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mercoledì 17 agosto 2022

Su «La prospettiva rovesciata» di Pavel Florenskij

In effetti Florenskij non ha tutti i torti. Siamo avvezzi a reputare la resa della prospettiva come una conquista occidentale che ha letteralmente sovvertito i paradigmi rappresentativi della "realtà" (le virgolette alte sono volute) a partire dal Rinascimento (ma con prodromi collocabili anche prima, se è vero che Giotto viene da lui ritenuto "moderno", ad un'attenta analisi degli affreschi della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi).
Eppure - dice il genio russo - sembra improbabile che la prospettiva non fosse familiare anche a quelle civiltà (compreso l'Egitto dei faraoni) che sembrano lontanissime dal saperla rendere. E se prima del sovvertimento umanistico-rinascimentale la prospettiva volutamente non fosse stata usata perché, più che rendere naturale la realtà nella sua rappresentazione figurativa, si era consapevoli del fatto che essa fosse finalizzata a rendere soltanto la percezione della realtà, ma non appunto la realtà stessa?
A ben vedere - egli continua - anche i maestri che hanno fatto propria la lezione della resa in prospettiva diretta spesso sembrano prendersi vistose licenze. Basti pensare a "La scuola di Atene" di Raffaello, in cui sono impliciti almeno due piani e due punti di vista. Viceversa alcuni elementi sarebbero risultati non rappresentabili poiché semplicemente occultati a causa dell'applicazione delle regole della prospettiva. Dunque anche chi ha aderito alla resa prospettica ha talvolta derogato alle sue norme, rinunciando di conseguenza alla resa della stessa unità prospettica.

E allora le icone del XIV e del XV secolo (alcune anche del XVI), che talvolta sembrano rozze agli occhi di un critico "positivista", sono invece la prova del fatto che gli iconografi hanno rinunciato a rendere la percezione della realtà a favore della resa della realtà tout court. Ed è forse questo il motivo per cui rimaniamo attratti da quelle che presentano maggiori (presunte) imperfezioni, ancor più che da quelle che iniziano a tenere conto delle "correzioni" dovute all'applicazione delle leggi della prospettiva (a partire dal XVI secolo almeno).
Ne consegue che anche il modo di disegnare del bambino (attraverso un atto di scomposizione cognitiva) è più fededegno di quello di un artista che abbia compiuto atti di astrazione mentale per accogliere nel proprio seno creativo ed espressivo la prospettiva (che riguarda - lo si ripete - la percezione della realtà e non la realtà stessa, con la conseguente produzione di una... copia della copia!).
Il cubismo del bambino (per citare solo l'aspetto spesso più plateale del suo modo di disegnare) è dunque la chiave per la resa della realtà; l'innaturale torsione del tronco e la proiezione di profilo degli arti nelle figure egizie rispondono alla stessa esigenza di riproduzione della realtà; il cosiddetto astrattismo moderno, insieme a certi tratti caratterizzanti del cubismo, risulta per certi versi un modo per sottrarsi alla gabbia della finzione prospettica (e ciò viene pure ben spiegato da Pavel Evdokimov).
Perché - lo si voglia o no - il piano su cui riproduciamo esseri viventi e oggetti è sempre e comunque bidimensionale: la terza dimensione, che con la resa prospettica tendiamo forzatamente a introdurvi, non è reale, ma finta. Non sarà un caso che - con buona probabilità - ampi accenni di resa prospettica dovevano trovarsi nei dipinti che fungevano da sfondo scenico nella tragedia e nella commedia greca (azioni sceniche FINTE, cioè finalizzate alla creazione dell'illusione).
Corollario: se le icone costituiscono immagini che rimandano al Prototipo, nulla meglio di loro è adeguato alla rappresentazione di quel Prototipo stesso, poiché quel Prototipo è il vero essere.

Ivo Flavio Abela



sabato 18 settembre 2021

Florenskij, Tarkovskij, Tjutčev, Dostoevskij... non li dimentichiamo

Leggendo Non dimenticatemi di Pavel Florenskij (cioè la raccolta delle lettere da lui inviate dal gulag alla moglie, ai figli e alla mamma, negli anni che precedono la sua morte per fucilazione), m'imbatto in alcune considerazioni relative a Fëdor Tjutčev e a Fëdor Dostoevskij: meritano di essere appuntate e meditate. Sono tratte da una lettera inviata alla figlia maggiore Ol'ga Pavlovna. In una sua missiva precedente, quest'ultima aveva chiesto al padre di parlarle proprio dei due grandi russi citati e gli esprimeva l'impressione che essi fossero molto simili. Perciò padre Pavel le rispondeva mettendola in guardia dall'errore consistente nell'averli vicendevolmente assimilati.

Le lettere di Florenskij ai familiari sono piene di meravigliose descrizioni e riflessioni relative ai luoghi che al povero deportato furono fatti attraversare prima del suo definitivo stabilirsi presso le ingrate isole Solovki. Ne descrive tutto: il cielo, il clima, le caratteristiche stagionali, la fauna, la flora, i corsi d'acqua. E ogni volta prega i figli di cercare ulteriori notizie riguardanti tali luoghi sugli atlanti e sui libri di geografia che egli ha dovuto lasciare in casa: insiste affinché i figli acquisiscano così nuove conoscenze e nel contempo partecipino alla vita del loro papà che è così lontano (quante volte conclude una lettera con le parole: «Non dimenticare il tuo papà!»).

Pavel Florenskij
Spesso si profonde in esposizioni scientifiche (quelle sul gelo sono affascinantissime), in consigli relativi al modo più efficace di costruire una propria enciclopedia di conoscenze che possa costituire una base solida per la vita e le occupazioni future, in ammonimenti fortemente educativi («Non tralasciare lo studio del tedesco e - se puoi - cerca di leggere le opere dei tedeschi in lingua originale, anche se a pezzetti»; «Non tralasciare la musica: studiala con calma e applicazione; ascolta e suona Mozart, Beethoven e Bach»), in suggestioni per l'incremento della fluidità del pensiero, dell'esposizione e della capacità di fare propria anche la musica insita nella lingua («Esercitati nel leggere a voce alta, scandendo ogni parola, poesie sia di autori stranieri, sia di nostri connazionali. Fallo anche solo per quindici minuti al giorno. Ti servirà per carpire sempre più profondamente il senso che ogni parola contiene e la materia fonico-ritmica che essa veicola»), ancora in spiegazioni relative alla letteratura.

Non fa mai mancare ai figli, alla moglie e alla mamma, parole di amore, sebbene scandite da una sorta di mantra: «Siete tutto per me: la mia vita è in voi. Anche se non sono spesso capace di esprimervi con le mie parole tutto il mio trasporto per voi. Per me siete tutto».

Andrej Tarkovskij
Qualche sera fa, in un momento di estrema amarezza (anzi forse ottenebrato da essa), postai sul mio account Facebook la copertina di questo libro, dicendo che si trattava di una ripresa di lettura. Eppure non lo ricordavo così: è come se l'avessi scoperto per la prima volta. Leggendolo, non ho potuto fare a meno di ripensare a Martirologio, cioè al diario del regista Andrej Tarkovskij, la cui lettura (avvenuta ormai circa sei o sette anni fa) lasciò alla mia coscienza un tesoro di riflessioni, descrizioni, dati, che mi fecero amare Tarkovskij ancora più di quanto fosse accaduto fino ad allora. Forse perché un artista va ammirato, apprezzato, adorato, venerato (Tarkovskij è sempre stato un vero mito della mia vita fin da quando, adolescente, vedevo in tv il trailer del suo Nostalghia). Ma può essere amato (come un familiare, un fratello, un amico) quando se ne percepisce anche la "materia" umana (e un diario è l'ideale per un tale scopo).

Leggendo le lettere di Florenskij mi accade la stessa cosa: dimentico per un attimo Le porte regali o La filosofia del culto e mi affeziono all'interiorità di un uomo mite, giusto, geniale, profondo, multiforme, ammazzato ingiustamente in un lager sovietico proprio perché genio scomodo. Per me sono molto simili Tarkovskij e Florenskij, sebbene il primo a volte avventato e istintivo, il secondo equilibrato e misurato. Ma la Bellezza russa (la maiuscola è voluta) li accomuna in modo sorprendente. Se la Grecia è per me la terra degli dei, la Russia è quella di Dio.

Inutile dire quanto per me sia indimenticabile quel giorno in cui, agli inizi del lockdown, sentii al telefono per la prima volta Andrej Tarkovskij Jr., il figlio del regista (ma questo è noto a tutti ormai da tempo. Però il fatto che io torni spesso con la memoria a quell'evento forse testimonia quanto mi abbia emotivamente segnato). E proprio lunedì scorso, in uno degli scambi di messaggi che continuano ad avvenire con lui, Andrej Jr. mi diceva della ristrutturazione in corso di una casa in Russia che - potrei inferire da alcuni dati - potrebbe essere proprio quella menzionata da Andrej padre nel suo diario.

Fëdor Tjutčev
Ma ero partito dall'idea di riportare qui una breve sintesi delle riflessioni di Florenskij su Tjutčev e Dostoevskij e mi sono lasciato prendere la mano. Quindi mi fermo e... eccole. Notevole mi sembra il concetto di caos in Tjutčev: vi ravviso quasi una sfumatura di materialismo epicureo: «L'umanità, con tutte le sue istituzioni e con tutti i suoi concetti, non è che una, sia pur importantissima, creatura del caos».

Quando - spiega per lettera Florenskij alla figlia - il caos sovverte i concetti umani, non lo fa per dispetto, ma semplicemente perché non si accorge di loro. Li calpesta imponendo all'uomo un'altra legge suprema che - per quanto possa rivelarsi talvolta terribile - viene percepita dallo stesso essere umano come la vera bellezza del mondo: «un velo intessuto d'oro», per usare le parole dello stesso Tjutčev. Rendersi attivamente partecipi di questa gioia è vivere in pieno.

A differenza di Tjutčev, Dostoevskij non si eleva fino alla comprensione totale e vera di questa legge suprema. Egli, infatti, vi individua solo la lotta del caos contro il bene, finalizzata a creare sofferenza per la sofferenza. Anzi finisce per confondere tale legge suprema con l'azione umana volta al male. Per lui il caos non è il motore della vita; semmai è ciò che tende a distruggerla e a sopprimerla.

Fëdor Dostoevskij
Se Tjutčev esce dall'uomo e individua nella natura la sede primigenia del caos e dunque l'origine prima della bellezza, Dostoevskij non comprende proprio questo concetto: egli vede il caos nell'uomo e non nella natura. Eppure - aggiunge Florenskij - quando l'autore dei Karamazov riesce quasi inconsapevolmente a liberarsi di tale visione e quindi "esce" dall'uomo stesso, dà al «fondamento» della natura il nome di Terra. Il concetto dostoevskijano di Terra è sensibilmente affine a quello della Notte di Tjutčev. La Notte di Tjutčev rimuove la coltre che copre durante il giorno tutto ciò che avviene e il poeta russo la vede come il momento del disvelamento dei risvolti ontologici dell'esistenza umana: l'ora del palesarsi dell'essenza eterna dell'universo.

Ivo Flavio Abela

venerdì 8 luglio 2016

«Impara a pronunciare bene la realtà»: «La preghiera della letteratura» di Andrea Caterini

«Una traslitterazione del suono fatta dallo sciabordare
Delle piccole onde quando la luna si allontana e la casa
Si avvicina alla riva, ci potrebbe rivelare molte cose. Sulle
Vette dei sensi prima di tutto. Dove la gentilezza arriva
Sempre prima, scavalcando la forza: un luminoso celeste
Color pistacchio, il ciottolo incandescente, passi solitari del
Vento sulle foglie. O altrimenti: una metopa, una cupola
Che rendono lineare la natura come lo sciabordìo rende
Universale la lingua greca.

Impara a pronunciare bene la realtà»

Odysseas Elytis, «Incenso al migliore», XXV

Ho definito un breve canone di libri – fra i tanti che ho letto – da me molto amati. Non ho mai fatto mistero della potente attrazione su di me esercitata da tutto ciò che è ortodosso. E ciascuno di quei libri mi ha offerto la chiave per interpretare il significato della contemplazione e il desiderio di ascesi: i «Racconti di un pellegrino russo» (lettura affrontata per la prima volta nei giorni immediatamente seguenti un evento traumatico, quando – scomparso un punto di riferimento – cercavo di ritrovare quel Nord che avevo perduto) mi introdussero alla preghiera del cuore e al modo in cui ogni respiro può diventare – ritmicamente, sistemicamente e ontologicamente (mi si perdoni l'uso reiterato degli avverbi) – parte della preghiera stessa; «Teologia della bellezza» di Pavel Evdokimov mi svelò l'equivalenza fra arte figurativa e preghiera; «Le porte regali» di Pavel Florenskij mi insegnò che il passaggio dall'umano al divino può avvenire anche nella quotidianità; «Autobiografia di uno starec» di Paisij Veličkovskij mi fece comprendere quanto sia faticoso riconoscere una vocazione e perseguirla; «Santi di tutti i giorni» di Tichon Ševkunov, più recentemente, mi ha aiutato a guardare con leggerezza, arguzia, tenerezza, umanità, amore, alle vite dei monaci russi e di tanta gente comune che ha fatto della preghiera (perché vivere lasciando respirare il divino in se stessi è preghiera) il proprio stile di vita. E – nota ludica – mi sembra simpatico il calembour facente sì che il cognome dello "zar" Vladimir Vladimirovič risulti contenuto in quello del diabolico starec al quale era tanto devota la zarina Alexandra Fëdorovna Romanova, se è vero che Ševkunov viene oggi definito «il Rasputin di Putin».

Aggiungo oggi un sesto libro: «La preghiera della letteratura» di Andrea Caterini. Avevo già letto il suo commento a «Il sogno di un uomo ridicolo» di Fëdor Dostoevskij. L'efficacia espressiva priva di orpelli, fresca, pulita (che del resto ravvisavo in molte sue recensioni) me l'aveva fatto apprezzare. Anche perché quel commento era stato scritto con la foga di chi è pressato dall'urgenza di esprimersi, dalla necessità di comunicare e di condividere, dall'amore per quanto è letteratura e bellezza.

Ma che cosa può avere in comune il saggio scritto da un critico (giovanissimo, ma già dotato di invidiabile formazione e di raffinate competenze ermeneutiche) con l'Ortodossia, con la contemplazione e l'ascesi? Lo trovo – e non è tautologia – semplicemente molto ortodosso. Soprattutto lungo la prima settantina di pagine. E poi nel capitolo conclusivo, dedicato anch'esso, come il commento già citato, a Dostoevskij. Il colore, la singolarità, le isotopie di un testo passano attraverso la lingua. E nella lingua di Andrea prende forma una dimensione ieratica che rende "credo" l'ontologia della letteratura: chi affida se stesso ai misteri e ai dogmi della letteratura professa una fede; chi – esercitandola – pronuncia la letteratura (leggendola o scrivendola, cioè attualizzando in segni precisi il magma concettual-verbale racchiuso nel proprio animo e all'interno dei libri) prega. E può, tale preghiera (enfovirgole volute), diventare incessante quando è esercizio continuo. Tutto ciò passa anche attraverso riferimenti a testi e ad autori che non necessariamente sono legati ad atmosfere ecclesiastiche orientali: la «Genesi», Giovanni della Croce, Shabtai, Betocchi, Tolstoj, Grossman, Lewis, l'Achmatova, Čechov (colui che, a differenza di Tolstoj, mai giudicò, limitandosi a ritrarre ciò che vedeva, secondo la citazione di Irène Némirovskij, riportata da Andrea alla pagina 45. Anche «perché solo riconoscendo le miserie degli altri come fossero nostre si può pensare di "diventare migliore"», p. 47).

Fin dalle prime pagine del libro, quello della preghiera si profila come un linguaggio imparato a posteriori rispetto alla lingua materna. Se quest'ultima ci consente di nominare ciò che ci circonda, fungendo anche da strumento conoscitivo usato per impadronirci della realtà, il linguaggio della preghiera ci aiuta a tornare alla dimensione edenica cui siamo stati strappati dai nostri biblici progenitori. Dacché Eva ha ceduto alla tentazione del serpente e Adamo l'ha maldestramente assecondata, l'uomo ha assunto la consapevolezza innanzitutto della propria nudità, poi di tutto il male insito nella fatica del vivere. Dio ne ha comunque avuto misericordia, se è vero che in «Levitico» 25 si ricorda come abbia concesso all'uomo una tregua: «Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi». Per un anno all'uomo Dio concede di vivere come Adamo ed Eva erano vissuti nell'Eden.

«Sacrificio di Enea ai Penati»
(Ara Pacis Augustae, Roma)
Analogamente il Pius Aeneas (il concetto di pietas viene rivisitato, nel contesto creato da Caterini, sulla scorta delle riflessioni di Simone Weil e di T. S. Eliot), mantenendosi fedele alla missione decisa per lui dal Fato, reduce dalla distrutta Ilio, abbandona il proposito di una possibile, comoda vita da re di Cartagine, sposo della regina Didone, pur di approdare alle coste del Lazio per compiere quello che Andrea definisce un atto di fondazione-fecondazione, cioè – ancora una volta e per dirla in termini sempre biblici – per ricostruire l'Eden perduto (il pensiero corre a Tito Livio e al primo Proemio ad «Ab Urbe condita libri», in cui è ben illustrato il senso di una concezione provvidenzialistica della Storia, sulla base della quale Roma non poteva che diventare la Caput mundi). La ricostruzione viene avviata anche a costo della perdita del senso di comunità da parte di quanti avrebbero abitato il nuovo Eden latino: la pace imposta loro da Enea avrebbe senz'altro sottratto ai romani l'idea della necessità di una reciprocità, di un rapporto interpersonale da gestire con acume ed equilibrio per garantire la pace stessa. Tale dettaglio rientra in quell'assenza di consapevolezza che Caterini sottolinea essere una delle caratteristiche più significative dello stato edenico, se è vero che in esso Adamo non si rendeva neanche conto d'essere nudo.

«Anástasis» dalla Chiesa del Salvatore di Chora (Istanbul)
Nonostante tutti i tentativi ("confessionali" o laici) di ripristinare lo stato edenico – ci avvisa Caterini quando parla di Betocchi (si veda in particolare la pagina 88) – la disobbedienza dei nostri progenitori ha scavato un solco profondo fra noi e la nostra vita, anzi una voragine («E so quanto la vita sia discorde / con se stessa», stando alle parole di Betocchi stesso) che non ci permette di vedere compiuta e unita in noi la vita stessa (è il "diabolico", nell'accezione etimologica dell'originaria parola greca, ovvero "ciò che separa", l'elemento che fa soffrire l'essere umano). La letteratura diventa allora una preghiera mediante la quale l'essere umano cerca di restaurare il proprio Eden perduto, ripristinare l'unità infranta, tornare a contemplare il divino.

Alphonse Mucha
«Russia restituenda»
Per "pregare" la letteratura è necessario però scendere agli inferi della condizione umana e della coscienza, umiliandosi: l'umiliazione (il riconoscimento del proprio errore, della vergogna del proprio corpo, di ciò che di torbido s'è impresso nell'anima) apre le porte all'umiltà che ci riconduce al divino, non diversamente da quanto accade a Dostoevskij [stando anche alla lettura che Gide dà della "resurrezione" dello scrittore russo, reinterpretata dallo stesso Caterini alla pagina 116. E a me non può non tornare in mente il magnifico affresco dell'Anástasis dalla Chiesa del Salvatore di Chora (Istanbul), in cui Cristo discende agli inferi (umiliando se stesso pur di liberare Adamo ed Eva) per poi gloriosamente risorgere]. E analogamente a quanto avviene nella trasfigurazione di Anna Achmatova che «nei versi di Requiem non somiglia, ma appunto è la "Madre di Dio", un simbolo, una realtà – un'icona insomma – sul cui volto si esprime l'eternità, la luce di ogni madre che ora la osserva e vi si riconosce – riconosce la forma stessa di una patria vergine: il paradiso che ha sognato» (p. 71). Il capitolo sulla poetessa russa è altamente suggestivo, coraggioso, ardito, se è vero che l'Achmatova viene identificata – per dirla grecamente – con la Panaghìa in nome della purezza e del mistero magnifico della maternità.

In un mondo ormai privo di punti di riferimento, di modelli positivi, in una società rosa dall'odio (anche religioso) e dall'arrivismo, dalla vacuità e dalla fiacchezza tanto intellettuale quanto spirituale, Andrea Caterini restituisce dignità alla parola e alla necessità di concentrarsi su essa. Ci invita a scandirla come si fa quando si recita una preghiera, perché proprio la preghiera consente all'uomo di ritrovare quella parte divina di sé dalla quale è stato separato. Parlare, inoltre, equivale a pronunciare la realtà, per usare un'espressione di Odysseas Elytis. Pronunciare bene la realtà è ripristinare la possibilità di tornare a vivere, in essa, con Dio. Perché di fatto – ci ricorda Andrea – Adamo ed Eva hanno creduto di avere perduto l'Eden. In verità non se ne sono mai allontanati: hanno soltanto smarrito la possibilità di coabitarvi con Dio. Dunque fiat verbum. Nunc et semper.

Ivo Flavio Abela