianta rarissima che cresceva nel giardino, Casimiro junior (che dunque portava lo stesso nome del nonno) fu fotografo e pittore provetto, si appassionò di occultismo ed era coltissimo e capace di leggere autori  ̶  alcuni ancora sconosciuti in Italia  ̶  in lingua originale.

Rendeva interessante ed inquietante Casimiro junior la sua passione per quelle stranissime creature che nel nostro immaginario si legano alle favole e alle antiche saghe mitologiche soprattutto nordiche e greche. Egli affermava di vederle durante le sue passeggiate intorno alla casa. Quando ciò capitava, le riproduceva in pittura: elfi, folletti, streghe, lo stesso dio Pan e ancora inquietanti personaggi dalle caratteristiche a metà tra l’umano e l’animale. A ciò si aggiunga la realizzazione di un vero e proprio cimitero dei cani che la famiglia aveva posseduto nel corso degli anni e che erano morti, insieme a qualche gatto: ogni animale aveva la sua lapide con tanto di nome inciso; due volte alla settimana venivano cambiati i fiori sulle loro tombe, affinché essi fossero sempre freschi.

Del resto i cani erano reputati i veri custodi della villa: garantire loro una sepoltura serviva non solo a preserverne la memoria, ma a riconoscerne il ruolo di protettori del luogo che essi  ̶  secondo Casimiro  ̶  continuavano a esercitare poiché la loro vita non era finita, ma aveva semplicemente abbandonato il piano fisico. Casimiro, intervistato da Vanni Ronsisvalle nel 1967 (l’intervista è contenuta nel documentario Il favoloso quotidiano prodotto dalla Rai), affermò di avere sentito il latrare di almeno un paio dei cani sepolti in quell’originale cimitero (e non era certo stato il solo a udirli). Quel complesso di sepolture canine (e anche un po’ feline) era la sede ideale di tutte le energie vitali, di tutti gli esseri strani e misteriosi che appartengono allo stato intermedio tra quella che per noi è la vita materiale e reale e ciò che invece non vediamo, ma che Casimiro “vedeva” poiché era riuscito ad attivare una modalità percettiva che si spingeva oltre quella garantita dai sensi. In verità tutti e tre i Piccolo rispettavano la morte e in essa vedevano un evento non certo destinato a troncare i rapporti tra quanti essa si porta via e coloro che le sopravvivono: scomparsa la madre, i tre Piccolo continuarono a dialogare con lei e non mancarono mai di fare apparecchiare anche per lei in tavola ad ogni pasto, spesso consumato in orari improbabili. Per il resto la casa era stata strutturata in modo tale che gli occupanti potessero anche non incontrarsi per giorni.

Casimiro  ̶  si è detto  ̶  era anche coltissimo. Aveva provato a scrivere poesie e nove di queste furono pubblicate con il patrocinio di Eugenio Montale. Era stimato dal cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che trascorreva lunghi periodi nella tenuta dei Piccolo e proprio con Casimiro dibatteva a lungo  ̶  sempre all’insegna dell’arguzia e della più raffinata ironia  ̶  sulla letteratura e sui nomi di giovani e rampanti uomini di lettere che i due avrebbero voluto introdurre nel loro ambiente culturale: i due si adagiavano su uno dei tanti sedili lapidei disseminati nell’ampio giardino e si fronteggiavano per ore. Tomasi riusciva a essere particolarmente tagliente (ce lo ricorda, del resto, anche Salvatore Silvano Nigro nel suo Il principe fulvo, di cui a suo tempo ho parlato qui: https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html). Era amato dai cugini che lo chiamavano «mostro» per la sua vastissima formazione. E «Il mostro» si firmava l’autore de Il Gattopardo quando vergava le sue lettere ai Piccolo. Amava la loro villa perché vi ritrovava l’atmosfera che aveva respirato durante l’infanzia e di cui rimane traccia nei suoi Racconti. Avrebbe desiderato tornarvi, come testimonia una sua lettera scritta quando era già ricoverato a Roma a causa della malattia: il desiderio rimase tale a causa della morte poi sopraggiunta. I Piccolo e Tomasi furono davvero gli ultimi gattopardi: gli ultimi membri di un’aristocrazia che non era tale solo per ragioni araldiche, ma anche perché era il riflesso di un modo superiore di sentire. Poi  ̶  come Tomasi del resto scrisse nel suo romanzo a proposito del principe Fabrizio Salina  ̶  avrebbero preso il sopravvento jene e sciacalletti (insieme al frac, dal taglio mostruoso, che Calogero Sedara indossa per il suo ingresso ufficiale in casa Salina).

Quanto fin qui riferito non è affatto esaustivo dei contenuti del libro, ma sarebbe ingiusto rivelare al lettore le vicende di Giulio e dei Piccolo, quelle di altri personaggi tra i quali riveste un ruolo decisivo Edith, un’interessante e alquanto inafferrabile studiosa che prende parte allo stesso convegno cui anche Giulio è stato invitato. Fin d’ora si sappia però che Bonjour Casimiro. Il barone e la villa fatata è  ̶  al di là della ferrea e documentata ricostruzione dei rami paterno e materno dei fratelli Piccolo, spesso colma di particolari inediti o comunque ignoti ai più  ̶  un libro in cui la visionarietà di Casimiro viene significata con una prosa elegante e leggera: Alberto Samonà (che forse ha trasfuso parte di sé in Giulio, erede ideale di Casimiro) ha scritto un raffinato, colto e appassionato divertissement.

Ivo Flavio Abela

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