martedì 31 agosto 2021

Romàioi ed Elleni (greci contro greci) in «Rumelia» del viaggiatore-antropologo Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Former
Rumelia
Adelphi 2021
Patrick Leigh Fermor (1915-2011) raccoglie in sei parti osservazioni, memorie, risultati di ricerche, pensieri relativi al suo peregrinare nella Grecia settentrionale, cioè in quell'area situata a nord dell'Etolia e del golfo di Corinto, a est dell'Epiro, a sud della Macedonia, a ovest dell'Egeo, che suole essere chiamata Rumelia poiché ritenuta parte viva di quell'Impero bizantino, i cui fautori e sudditi venivano chiamati Romàioi: agli occhi di tutti i greci essi rappresentavano i continuatori dell'Impero romano che era sopravvissuto, nella sua pars Orientis, alla caduta di quello d'Occidente, fissata per convenzione al 476 d.C., ma di fatto già in fieri a partire dai primi raid barbarici nella penisola italica. Tali continuatori si erano sovrapposti, fusi, confusi, mescolati ai cristiani greci ed erano essi stessi diventati tali: l'Impero bizantino era dunque romano fin dalle sue origini, ma anche cristiano; la componente cristiana era greca e parlava greco: quello della κοινή διάλεκτος, nata e diffusasi sotto Alessandro Magno, com'è noto. A causa di una simile catena di prodigiose combinazioni e miscele, i greci cristiani dell'Impero bizantino finirono per essere considerati essi stessi romani (΄Ρωμαίοι) e la loro terra fu chiamata Rumelia (΄Ρουμέλια). E i romani d'Occidente? Non si rischiava di confonderli con quelli d'Oriente? No. Perché i romani d'Occidente dai greci furono chiamati "franchi", con una sfumatura spregiativa e connotata da un sentore di barbarismo (uso "barbarismo" non certo in riferimento al côté linguistico).

Il nostro magnifico scrittore non si fa ingabbiare nelle strettoie della "categoria" e, già a partire dalla prima parte del suo libro dedicata ai sarakatsani (assimilabili parzialmente ai clefti epiroti che resistettero ai turchi), per quanto concentri su loro l'attenzione che in genere va prestata a cosa o a persona "categorizzata" anche geograficamente, aggiunge però che i sarakatsani rappresentavano un fenomeno antropico individuabile anche fuori dalla Rumelia propriamente detta, cioè in altre aree greche montagnose, compresa un'appendice nell'isola di Creta. I sarakatsani erano pastori nomadi dal particolare abbigliamento: il pezzo forte era un mantello con cappuccio in pesante e poco raffinata lana di pecora; era molto rigido al punto che, se lo si fosse messo in piedi senza il suo indossatore dentro, si sarebbe retto autonomamente. Particolari poi le calzature con punte ricurve verso l'alto e una sorta di pon pon su ciascuna (qualcosa di simile indossano ai piedi i militari impegnati nel noto rituale del cambio della guardia in piazza Syntagma ad Atene).


Che cosa può esistere di più significativo da osservare per comprendere l'ethos di un popolo, se non un matrimonio? Quello dei sarakatsani è una festa che dura giorni e che tale è soprattutto per gli uomini, se è vero che le donne appaiono poco sulla scena della festa, a partire dalla sposa, costretta a rimanere al piano superiore della casa dello sposo, che è andata a rapirla a cavallo accompagnato dai suoi compari e armato: la donna deve rimanere seduta lungo una parete di quell'improvvisato gineceo, silenziosa e autorizzata a comunicare solo mediante cenni ed espressioni del viso. Tuttavia le donne non sembrano farsi un cruccio di tale ingiustizia. Anzi proprio a loro è riservata la libertà di parlare, e non solo nei contesti festivi nuziali, delle prodezze sessuali compiute dai mariti nella loro vita coniugale e dei dettagli anatomico-sessuali di questi ultimi, cosa che fanno con una disinvoltura e una malizia, al cospetto delle quali i loro uomini impallidirebbero per l'imbarazzo (e infatti lasciano fare fingendo indifferenza). E sono loro, le donne, che ornano cromaticamente la festa: indossano gonne i cui motivi decorativi richiamano quelli della ceramica geometrica che si diffuse già verso la fine del Medioevo Ellenico, suggerendo così l'ipotesi che i sarakatsani siano i continuatori e gli eredi di una popolazione che non avrebbe resistito alla scontro con i Dori invasori, ma che dunque non sarebbe scomparsa del tutto, (quantomeno "eticamente"). Inoltre medaglie e monete d'oro ornano vistosamente il collo della sposa e talvolta possono incorniciarne i capelli e pendere dalle sue orecchie, facendola così somigliare a certe sue antichissime e presunte ave.

Fermor penetra sempre più nei meandri di usi simili, menzionando innumerevoli dettagli grazie ai quali ci illumina anche sul rapporto tra i saraktsani e il divino (non possono non mancare, in una società legata alla terra e costretta spesso a sopravvivere fronteggiando le insidie che una natura incolpevole dispensa a piene mani): un divino spesso increspato da ampie falde di sincretismo su base pagana e magica.

Del resto un po' sicrentista appare lo stesso autore che, nella parte successiva del libro, narra la sua visita alle famose meteore di Kalambàka, cioè quei suggestivi monasteri ortodossi, ciascuno dei quali domina l'apice di una vetta circondata tutt'attorno da strapiombi da capogiro e da addensamenti nembiformi talvolta impenetrabili ai raggi solari e alla vista dell'uomo. Si raggiungono sul dorso di infaticabili bestie da soma, se non a piedi, ma piedi che devono essere avvezzi alla lotta contro le asperità geomorfologiche e a una spartana erranza. Fermor visita sei meteore, cioè quelle attive all'epoca della visita, perché altre da lontano ne vede: abbandonate a se stesse con il loro nobile contenuto di arredi sacri, icone e ossa monacali.

Aleggia lungo lo snodarsi di quasi trecento fitte pagine la consapevolezza del dissidio tra Romàioi propriamente definiti ed Elleni. Chiunque potrebbe pensare che insistere su tale argomento sia ozioso: non sta, del resto, l'autore parlando comunque di greci? Non sono in fin dei conti Elleni anche i Romàioi? Di certo è ciò che si chiederebbe un turista, un dilettante, un appassionato non sostenuto da una ferrata conoscenza delle cose, magari anche perduto in una visione oleograficamente onirica della Grecia. Ma Fermor sottolinea quanto la componente antropica romàica sia paradossalmente la vera custode delle tradizioni e degli usi di uomini che furono soppiantati dai Dori ("paradossalmente" perché non va dimenticato che i Romàioi sono tali innanzitutto perché, nella loro "preistoria", vi fu Roma, caput di una cultura altra), mentre gli Elleni (denominazione peraltro ripresa solo nel corso del Novecento e quasi dimenticata nei secoli addietro) costituiscono oggi gli eredi appunto di quei Dori che portarono in Grecia razionalità, rigore logico, pensiero filosofico. La questione viene affrontata nella terza parte del libro.

Di quanto qui riferito e di tanto altro (il libro contiene ancora tre parti) l'autore ci parla con entusiamo e amore, in una prosa piena di vita e accattivante, spesso infarcita di parti in cui Fermor usa liricamente la lingua: proprio come farebbe un poeta.

Ivo Flavio Abela


Breve appendice

Lo tsamikos è una danza popolare un tempo eseguita solo dagli uomini, nata nelle aree più continentali e montuose della Grecia (come i rilievi del Pindo), tipica dei clefti e dei sarakatsani (cfr. https://www.epiaspalathon.gr/politismos/topos-kai-xoroi-tou/tsamikos/). Se ne riporta qui un esempio, ma viene scelto un esempio volutamente non tradizionale: i versi sono di Nikos Gatsos, la musica di Manos Hatzidakis, la voce di Manolis Mitsias. Riflette comunque lo spirito della musica tradizionale per tsamikos (testo e traduzione qui: https://stixoi.info/stixoi.php?info=Translations&act=details&t_id=5752).