sabato 27 novembre 2021

Uscito il 25 novembre 2021

 


Soggiorno a Optina. Discesa nell’anima russa, di Ivo Flavio Abela, è un diario redatto nell’aprile 1993, durante un soggiorno al monastero di Optina Pustyn’, e poi integrato negli anni 2018-2020. A Optina sostarono Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, i fratelli Kireevskij e riposano due zie di Tolstoj, i citati fratelli e il genero di Puškin. Optina fu anche casa editrice e centro propulsore dello starčestvo. Lungo un percorso nutrito di letteratura, storia, iconografia e ortodossia – e non esente da risvolti noir – il narratore s’immerge gradualmente nell’anima russa. Gli è guida Vasilij, uno ieromonaco circondato da un’aura di inafferrabilità e di mistero.


Appaiono nel libro, per la prima volta, testimonianze del tutto inedite in Italia. Andrej Tarkovskij Jr. (il figlio dell’omonimo e grandissimo regista), Pål Kolstø (slavista egregio dell’Università di Oslo e specialista tolstojano – forse attualmente il più rappresentativo), Nedy John Cross (cantante e produttore cine-musicale) - ai quali va la gratitudine dell’autore – hanno peraltro fornito ciascuno un prezioso contributo.


«Sentivo che stava librandosi verso l’alto: una, due, tre volte. Ogni volta sempre più su. E lo visualizzavo mentre balzava, sospinto da invisibili mani angeliche, verso il cielo, nel tripudio degli svolazzi del mantello e del velo pendente dal klobuk. Ma – a differenza di Nabokov – non avevo bisogno di assimilarlo alle creature dipinte sulle volte delle chiese: Vasilij era già una di quelle creature [...]

Da stamane qui è uno scalpiccìo di tacchi che percorrono i viottoli per raggiungere le chiese, una fragranza di pollini e incenso che avvolge le narici e la mente, uno scampanio martellante amplificato da armonici aerei, un contrappunto ininterrotto di voci di basso e di baritono che si sovrappongono, s’intrecciano, si scambiano le parti, fuoriescono dalle chiese e intavolano un rapporto di dissonanza gradevole all’udito [...]

Mi sembra che le piaccia ascoltarmi. Adesso le parlerò di me. È vero che la notte è lunga, ma il tempo vola: forse lei teme che arrivi subito l’alba e che io possa dileguarmi. Se fossimo a casa mia, le avrei già offerto una bevanda calda: avremmo messo a bollire il samovar. E magari mia moglie l’avrebbe pure invitata a cena. Ma siamo qui. Pazienza: facciamo finta che i nostri provvisori seggi lapidei siano due morbide poltrone. Da dove potrei iniziare? Ecco: da Optina. Lei tace, ma io le leggo nell’anima: non vede l’ora di sapere tutto. Avvicini il viso. Sa? Sono energico, ma non sono più abituato a parlare a lungo e non so se riuscirò a mantenere un tono di voce sempre nitido. Ecco: così. Dunque…»

sabato 18 settembre 2021

Florenskij, Tarkovskij, Tjutčev, Dostoevskij... non li dimentichiamo

Leggendo Non dimenticatemi di Pavel Florenskij (cioè la raccolta delle lettere da lui inviate dal gulag alla moglie, ai figli e alla mamma, negli anni che precedono la sua morte per fucilazione), m'imbatto in alcune considerazioni relative a Fëdor Tjutčev e a Fëdor Dostoevskij: meritano di essere appuntate e meditate. Sono tratte da una lettera inviata alla figlia maggiore Ol'ga Pavlovna. In una sua missiva precedente, quest'ultima aveva chiesto al padre di parlarle proprio dei due grandi russi citati e gli esprimeva l'impressione che essi fossero molto simili. Perciò padre Pavel le rispondeva mettendola in guardia dall'errore consistente nell'averli vicendevolmente assimilati.

Le lettere di Florenskij ai familiari sono piene di meravigliose descrizioni e riflessioni relative ai luoghi che al povero deportato furono fatti attraversare prima del suo definitivo stabilirsi presso le ingrate isole Solovki. Ne descrive tutto: il cielo, il clima, le caratteristiche stagionali, la fauna, la flora, i corsi d'acqua. E ogni volta prega i figli di cercare ulteriori notizie riguardanti tali luoghi sugli atlanti e sui libri di geografia che egli ha dovuto lasciare in casa: insiste affinché i figli acquisiscano così nuove conoscenze e nel contempo partecipino alla vita del loro papà che è così lontano (quante volte conclude una lettera con le parole: «Non dimenticare il tuo papà!»).

Pavel Florenskij
Spesso si profonde in esposizioni scientifiche (quelle sul gelo sono affascinantissime), in consigli relativi al modo più efficace di costruire una propria enciclopedia di conoscenze che possa costituire una base solida per la vita e le occupazioni future, in ammonimenti fortemente educativi («Non tralasciare lo studio del tedesco e - se puoi - cerca di leggere le opere dei tedeschi in lingua originale, anche se a pezzetti»; «Non tralasciare la musica: studiala con calma e applicazione; ascolta e suona Mozart, Beethoven e Bach»), in suggestioni per l'incremento della fluidità del pensiero, dell'esposizione e della capacità di fare propria anche la musica insita nella lingua («Esercitati nel leggere a voce alta, scandendo ogni parola, poesie sia di autori stranieri, sia di nostri connazionali. Fallo anche solo per quindici minuti al giorno. Ti servirà per carpire sempre più profondamente il senso che ogni parola contiene e la materia fonico-ritmica che essa veicola»), ancora in spiegazioni relative alla letteratura.

Non fa mai mancare ai figli, alla moglie e alla mamma, parole di amore, sebbene scandite da una sorta di mantra: «Siete tutto per me: la mia vita è in voi. Anche se non sono spesso capace di esprimervi con le mie parole tutto il mio trasporto per voi. Per me siete tutto».

Andrej Tarkovskij
Qualche sera fa, in un momento di estrema amarezza (anzi forse ottenebrato da essa), postai sul mio account Facebook la copertina di questo libro, dicendo che si trattava di una ripresa di lettura. Eppure non lo ricordavo così: è come se l'avessi scoperto per la prima volta. Leggendolo, non ho potuto fare a meno di ripensare a Martirologio, cioè al diario del regista Andrej Tarkovskij, la cui lettura (avvenuta ormai circa sei o sette anni fa) lasciò alla mia coscienza un tesoro di riflessioni, descrizioni, dati, che mi fecero amare Tarkovskij ancora più di quanto fosse accaduto fino ad allora. Forse perché un artista va ammirato, apprezzato, adorato, venerato (Tarkovskij è sempre stato un vero mito della mia vita fin da quando, adolescente, vedevo in tv il trailer del suo Nostalghia). Ma può essere amato (come un familiare, un fratello, un amico) quando se ne percepisce anche la "materia" umana (e un diario è l'ideale per un tale scopo).

Leggendo le lettere di Florenskij mi accade la stessa cosa: dimentico per un attimo Le porte regali o La filosofia del culto e mi affeziono all'interiorità di un uomo mite, giusto, geniale, profondo, multiforme, ammazzato ingiustamente in un lager sovietico proprio perché genio scomodo. Per me sono molto simili Tarkovskij e Florenskij, sebbene il primo a volte avventato e istintivo, il secondo equilibrato e misurato. Ma la Bellezza russa (la maiuscola è voluta) li accomuna in modo sorprendente. Se la Grecia è per me la terra degli dei, la Russia è quella di Dio.

Inutile dire quanto per me sia indimenticabile quel giorno in cui, agli inizi del lockdown, sentii al telefono per la prima volta Andrej Tarkovskij Jr., il figlio del regista (ma questo è noto a tutti ormai da tempo. Però il fatto che io torni spesso con la memoria a quell'evento forse testimonia quanto mi abbia emotivamente segnato). E proprio lunedì scorso, in uno degli scambi di messaggi che continuano ad avvenire con lui, Andrej Jr. mi diceva della ristrutturazione in corso di una casa in Russia che - potrei inferire da alcuni dati - potrebbe essere proprio quella menzionata da Andrej padre nel suo diario.

Fëdor Tjutčev
Ma ero partito dall'idea di riportare qui una breve sintesi delle riflessioni di Florenskij su Tjutčev e Dostoevskij e mi sono lasciato prendere la mano. Quindi mi fermo e... eccole. Notevole mi sembra il concetto di caos in Tjutčev: vi ravviso quasi una sfumatura di materialismo epicureo: «L'umanità, con tutte le sue istituzioni e con tutti i suoi concetti, non è che una, sia pur importantissima, creatura del caos».

Quando - spiega per lettera Florenskij alla figlia - il caos sovverte i concetti umani, non lo fa per dispetto, ma semplicemente perché non si accorge di loro. Li calpesta imponendo all'uomo un'altra legge suprema che - per quanto possa rivelarsi talvolta terribile - viene percepita dallo stesso essere umano come la vera bellezza del mondo: «un velo intessuto d'oro», per usare le parole dello stesso Tjutčev. Rendersi attivamente partecipi di questa gioia è vivere in pieno.

A differenza di Tjutčev, Dostoevskij non si eleva fino alla comprensione totale e vera di questa legge suprema. Egli, infatti, vi individua solo la lotta del caos contro il bene, finalizzata a creare sofferenza per la sofferenza. Anzi finisce per confondere tale legge suprema con l'azione umana volta al male. Per lui il caos non è il motore della vita; semmai è ciò che tende a distruggerla e a sopprimerla.

Fëdor Dostoevskij
Se Tjutčev esce dall'uomo e individua nella natura la sede primigenia del caos e dunque l'origine prima della bellezza, Dostoevskij non comprende proprio questo concetto: egli vede il caos nell'uomo e non nella natura. Eppure - aggiunge Florenskij - quando l'autore dei Karamazov riesce quasi inconsapevolmente a liberarsi di tale visione e quindi "esce" dall'uomo stesso, dà al «fondamento» della natura il nome di Terra. Il concetto dostoevskijano di Terra è sensibilmente affine a quello della Notte di Tjutčev. La Notte di Tjutčev rimuove la coltre che copre durante il giorno tutto ciò che avviene e il poeta russo la vede come il momento del disvelamento dei risvolti ontologici dell'esistenza umana: l'ora del palesarsi dell'essenza eterna dell'universo.

Ivo Flavio Abela

martedì 31 agosto 2021

Romàioi ed Elleni (greci contro greci) in «Rumelia» del viaggiatore-antropologo Patrick Leigh Fermor

Patrick Leigh Former
Rumelia
Adelphi 2021
Patrick Leigh Fermor (1915-2011) raccoglie in sei parti osservazioni, memorie, risultati di ricerche, pensieri relativi al suo peregrinare nella Grecia settentrionale, cioè in quell'area situata a nord dell'Etolia e del golfo di Corinto, a est dell'Epiro, a sud della Macedonia, a ovest dell'Egeo, che suole essere chiamata Rumelia poiché ritenuta parte viva di quell'Impero bizantino, i cui fautori e sudditi venivano chiamati Romàioi: agli occhi di tutti i greci essi rappresentavano i continuatori dell'Impero romano che era sopravvissuto, nella sua pars Orientis, alla caduta di quello d'Occidente, fissata per convenzione al 476 d.C., ma di fatto già in fieri a partire dai primi raid barbarici nella penisola italica. Tali continuatori si erano sovrapposti, fusi, confusi, mescolati ai cristiani greci ed erano essi stessi diventati tali: l'Impero bizantino era dunque romano fin dalle sue origini, ma anche cristiano; la componente cristiana era greca e parlava greco: quello della κοινή διάλεκτος, nata e diffusasi sotto Alessandro Magno, com'è noto. A causa di una simile catena di prodigiose combinazioni e miscele, i greci cristiani dell'Impero bizantino finirono per essere considerati essi stessi romani (΄Ρωμαίοι) e la loro terra fu chiamata Rumelia (΄Ρουμέλια). E i romani d'Occidente? Non si rischiava di confonderli con quelli d'Oriente? No. Perché i romani d'Occidente dai greci furono chiamati "franchi", con una sfumatura spregiativa e connotata da un sentore di barbarismo (uso "barbarismo" non certo in riferimento al côté linguistico).

Il nostro magnifico scrittore non si fa ingabbiare nelle strettoie della "categoria" e, già a partire dalla prima parte del suo libro dedicata ai sarakatsani (assimilabili parzialmente ai clefti epiroti che resistettero ai turchi), per quanto concentri su loro l'attenzione che in genere va prestata a cosa o a persona "categorizzata" anche geograficamente, aggiunge però che i sarakatsani rappresentavano un fenomeno antropico individuabile anche fuori dalla Rumelia propriamente detta, cioè in altre aree greche montagnose, compresa un'appendice nell'isola di Creta. I sarakatsani erano pastori nomadi dal particolare abbigliamento: il pezzo forte era un mantello con cappuccio in pesante e poco raffinata lana di pecora; era molto rigido al punto che, se lo si fosse messo in piedi senza il suo indossatore dentro, si sarebbe retto autonomamente. Particolari poi le calzature con punte ricurve verso l'alto e una sorta di pon pon su ciascuna (qualcosa di simile indossano ai piedi i militari impegnati nel noto rituale del cambio della guardia in piazza Syntagma ad Atene).


Che cosa può esistere di più significativo da osservare per comprendere l'ethos di un popolo, se non un matrimonio? Quello dei sarakatsani è una festa che dura giorni e che tale è soprattutto per gli uomini, se è vero che le donne appaiono poco sulla scena della festa, a partire dalla sposa, costretta a rimanere al piano superiore della casa dello sposo, che è andata a rapirla a cavallo accompagnato dai suoi compari e armato: la donna deve rimanere seduta lungo una parete di quell'improvvisato gineceo, silenziosa e autorizzata a comunicare solo mediante cenni ed espressioni del viso. Tuttavia le donne non sembrano farsi un cruccio di tale ingiustizia. Anzi proprio a loro è riservata la libertà di parlare, e non solo nei contesti festivi nuziali, delle prodezze sessuali compiute dai mariti nella loro vita coniugale e dei dettagli anatomico-sessuali di questi ultimi, cosa che fanno con una disinvoltura e una malizia, al cospetto delle quali i loro uomini impallidirebbero per l'imbarazzo (e infatti lasciano fare fingendo indifferenza). E sono loro, le donne, che ornano cromaticamente la festa: indossano gonne i cui motivi decorativi richiamano quelli della ceramica geometrica che si diffuse già verso la fine del Medioevo Ellenico, suggerendo così l'ipotesi che i sarakatsani siano i continuatori e gli eredi di una popolazione che non avrebbe resistito alla scontro con i Dori invasori, ma che dunque non sarebbe scomparsa del tutto, (quantomeno "eticamente"). Inoltre medaglie e monete d'oro ornano vistosamente il collo della sposa e talvolta possono incorniciarne i capelli e pendere dalle sue orecchie, facendola così somigliare a certe sue antichissime e presunte ave.

Fermor penetra sempre più nei meandri di usi simili, menzionando innumerevoli dettagli grazie ai quali ci illumina anche sul rapporto tra i saraktsani e il divino (non possono non mancare, in una società legata alla terra e costretta spesso a sopravvivere fronteggiando le insidie che una natura incolpevole dispensa a piene mani): un divino spesso increspato da ampie falde di sincretismo su base pagana e magica.

Del resto un po' sicrentista appare lo stesso autore che, nella parte successiva del libro, narra la sua visita alle famose meteore di Kalambàka, cioè quei suggestivi monasteri ortodossi, ciascuno dei quali domina l'apice di una vetta circondata tutt'attorno da strapiombi da capogiro e da addensamenti nembiformi talvolta impenetrabili ai raggi solari e alla vista dell'uomo. Si raggiungono sul dorso di infaticabili bestie da soma, se non a piedi, ma piedi che devono essere avvezzi alla lotta contro le asperità geomorfologiche e a una spartana erranza. Fermor visita sei meteore, cioè quelle attive all'epoca della visita, perché altre da lontano ne vede: abbandonate a se stesse con il loro nobile contenuto di arredi sacri, icone e ossa monacali.

Aleggia lungo lo snodarsi di quasi trecento fitte pagine la consapevolezza del dissidio tra Romàioi propriamente definiti ed Elleni. Chiunque potrebbe pensare che insistere su tale argomento sia ozioso: non sta, del resto, l'autore parlando comunque di greci? Non sono in fin dei conti Elleni anche i Romàioi? Di certo è ciò che si chiederebbe un turista, un dilettante, un appassionato non sostenuto da una ferrata conoscenza delle cose, magari anche perduto in una visione oleograficamente onirica della Grecia. Ma Fermor sottolinea quanto la componente antropica romàica sia paradossalmente la vera custode delle tradizioni e degli usi di uomini che furono soppiantati dai Dori ("paradossalmente" perché non va dimenticato che i Romàioi sono tali innanzitutto perché, nella loro "preistoria", vi fu Roma, caput di una cultura altra), mentre gli Elleni (denominazione peraltro ripresa solo nel corso del Novecento e quasi dimenticata nei secoli addietro) costituiscono oggi gli eredi appunto di quei Dori che portarono in Grecia razionalità, rigore logico, pensiero filosofico. La questione viene affrontata nella terza parte del libro.

Di quanto qui riferito e di tanto altro (il libro contiene ancora tre parti) l'autore ci parla con entusiamo e amore, in una prosa piena di vita e accattivante, spesso infarcita di parti in cui Fermor usa liricamente la lingua: proprio come farebbe un poeta.

Ivo Flavio Abela


Breve appendice

Lo tsamikos è una danza popolare un tempo eseguita solo dagli uomini, nata nelle aree più continentali e montuose della Grecia (come i rilievi del Pindo), tipica dei clefti e dei sarakatsani (cfr. https://www.epiaspalathon.gr/politismos/topos-kai-xoroi-tou/tsamikos/). Se ne riporta qui un esempio, ma viene scelto un esempio volutamente non tradizionale: i versi sono di Nikos Gatsos, la musica di Manos Hatzidakis, la voce di Manolis Mitsias. Riflette comunque lo spirito della musica tradizionale per tsamikos (testo e traduzione qui: https://stixoi.info/stixoi.php?info=Translations&act=details&t_id=5752).





venerdì 4 giugno 2021

«Il sangue acqua» di Haris Vlavianos. Il dramma irrisolto di una vita

Νερό
: così i Greci di oggi chiamano l’acqua. Mi ha sempre impressionato il colore (fisiologicamente scuro) di questa parola: basterebbe leggerla evitando di accentarla sull’ultima sillaba, come invece vuole la grafia greca, e ci troveremmo a pronunciare «nero». M’imbattei per la prima volta in νερό quando lessi il testo di una canzone musicata da Mikis Theodorakis: Να ‘χα τ’ αθάνατο νερό, su versi di Yannis Ritsos. Quell’«αθάνατο νερό» è l’acqua immortale: l’elisir, la pozione, il farmaco capace di conferire l’eternità come condizione di vita. Così nella mia mente anche l’immortalità iniziò a colorarsi grecamente di nero. Infine mi sono imbattuto in un libro dal titolo Il sangue acqua. L’autore è un grande intellettuale e poeta greco, Haris Vlavianos, di cui avevo letto alcune poesie sull’Antologia della poesia greca contemporanea edita da Crocetti Editore (mi aveva soprattutto colpito la prima delle cinque riportate, cioè Benedetto colui, dichiarazione di resa da parte di chi per trent’anni ha pensato che il dolore derivasse dal non essere amato, ma poi ha scoperto che esso nasce quando si ama). Avevo quindi cercato su Internet notizie e altri testi dello stesso autore, finendo per imbattermi nelle sue bellissime e anglo-elleniche August meditations. Infine ero riuscito a comunicare con lui mediante Facebook e avevo deciso di leggere la sua traduzione in greco moderno di The Waste Land di Thomas Stearns Eliot (operazione ancora in corso, visto che frequento il greco moderno da autodidatta e ho dunque bisogno di un po’ di tempo per assimilare). Il sangue acqua è la traduzione del titolo originale Το αίμα νερό. Così anche il sangue per me è diventato “nero” e mai lo è stato tanto quanto nei quarantacinque atti del sottotitolo di questo libro.

Un romanzo in atti? Sì. Perché Vlavianos ironizza sulla necessità alquanto scolastica di stabilire barriere fra generi letterari, tra tipi di composizione, tra scopi della scrittura: un romanzo (parola che usa pure ironicamente) può dunque non per forza dividersi in parti e in capitoli, ma negli atti di un’azione drammatica. Il sangue acqua sembra proprio un dramma (in accezione etimologica) e gli atti corrispondono ciascuno allo sviluppo di uno sprazzo di memoria, la cui estensione raramente supera quella della singola pagina: azione drammatica – dicevo – e diario di ricordi blandamente organizzati secondo una linea diacronica. Il libro, apparso in Grecia qualche anno fa, è stato recentemente tradotto in italiano da Christos Bintoudis e da Francesca Zaccone (quest’ultima firma anche la Postfazione) per Besa Muci Editore.

Haris Vlavianos ha del resto un rapporto privilegiato con l’Italia: vi nacque a Roma nel 1957, visse ai Parioli e frequentò una scuola prestigiosa. Poi si trasferì in Grecia, dove trascorse l’adolescenza in balìa dei capricci sentimentali (e non solo tali) della madre. Haris era nato dal suo secondo matrimonio con un agente di borsa poi trasferitosi in Sud-America, dove s’era costruito un’altra famiglia con una nuova moglie dalla quale sarebbero stati generati altri due figli (e questa matrigna, pur ritratta come una strega dalla madre di Haris, si sarebbe rivelata affettuosissima nei suoi confronti, al punto da considerarlo un figlio, come Haris avrebbe saputo da uno dei fratelli dopo la morte della donna). La madre di Haris aveva però già avuto una relazione con un aspirante torero e un primo marito pianista; ne avrebbe avuto un terzo (un siculo Moncada dall’unione col quale sarebbe nata una figlia dal destino infelice) e un quarto di Missolungi (il paese in cui morì Lord Byron, il piccolo abitato che era stato una roccaforte della resistenza greca contro gli Ottomani e in cui lo stesso Dionysios Solomos visse e raffinò la sua ricerca poetico-linguistica). Poi sopravvennero gli studi all’estero: si allargarono le maglie dei rapporti con i genitori, già di per sé non idilliaci, e l’ormai scarso affetto finì per affievolirsi del tutto.

Il sangue acqua si legge d’un fiato, è bello e pieno di sofferenza. La letteratura e la scrittura non vi esercitano un potere risarcitorio o terapeutico, ma vengono piegate alla semplice esigenza di raccontare i propri vissuti e di farlo in modo quasi inedito: l’io narrante tesse un colloquio con se stesso, cui si rivolge usando la seconda persona. Colpisce il fatto che Haris Vlavianos sia riuscito in soli quarantacinque frammenti a raccontare la propria vita delineando efficacemente i personaggi (la madre, il padre, il marito siciliano della madre, la sorella, uno zio) e abbattendo le barriere fra prosa e sfogo lirico.

Non sono attratto dall’autofiction, dall’autobiografismo galoppante: insomma dalle piaghe che oggi affliggono la letteratura deturpandola, neanche se certe vite fossero tanto paradigmatiche ed eccezionali da dovere essere strombazzate a destra e a manca. La vita di Haris Vlavianos mi sembra invece eccezionale e dunque degna di essere raccontata e letta: l’ordito internazionale delle rotte, quello fisiologicamente sfilacciato delle trame familiari, la grandezza di un animo che ha resistito alla mancanza d’amore rendono questo libro un piccolo gioiello da leggere senza indugio.

Ivo Flavio Abela

domenica 9 maggio 2021

Un Icaro poeta. Ovvero Sebastiano A. Patanè Ferro in «Gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci)»

Un passato che viene insistentemente evocato. Non perché se ne abbia nostalgia o si desideri regredire fino a illudersi di ricreare una condizione intrauterina. Ma perché adesso (col senno del poi e grazie alle esperienze accumulate lungo il cosmopolita scorrere di una vita avventurosa) ogni evento vissuto può trovare la propria collocazione. Tale sembra l'assunto su cui si basa Gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci) di Sebastiano A. Patanè Ferro, appena edito da Edizioni Smasher con la prefazione di Anita Resuli e le Due parole introduttive dello stesso autore. Vi confluiscono due sillogi: la prima, Dell'assenza, contiene quindici liriche; la seconda, che dà il titolo al libro, ventisei. L'idea di accostarle nella pubblicazione ci viene spiegata da Patanè: tutto ciò che del passato non esiste più - e che l'autore evoca ricorsivamente nella prima raccolta - ha lasciato il vuoto, anzi l'assenza che è la protagonista dell'oggi e della seconda raccolta. Epperò a me sembra che nella seconda silloge l'assenza sia soprattutto quella di un amore che è svanito e la cui importanza l'autore non aveva ancora del tutto svelato nella prima.

Fin dalla prima lirica si palesano oggetti che del tempo trascorso recano i marchi: la consunzione e un'indifferenza tanto incolpevole da assumere i tratti di un'innocenza edenica. Non sono essi i colpevoli del nulla odierno, né si sono perduti per propria iniziativa. L'io poetico vuole vestirsi di quella stessa indifferenza, ma per motivi di comodo: essa gli permetterebbe forse di ignorare la propria incapacità di piangere (eppure l'io poetico vorrebbe piangere e a quegli stessi oggetti del passato si rivolge affinché gli dispensino proprio il pianto). Il vuoto, il nulla, l'incapacità di sentire e vivere emotivamente sono amplificati dalla consapevolezza della propria finitezza rispetto all'immensità del vento, al silenzio della distesa di un mare di grano e al numero indefinito di valli verdeoro (questo verdeoro deve essere una miscela cromatica particolarmente evocativa per noi mediterranei che fummo greci: chrysoprasino, cioè appunto verdeoro, è pure la foglia cui viene paragonata l'isola di Cipro in una vecchia canzone musicata da Mikis Theodorakis). Lo sguardo del poeta si rivolge non solo agli oggetti, ma anche alle creature animate e, prima fra tutte, all'origine di se stesso: il padre con cui ciascun uomo s'identifica. La sua disorientante mancanza, sancita da un «abbraccio perso nell'ultimo cuscino», viene avvertita come ciclicamente ineluttabile e dunque come legge che è bene accettare («io stesso sarò altrove quando mio figlio chiederà di me»). Il poeta risale ancora alle fiabe e ai passatempi dell'infanzia (quando giocava a ritagliare le figure di carta in serie): insomma al tempo in cui ancora i versi non erano arrivati. Neppure questi ultimi sono riusciti poi a resistere allo scorrere del tempo e a trasformarsi in presenza per l'oggi; i fiori, chiamati in aiuto come bocche capaci di aprirsi al passato per interrogarlo, sembrano riuscire meglio nell'impresa (più avanti saranno addirittura capaci di riempire fogli bianchi).

Nel compiere simili tentativi di recuperare il passato si profila l'Icaro poeta. Non può essere casuale il ricorrente motivo delle ali: il volo costituisce un altro elemento di raccordo tra la prima e la seconda silloge. Ma le ali sono «con scadenza», come se la possibilità di volare fosse concessa al poeta sempre a tempo e con l'ovvia raccomandazione di non volare troppo vicino al sole. Non perché rischierebbe di fare sciogliere la cera, ma perché la luce potrebbe repentinamente spegnersi («tutta la luce infine è solo una candela»). Allora egli non precipiterebbe perché ha osato troppo, ma perché rimarrebbe privo della capacità di vedere: il buio - se mai fosse possibile - renderebbe il vuoto ancora più vuoto, amplificando l'assenza. Il poeta raccomanda a se stesso prudenza: perfino le ali degli angeli sono state «accecate».

Una scena del film Lo specchio.
Poco prima una voce fuori campo
recita il testo di Arsenij Tarkovskij,
padre del regista Andrej,
da cui sono tratti i versi citati a fianco
Quando poi gli angoli «aprono i loro acuti per ingoiarci e scaraventarci», il poeta s'irrigidisce e diviene acqua che non scorre, ma vede semmai scorrere i ponti sopra di sé. Impossibile è ogni ritorno: «Cosa mi chiedi adesso / che in tasca ho solo chiodi / e nemmeno un mezzoeuro per la fontana». Icaro dichiara candidamente: «non ho ali che possano dolermi [...] e io poi non cado». Ma forse vuole solo dire che non cade più, come gli accadeva in passato. Siamo nel pieno della seconda silloge e in «quando si sollevarono in volo i corvi lasciarono grani di nero tutt'intorno» assume consistenza quel vuoto d'amore causato da un destino avverso e sinistro (chissà perché ho ripensato a due versi di Arsenij Tarkovskij: «Quando il destino seguiva i nostri passi, / come un pazzo col rasoio in mano»). Arriva la sera con l'usato profluvio di pensieri, quando il cielo stesso appare «così compatto così malato così estraneo». Quando si deciderà il tanto amato passato a raggiungere e a soccorrere il presente del poeta?

Ivo Flavio Abela


Aggiunta del 27 maggio 2021

Ho appena appreso che da questa notte Sebastiano non c'è più. Meno di due settimane fa mi aveva parlato di un'ernia cervicale che forse si era "risvegliata" con forza e aveva aggiunto che avrebbe dovuto sottoporsi a una serie di controlli. Mi aveva anche detto che non gli sarebbe stato facile farsi vivo. Proprio ieri pomeriggio avevo provato a inviargli un messaggio perché mi sembrava comunque strano non avere più ricevuto sue notizie. Naturalmente il messaggio è rimasto senza risposta. Oggi io sono (siamo in tanti, a dire il vero) disorientato e sconvolto da questa notizia. Mi resta, tuttavia, la gioia (purtroppo effimera, ma sempre gioia è) di avere scritto questo pezzo per lui e di sapere che aveva fatto in tempo a leggerlo e a esserne felice. 

domenica 25 aprile 2021

Eros e trauma in «La quercia di Bruegel» di Alessandro Zaccuri

Nel bosco degli scrittori, originale collana di Aboca, si dà agio «agli scrittori più interessanti e consapevoli del nostro panorama letterario di raccontare il mondo, il loro e il nostro, proprio a partire da un albero» afferma l’editore. Alessandro Zaccuri (di cui s’è già parlato su questo blog a proposito del suo bellissimo Lo spregio. Cfr. https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2017/11/lo-spregio-di-alessandro-zaccuri-ovvero.html?m=0) ha scelto La quercia di Bruegel (2021), offrendoci ancora un saggio di una capacità narrativa che – sempre raffinata – risulta poliedrica perché ogni volta diversa a seconda del tema (non è la stessa del citato Lo spregio o di Nel nome o ancora di Come non letto, per citare solo qualche titolo di Zaccuri). E qui il tema vero non mi sembra Bruegel il Vecchio, la cui arte si riduce a un pretesto, ma l’eros – delicatamente ritratto – di un ménage à trois.

Il protagonista di La quercia di Bruegel narra in prima persona senza mai rivelare il proprio nome. Forse è uno degli scrittori che Zaccuri immagina di essere o comunque cui ha affidato una parte di sé. Il narratore, infatti, racconta di avere sempre scritto nascondendosi sotto identità fittizie, in base allo scopo e al tema di ogni libro poi pubblicato. Forse Zaccuri s’è immaginato attore di un’avventura, ad alimentare la cui forza contribuiscono un attentato terroristico, il dramma personale di un paziente che ha vissuto un forte trauma, l’eros. Che quest’ultimo sia fortemente presente nel testo ce lo provano le righe in cui il narratore accenna alla possibilità di rotolarsi su un letto con la neurologa Matilde Rovani, la carnalità della donna non più giovane ma ancora attraente, la menzione di L’origine du monde di Gustave Courbet. Anzi sembra quasi che su tale dipinto egli abbia strategicamente dirottato il desiderio in lui suscitato dall’incontro con Matilde. Per non dire poi di alcuni elementi vagamente voyeuristici contenuti – molto più avanti – nelle pagine ambientate al museo. Qui il protagonista si fa da parte per discrezione: vuole che la neurologa e il suo compagno possano visitare da soli le sale dell’edificio per godersene indisturbati le opere. Eppure non li perde di vista e ne spia i movimenti.

Peter Bruegel il Vecchio
I cacciatori nella neve
Vienna, Kunsthistorisches Museum


Nel turbinio delle battute di dialogo scambiate a un tratto con un confidenza quasi ammiccante, della visione condivisa di riproduzioni di opere d’arte riprodotte in bianco e nero, della ricerca in esse di dettagli appannati e addirittura quasi invisibili all’occhio, mi sembra di potere ravvisare le fasi di un gioco erotico che genera desiderio soprattutto mediante l’atto del vedere. L’albero fa il resto, se pensiamo al suo valore nella simbologia psico-analitica. Massimo, il paziente al cui caso la neurologa lavora, vede solo l’albero anche dove apparentemente non c’è. Come s’è già accennato, ha subito un trauma da cui è scaturita una patologia che potrà essere risolta solo in parte. Riconosce poco e nulla quando vede immagini. Eppure individua sempre l’albero, anche quando esso è impercettibile. Forse per lui esso è il simbolo di quella energia erotico-affettiva che può salvarlo? Sembrerebbe di sì. Non credo sia un caso il fatto che il rapporto con la terapeuta si trasformi presto in una relazione sentimentale che appaga entrambi. Il narratore, sebbene non lo ammetta e anzi faccia di tutto per non risultare invadente, sembra invidiare siffatto idillio di coppia. Eppure ne fa parte: viene accolto con cordialità da un per nulla geloso Massimo, che anzi gli manifesta stima e interesse. In fondo questo delicato ménage à trois sembra la situazione ideale in cui rifugiarsi per dimenticare finalmente l’orrore del terrorismo.

Un racconto come La quercia di Bruegel affascina perché è bello “giocare” con uno scrittore coltissimo e raffinato, capace di una prosa limpida e luminosa, ma anche di intrecci a volte gradevolmente spiazzanti.

Ivo Flavio Abela

sabato 24 aprile 2021

Il lungo autunno di Maurizio Soldini nel suo «Sodalizio con gli specchi»

Gli specchi ci restituiscono la nostra immagine. E con essa tutto ciò che la connota in negativo e dunque non ci è gradito. Non mi riferisco ai tratti fisionomici (sarebbe troppo scontato), ma a ciò che della nostra torbida intimità quegli stessi tratti veicolano. Talvolta non ci soffermiamo davanti agli specchi oppure li evitiamo del tutto perché ne abbiamo paura. Il sodalizio con queste superfici riflettenti diventa possibile solo se siamo certi del fatto che esse non possono arrecarci danno: possiamo sentire complici gli specchi quando la loro capacità riflettente esce annichilita dallo scontro con il buio e la notte. Allora solo alitare su di loro ce ne fa percepire la materialità, ma  dice lautore  anche la distanza. «Quale distanza? La distanza da che cosa o da chi?» vorremmo chiedergli. «Da noi stessi» ci rispondiamo poi senza scomodarlo. Tale è lidea su cui insiste Il sodalizio con gli specchi dellaccademico, medico e poeta Maurizio Soldini. È la seconda e bellissima raccolta (va senzaltro letta) che egli pubblica per Il Convivio Editore (cioè per il valentissimo Giuseppe Manitta), dopo Lo spolverio delle meccaniche terrestri (libro già recensito su questo blog. Cfr. https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2019/03/lo-spolverio-delle-meccaniche-terrestri.html).

È meglio tenersi lontani da se stessi anziché vivere alla luce: quella che impietosamente rivela tutto e smonta «ogni trama / alla nostra imperfezione», ogni particella di un disagio esistenziale aggravato da una pandemia che  curiosamente  esplode nel corso del Carnevale 2020, quando «limpiantito di mascherine» assume la funzione di inedito e anomalo contrappasso per chi è aduso a mascherarsi solo per diporto. Tra i coriandoli e una cromatica fantasmagoria sinsinuano le (sinistre?) sagome degli spaventapasseri: battistrada metaforici di chi «porta addosso un mantello di carta / dove ha scritto parole che sono di stoffa» (allusione alla tenuta degli operatori sanitari quando circolano e si presentano alla porta), mentre la pandemia intensifica il ritmo e impazza, neanche fosse essa stessa un Carnevale.

Nel surreale respiro di un mondo che adesso ha un motivo in più per non volere guardarsi allo specchio (non vedere ancora più nitida la sagoma della propria disperata impotenza), nella calma indotta in cui solo gli «operatori del déjà-vu» non smettono di dare forma pseudo-fonica al vuoto che pervade loro e i loro discorsi, in quel conseguente svilimento della parola che smette di essere tratto distintivo dellattività razionale delluomo (ovattata, comè, dalla maschera «origine ormai persa del verbum persona»), «geme dentro gemme di necessità»  icastico richiamo fonico che diventa quasi uguaglianza di parole  lincoscienza che ne ha finora caratterizzato la condotta. Nel chiuso delle proprie case, pure il salire e lo scendere di una tapparella diventano per luomo «specchio» della vita, e la tapparella stessa giunge a sostanziarsi in un sipario che potrebbe chiudersi definitivamente.
«Allegre maschere, / Pazzi garzoni,
Tutti plauditelo / Con canti e suoni!
Parigini, date passo / Al trionfo del Bue grasso»
(dal libretto di Francesco Maria Piave
per Traviata di Giuseppe Verdi):
leggendo Soldini, ripenso a Violetta
Valery e al fatto che muore di tisi mentre
impazza il Carnevale e il Bue
Grasso viene festosamente portato
lungo le strade di Parigi


Si alza allora la voce dei poeti: magari non «lavorano di notte» (come quelli di Alda Merini), ma cantano quandè mattino presto. A quellora il sodalizio con gli specchi non è stato ancora infranto dalla prepotente luce del giorno pieno (capace pure di rendere «ustorio» uno specchio), ma è stato appena increspato da unaurora le cui dita (non epicamente «di rosa» come quelle dellaurora omerica), sono comunque in grado di elargire carezze. Perché questo i poeti fanno: cantano per rendere più sopportabile la quotidianità (e quella pandemica è particolarmente devastante), in un tempo che si ferma e non ha più un prima e un dopo, un flashforward e un flashback, tanto che analessi e prolessi finiscono col coincidere nella fissità di un «eterno ritorno».

Soldini non risparmia i richiami alla tradizione alta della poesia italiana. In certi sprazzi di memoria si respira unatmosfera montaliana. Un tratto dannunziano permea quel «pioveva sulle scaturigini», tuttavia sfrondato della carica estetica per essere adattato con durezza al contesto di un ospedale in cui si soffre e si cerca di tornare a respirare. Si legge un quasi provenzalismo in La trenodia si leva: quel «penetranza». Nellultima terzina di Nel settantatré, poi, il ritmo (e ciò non sembra dovuto a unassonanza percepita dal lettore istintivamente) ci ricorda quello de Il cinque maggio manzoniano o comunque di uno dei cori di Adelchi (già), sebbene nel testo di Soldini sia menzionato un «volgo» (e ciò rafforza limpressione che il fantasma della tragedia manzoniana sia davvero qui presente) che lautore definisce a sorpresa «carducciano». Del resto il tributo ai grandi poeti della tradizione non si ferma al dico e non dico, ma diventa esplicito nei versi che vanno sotto il titolo di Leopardiana e ancora di Campo dei muratori (pasoliniana), questultima dotata di uneco finale che fa molto Qohelet. Si approda dunque al padre Dante, cioè a un trittico stilnovistico ma rivisitato arcadicamente, con la petroseggiante Come un madrigaleDomina (si vedano soprattutto i versi «tu dea ninfale / donna in terra sospiri venti e ti fai anima») e Ora come allora che è un policromo caleidoscopio.

Come già ne Lo spolverio delle meccaniche terrestri, anche qui il suono delle parole non è solo materia fonica, ma pure latore di senso. In Effimero il giorno, per esempio, il rapporto tra «effimero» ed «effemeridi» sembra significare che sia illusorio lo scorrere dei giorni tra una stagione e laltra, così come con quello tra «istanze» e «distanze» lautore potrebbe volere avvisarci del fatto che eliminare le distanze non basta: bisogna anche aggrapparsi a uno spazio fisico. Si legga poi lintera terzina successiva, tutta tessuta su una dentale ossessivamente ricorrente e dura, che in tre punti si unisce a una scivolosa labiodentale: «per divagare dalle pene dellinferno / tra il trattamento ddati e di sviste / in essere a sbrogliare il divenire».

Maurizio Soldini

Una riflessione merita la struttura della raccolta, poiché mi sembra che anchessa veicoli il senso vero dei versi di Soldini, raggruppati in cinque tempi, cui si aggiungono un In coda e un Oltre gli specchi. Nel primo tempo si colloca lincipit pandemico con i suoi immediati sviluppi coincidenti con la primavera, nel secondo si fa riferimento allestate, nel terzo allautunno. Sono solito non sfogliare mai un libro prima di leggerlo, non consultare lintroduzione o la prefazione (quando cè), non guardare lindice: desidero scoprire pagina dopo pagina ciò che lautore scrive. Giunto alla terza parte di Il sodalizio con gli specchi, ero ormai convinto del fatto che i tempi fossero quattro: «Mi manca solo il quarto con linverno» dicevo a me stesso. Invece la stagione del quarto tempo è ancora lautunno. Mi sono sentito un po spiazzato. Poi però ho notato che nel terzo tempo è trasfuso lautunno dei ricordi, nel quarto figura quello dellaccettazione di una vita il cui scorrere è inarrestabile, nonché i prodromi della notte invernale. Lautunno, poi, si dilata e deborda al punto che pure nel primo componimento del quinto tempo (perché esiste anche una quinta parte!) Soldini menziona novembre, mese ancora autunnale, mentre linverno è citato per la prima volta solo nel quarto testo della quinta parte stessa. Lautunno è dunque una stagione lunghissima (anche più  mi verrebbe da dire  del «secolo breve» di Hobswaun) che non vuole passare proprio, se si pensa che novembre (peraltro un novembre di «scirocco») viene citato nuovamente più avanti, per esempio quando si menzionano i cachi che «si spiaccicano fuori dalla polpa». Sembra che insistere sullautunno sia una necessità dellautore: si riferisce forse allautunno della propria vita? Credo di sì ed egli vuole dilatarlo il più possibile affinché non giunga il proprio inverno. Lo spaventapasseri, che lautore torna a menzionare quando il libro volge alla conclusione richiamando il Carnevale iniziale, mi sembra indizio di una fine che egli fa di tutto per rimandare a oltranza. Non a caso linverno si palesa intensamente solo «oltre gli specchi», cioè nelle due brevissime parti che sembrano più due appendici, rispetto ai cinque tempi lungo cui si snoda la materia vera del libro, quasi lautore dicesse allinverno: «Prima o poi dovrai arrivare. Ma finché puoi, rimani fuori dalla mia vita».

Ivo Flavio Abela

mercoledì 7 aprile 2021

La bellezza nell’Ortodossia e nella cultura della Russia

Il presente articolo è stato pubblicato sulla rivista on line Areopago dal fondatore e capo-redattore, il magistrato e professore Eduardo Savarese, che ringrazio della fiducia e del privilegio accordatimi (qui il link alla rivista: https://www.areopago.net/; qui quello allarticolo nella sua posizione originale: https://www.areopago.net/la-bellezza-nellortodossia-e-nella-cultura-della-russia/). Ho pensato di riportarlo anche qui, sul mio blog.


La bellezza nell’Ortodossia e nella cultura della Russia

«È vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo? State a sentire, signori […] il principe sostiene che la bellezza salverà il mondo!»: così dice il tisico Ippolìt del principe Myškin ne L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Più avanti sarà la capricciosa e borderline Aglaja a dire a Myškin: «Sono pronta a scommettere che si metterà a parlare di qualcosa sul genere della pena di morte, o della situazione economica della Russia, oppure del fatto che la bellezza salverà il mondo». L’affermazione è diventata famosa tanto da essere attribuita, soprattutto da chi non ha mai letto integralmente il romanzo, allo stesso scrittore: «Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo». Tali parole sono però solo attribuite al protagonista da Fëdor: non si comprende nemmeno se Myškin le abbia davvero mai pronunciate (il principe non lo conferma).

Consideriamo poi il finale del romanzo: Myškin diventerà pazzo, recuperando lo stato connaturato – così sembra indicarci Dostoevskij – alla sua indole di individuo generoso, mite, genuino («idiota» – appunto – secondo il pensiero comune) e dal quale era invece guarito. La bellezza non l’ha salvato: non solo essa non ha trionfato, ma proprio colui il cui animo è bello altro non si rivela che un folle. Sembra che Dostoevskij si sia divertito a delineare un intreccio e un personaggio dai quali sarebbe dovuto scaturire il segreto della felicità sulla terra (paragonabile alla formula anch’essa segreta, relativa alla pace eterna e alla sconfitta definitiva del male, incisa su una fantomatica verga da Nikolaj, fratello di Lev Tolstoj, e poi sepolta nel luogo in cui sarebbe stata interrata la bara dello scrittore), ma alla fine ci riporta con forza alla realtà e sembra volerci dire: «Davvero avreste pensato che la bontà e la mitezza possano trionfare? Il buono, il mite, il virtuoso… sono solo pazzi».

Un altro personaggio – appartenente all’universo cinematografico russo – ci insegna che la bellezza non può salvarci: il protagonista di Stalker, film diretto nel 1979 da Andrej Tarkovskij. Attraverso la zona, egli vuole condurre i suoi compagni di avventura nella stanza. I compagni accettano inizialmente di affidarsi a lui e di seguirlo, ma si fanno assalire dai dubbi proprio quando la meta è vicina. Il dolore del fallimento lacera Stalker: egli – lo dice all’apice dello sconforto quando il film si avvia alla conclusione – avrebbe solo voluto che tutti fossero felici, condividendo con l’umanità i tesori spirituali contenuti nella stanza stessa. Stalker è del resto un doppio dello stesso Tarkovskij: così ha affermato più volte Andrej Tarkovskij Jr., il figlio del regista (lo ha fatto anche in un’intervista concessami nel marzo 2020). In altri termini Stalker e lo stesso Tarkovskij sono personaggi alla Dostoevskij: hanno nutrito una fede cieca nei confronti di ideali spirituali e della possibilità di conseguire la felicità mediante la bellezza, ma alla fine si schiantano contro il muro della realtà, rimanendo turbati, disillusi, sconfitti, segnati a vita.

Mi sembra che quanto fin qui affermato sia sufficiente per comprendere l’equivoco su cui è stata fondata – da critici e da lettori poco attenti – la funzione salvifica della bellezza. Abbiamo dunque sbagliato noi a interpretarla come tale o forse Dostoevskij, i suoi personaggi, quelli tarkovskijani, lo stesso Tarkovskij ci hanno portati fuori strada? Hanno davvero voluto dimostrare il contrario di ciò che, sulla scorta delle loro parole, abbiamo sempre ritenuto? Hanno voluto farci credere che non sia possibile alcuna salvezza in questo mondo? E se invece essi si fossero riferiti a un’altra bellezza?

Pavel Nikolaevič Evdokimov (in «Teologia della bellezza») e Orlando Figes (nel bellissimo «La danza di Nataša») riferiscono un celeberrimo aneddoto. Vladimir, principe di Kiev, inviò ambasciatori presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci: desiderava comprendere l’essenza delle diverse religioni per sceglierne una. Gli emissari tornati da Costantinopoli gli riferirono che vi erano rimasti rapiti dalla bellezza dei riti, delle icone, dei decori, al punto che risultava loro difficile comprendere se si trovassero nel cielo o sulla terra. Di una cosa si dissero certi: Dio era autenticamente presente tra quanti prendevano parte a quei riti. Dio era la bellezza: è questa l’idea che permea l’anima ortodossa (mi riferisco in particolare a quella russa) e che attraversa pure, talvolta sotterraneamente, buona parte della letteratura presovietica.

Il russo non può non dirsi ortodosso: sentirsi ortodosso ed essere russo si sovrappongono al punto da arrivare a consustanziarsi. Non possiamo ignorare che non solo la Chiesa Ortodossa di Russia esercitò sempre una grande influenza sullo zarato, ma pure che in certi frangenti si dimostrò ancora più forte dello zarato stesso nel provocare le reazioni dell’opinione pubblica. Si pensi a ciò che suscitò l’emanazione della scomunica di Tolstoj, decisa peraltro senza avvisare lo zar Nikolaj II, che apprese quanto la Chiesa Ortodossa aveva stabilito solo da una rivista religiosa, una copia omaggio della quale gli veniva regolarmente recapitata. Scoppiata la Rivoluzione e deposto lo zar, il regime sovietico cancellò ogni traccia di cristianesimo. Puntando alla collettivizzazione della società, e dunque volendo estirpare dal popolo russo il senso d’identità che l’aveva fino a quel momento sostenuto, eliminò qualsiasi traccia di cristianesimo proprio perché l’anima russa era congenitamente ortodossa: distruggendo chiese e icone, estirpò la bellezza dal cuore del popolo. Alcuni anni prima della Rivoluzione il grande Anton Čechov aveva individuato nella Chiesa Ortodossa – ce lo spiega bene Figes – un’alleata dell’artista e aveva reputato la missione di quest’ultimo principalmente spirituale. All’amico Gruzinkij avrebbe detto: «La chiesa del villaggio è l’unico luogo in cui il contadino può fare esperienza della bellezza». Tale bellezza si materializza nell’icona, poiché in essa avviene «l’epifania del Trascendente», oltre che nella natura la quale – lo spiega Evdokimov – si trasforma in «roveto ardente» poiché irradia il Trascendente stesso che in essa si è trasfuso.

L’icona è immagine conduttrice dell’ortodosso durante il rito: contemplarla significa assumere la migliore disposizione d’animo per prendervi parte. Tale funzione può trasformarsi in presenza. Uno ieromonaco del monastero di Optina Pustyn’, il complesso monastico più famoso di tutta la Russia (anche perché fu visitato da Dostoevskij, Gogol’, i fratelli Kireevskij, alcuni membri della famiglia imperiale, nonché – per ben cinque volte – da Tolstoj) scrisse così nel suo diario (vale la pena leggere quasi interamente il passo, da me tradotto, perché in esso le icone fungono da guida liturgica che prepara al rito, inducendo nel fedele il pentimento e dunque disponendolo nella migliore delle condizioni al rito stesso): «Mentre mi trovavo in chiesa [...] mi sentivo circondato non dalle icone dei santi, ma da quegli stessi santi che esse raffiguravano. Mentre era in corso il servizio religioso, essi riempivano la chiesa condividendone lo spazio con me. Era inutile distogliere i miei occhi dai loro volti per nasconderli in qualche angolo buio: quelle creature divine non mi guardavano negli occhi, ma erano in grado di far penetrare il loro sguardo direttamente nel mio cuore. E dove mai avrei potuto nascondere il mio cuore? Allora mi rassegnavo a perseverare nella mia impotenza e nella mia indegnità, al cospetto di quei loro occhi che tutto erano in grado di scrutare e penetrare. I miei pensieri impuri, pieni di timore nei confronti dello sguardo di quegli esseri divini, si nascondevano da sé e cessavano di tormentarmi; il mio cuore, infiammato dal fuoco della sua stessa impurità, cominciava a bruciare grazie a quello del pentimento; era come se il mio corpo si congelasse e io iniziavo a sentire la mia indegnità, il mio continuo errare, con tutto il mio essere fino alle dita dei piedi e delle mani».

L’icona è anche immagine-guida nella vita quotidiana e familiare. In ogni casa russa non manca un gruppo più o meno nutrito di icone, davanti alle quali arde una lampada sospesa in genere a una triplice catena: nella tradizione slava la sede contenente tali icone viene definita «Angolo della Bellezza». Come si vede, l’icona è guida nel pubblico e nel privato: l’Invisibile, cioè il vero Bello, l’ha scelta come spazio fisico in cui manifestarsi e da cui irradiarsi. Inoltre se Dio ha scelto di incarnarsi, e dunque di abitare un corpo fisico, a maggior ragione bisognerebbe credere che l’icona contenga realmente il Divino, poiché il Divino stesso ha scelto di rendersi visibile: non l’uomo ha antropomorfizzato Dio, ma Dio s’è antropomorfizzato da sé (appare ovvio che gli iconoclasti, negando che Dio potesse essere rappresentato, negavano implicitamente anche il mistero dell’Incarnazione). Colui che realizza l’icona non è un artista, ma un tramite: l’artista è Dio.

Alla luce di quanto appena affermato, risulta ancora più significativa la critica che l’idealista Evdokimov rivolse alla teologia occidentale, rea di avere perduto di vista la portata spirituale dell’arte sacra. Il culmine della parabola discendente sarebbe per lui rappresentato dall’adozione della corporeità, significata dall’introduzione della prospettiva e del chiaroscuro, nonché dal trattamento plastico dei soggetti religiosi, mentre l’arte orientale continuava a mantenersi entro i limiti della prospettiva inversa e di un’impalpabile bidimensionalità (per inciso, non va tuttavia dimenticato che esiste anche una tradizione del rilievo nell’arte bizantina, ma l’icona ebbe sempre il primato). Inoltre l’arte sacra occidentale diventa sempre più allegorica, perdendo il contatto con l’immagine autentica del Divino.

Torniamo per un momento a Dostoevskij e a Tarkovskij. E se la bellezza cui essi alludono fosse proprio Dio e non (ciò vale soprattutto per il caso del citato romanzo dostoevskijano) quella puramente estetica? Esiste una cospicua letteratura riguardante la spiritualità dello scrittore russo: non solo egli si recò al monastero di Optina per cercare pace dopo avere patito la perdita di un figlio di neppure tre anni che amava intensamente, ma possedette molti testi sull’ortodossia e sull’esicasmo (alcuni gli venivano procurati da una libreria specializzata di San Pietroburgo, altri gli furono donati dai monaci optiniani). Tornato da Optina, si rimise a lavorare alla stesura dei Karamazov con rinnovata energia, ma soprattutto con una più sublime ispirazione: l’estasi di Alëša al cospetto della bellezza spirante dal monastero in cui vive Zosima altro non è che quella che Fëdor stesso dovette provare, immergendosi nella bellezza trasudante da Optina. E quella bellezza anche per lui era Dio. Andrej Tarkovskij dovette pure pensare che la bellezza suprema sia Dio. Non solo girò il capolavoro cinematografico Andrej Rublëv, ispirandosi liberamente a quel poco che si conosce del grande iconografo, ma fu perennemente alla ricerca di Dio: lo cercò in Italia e il risultato fu l’incontro con la Vladimirskaja di Portonovo, di cui ci parla in Martirologio; lo vide incarnato nell’icona della Trinità, forse la più nota tra quelle dipinte dal citato Andrej Rublëv.

Ciò che fin qui è stato discusso potrebbe essere sufficiente per dimostrare quanto l’idea di bellezza insita nell’ortodossia abbia permeato di sé l’anima russa: il russo è credente per indole. Lo sapeva bene il già citato Anton Čechov. Proprio con l’affermazione tratta da un suo racconto desidero concludere: «Per quanto possa giudicare da me stesso, dalle persone che ho conosciute vivendo, da tutto ciò che mi s’è svolto intorno, questa facoltà [la fede] è intrinseca al popolo russo in grado cospicuo. La vita russa ci si presenta come una serie ininterrotta di moti di fede e d’entusiasmo mistico, mentre l’incredulità o la negazione son cose di cui non conosce (se volete saperlo) neanche l’odore». Il russo crede nella forma più alta di bellezza: Dio. Perciò si salverà.

Ivo Flavio Abela

27 marzo 2021