“Felicità” è parola strana fin dalla sua definizione e potrebbe fuorviare un lettore che non ignora le frasette ad effetto spesso riportate sulle cartine di celebri cioccolatini. Ma non è quella la felicità cui Di Consoli allude, ricordando anzi che nell’ambiente umile e povero in cui viveva da ragazzo tale parola non veniva nemmeno pronunciata: non faceva parte del vocabolario della povera gente. Col tempo Andrea ha compreso che la felicità è la vita stessa, pur nelle sofferenze che essa implica. Fin dall’incipit l’autore dichiara (quasi polemicamente) di essere sempre stato reputato uno scrittore «pessimista, triste, disperato», ma «la gente disperata è disperata perché ama la vita, e vorrebbe che non finisse mai»: «quando sto per cadere, quando provo dolore, io sono felice». Andrea è “felice” anche quando osserva ciò che fa l’altro perché sa vedere “oltre” le azioni del prossimo. L’altro è fatto di quello stesso humus di cui l’autore è fatto (e noi siamo fatti): perciò Di Consoli lo ama. Amare l’altro (provare compassione, in accezione etimologica) per l’altro è la chiave per perdonare se stessi e per riflettere sui propri fallimenti senza più condannarli, né condannarsi.
Quell’amore rende “il male di vivere” accettabile, tollerabile, quasi lecito, anche se permane la consapevolezza che di questa vita rimarrà un giorno poco, anzi nulla: forse solo qualche traccia nella quale non tutti si imbatteranno o in cui qualcuno s’imbatterà casualmente, come avviene all’autore quando osserva le figure che popolano vecchie foto degli inizi del Novecento, foto che egli ama procurarsi. Andrea confessa la propria debolezza: il timore di sparire definitivamente dal mondo senza lasciare traccia di sé nella memoria dei posteri. Riprendendo le parole di una donna conosciuta casualmente una notte, invita il prossimo a non dimenticarlo domani, ma appunto dopodomani, quasi a significare: «Lasciatemi vivere in voi ancora un po’, quando non ci sarò più. Ricordatemi per un po’. Non cancellatemi subito».
Qui si evita di citare interi gruppi di versi che pure andrebbero riferiti a conferma della ricchezza delle riflessioni di Andrea (la repulsione per la fierezza ostentata da chi ritiene di avere ottenuto una rivincita sociale, la solitudine inevitabile, l’incapacità di perdonarsi, il sonno in cui si rifugia colui che soffre, la difficoltà di essere genitore, la bellezza dei figli che fioriscono e tanto altro), ma il lettore leggerà tutto da sé. A chi scrive rimangono particolarmente impressi i ritratti dell’ex suocero Vittorio Picone e del celebre latinista Luca Canali: autentici camei di bellezza e di humanitas. Ci si augura che, al pari dell’autore, anche questo libro non venga dimenticato perché può insegnarci a vivere meglio.
Ivo Flavio Abela
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