domenica 20 agosto 2023

L’epopea della ceramica di Vietri in «L’isola di terracotta» di Domenico Notari

Anni Venti del Novecento. Vietri sul Mare. Michele Procida compie il suo tirocinio nella faenzera di famiglia. Alcuni artisti tedeschi giungono in paese. Innamorati del mare, dell’aria e dei colori locali, vogliono dare nuova vita all’arte vietrese della ceramica e a una tradizione molto antica, ideando forme e colori in grado di reinterpretare quanto tramandato da generazioni. Gertrud è una di loro e Michele inizia ad amarla. La donna si rivela enigmatica: ora algida, ora appassionata, riesce anche con un solo cenno a condizionare l’umore del giovane innamorato che però la perderà (apparentemente), quando le sarà intimato di tornare in Germania in quanto ebrea. Formazione e Storia s’intrecciano in questo romanzo che romanzo non è del tutto, travalicando le caratteristiche canoniche del genere. L’isola di terracotta (Marlin 2019, ma già Avagliano 1999) di Domenico Notari, architetto e scrittore salernitano,  è infatti l’epopea della ceramica di Vietri.

Prima Michele ha amato Tommasina, una giovanissima popolana, quasi una bambina, capace di leggere e di alterare arbitrariamente la trama dei libri. Michele non sa proprio trattenersi quando sta con lei: a stento riesce a occultare il desiderio che assume la forma di un “inconveniente”. Non riesce proprio a evitare quel rigonfiamento: gli capita a mare, dove l’imbarazzo è tanto più plateale quanto minori sono le possibilità di nascondere l’oggetto della vergogna; gli capita nella propria camera da letto, in cui si riunisce con un amico e con la ragazzina, quando quest’ultima prova a dare a entrambi lezioni di grammatica e aritmetica. Oggetto di contesa tra Michele e l’amico, Tommasina viene perduta da entrambi quando parte per l’America. Ma fa in tempo a confessare a Michele che avrebbe scelto lui. Michele sembra destinato a rimanere solo, se non fosse proprio per la ceramica.

Non mi risulta che esista un romanzo italiano dedicato espressamente alla ceramica stessa, di cui Domenico Notari parla, peraltro, con raffinata competenza tecnica. In un’intervista ha del resto dichiarato di avere conosciuto, per motivi familiari, le faenzere durante la sua infanzia, quando la ceramica veniva cotta in forni a legna alti come case di tre o quattro piani: antri monumentali, traduzioni tangibili della fucina di Efesto, sedi di un nuovo mito (non è un caso che nella terza parte Notari abbia dedicato alcune pagine al racconto dal titolo Il secondo dono di Prometeo: un po’ apologo, un po’ narrazione esiodeo-eziologica). La competenza tecnica dell’autore si esplica non soltanto nella perfetta illustrazione del processo creativo delle terrecotte, ma anche nell’uso disinvolto di una terminologia specialistica che, lungi dall’appesantire il registro, nulla toglie al potenziale lirico della lingua che egli maneggia. Bastino i deliziosi elenchi dialettali di forme ceramiche e di strumenti da lavoro, ma soprattutto l’attenzione “linguistica” rivolta al modo di ottenere i colori (compreso un curioso e un po’ raccapricciante dettaglio riguardante il giallo): Notari rende con le parole anche le iridescenze che la più sofisticata e tecnologicamente avanzata riproduzione fotografica non riuscirebbe a significare. Se lo sfoggio di dialettismi è ampio, essi risultano così organicamente fusi con l’italiano di Notari che quasi non ci si rende conto della loro natura dialettale. Ci troviamo, in altri termini, al cospetto di una lingua nitida, ariosa, leggera, “pura”, la cui nascita sembra avere preceduto quella dello stesso libro. Ciò emerge soprattutto nella prima e nella terza parte. Nella seconda il piglio linguistico diventa più mimetico e popolare perché Notari passa alla narrazione in prima persona e, forse, anche in ragione della naturalezza tutta popolana di Tommasina. Nondimeno la leggerezza e la purezza permangono, insieme a un dosaggio oculato di elementi esornativi: non troveremo una parola in più o una in meno, semmai un caleidoscopio di sensazioni che sconfinano in un contesto ricorsivamente sinestetico. Al bando, per farla breve, ogni tipo di sperimentalismo affettato o esagitato.

Romanzo di formazione, romanzo storico, trattato tecnico sulla ceramica, raccolta di fiabeschi racconti (quello dell’origine della ceramica, quello già citato del dono di Prometeo, quello bellissimo e lirico del chiostro maiolicato di Santa Chiara a Napoli). Ma i due fiumi che percorrono sotterraneamente le duecento pagine di questo libro rimangono la ceramica e l’amore non realizzato. E ci rendiamo conto di quanto anche il secondo dei due temi appena citati sia centrale, se analizziamo la struttura ad anello che il libro assume: ciò che rimane in sospeso alla fine della prima parte viene risolto alla conclusione della terza, quando meno ce l’aspetteremmo, grazie al ritrovamento di una lettera.

L’isola di terracotta ci immerge letteralmente in quel paradiso che del resto tanto piacque a Léonide Massine, il noto ballerino e coreografo russo amante di Sergej Pavlovič Djagilev (il creatore dei Ballets Russes) e perciò antagonista del nevrotico Vaclav Fomič Nižinskij (citato in Prospettiva Nevskij di Franco Battiato). Amico di Henri Matisse, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Igor Stravinskij, Massine sarebbe apparso nel film Scarpette rosse del 1948; suo figlio Lorca avrebbe coreografato per Vladimir Vassiliev Zorba il Greco di Mikis Theodorakis alla fine degli anni Ottanta per l’Ente Arena di Verona. Poco prima dei trent’anni Léonide acquistò una delle tre isole Li Galli (quella a forma di delfino) e vi abbellì la villa nella quale più volte sarebbe tornato e che decenni dopo sarebbe appartenuta a Rudolf Nure’ev. Su richiesta di Massine la faenzera in cui lavora il protagonista di L’isola di terracotta crea le riggiòle per il fiabesco pavimento decorato a rose sparse. Massine s’era innamorato di quel mondo fatato dopo averlo contemplato per ore durante tutta una notte. Domenico Notari è riuscito efficacemente a rendere l’essenza dell’oggetto d’amore di Massine, conducendoci tra colori e pigmenti, terracotta e cocci destinati ad essere ricomposti mediante un inedito kintsugi, odori e sapori, mare e fondali, animali e piante, zingari e artisti, turbamenti e pruriti amorosi.

Ivo Flavio Abela





lunedì 24 luglio 2023

«La promessa» di Gianlivio Fasciano. Affrontare la vita con le armi etiche del passato

La promessa. Un pastore, la guerra, un amore (IOD 2022) è un interessante romanzo di Gianlivio Fasciano, che sembra riallacciarsi al filone realistico particolarmente vivo nel corso del ‘900. Protagonista ne è Romolo di Meo, nato nel 1921 non lontano da Filignano, a Mastrogiovanni, un paesino che «non si vede sulla cartina. Anzi, si nasconde, perché non sta in un punto preciso. Sopra Caserta, sotto la Ciociaria, verso l’Abruzzo, dentro il Molise». L’infanzia del protagonista è segnata dalla freddezza di una madre che non si è mai rassegnata alla perdita del suo primo figlio. Il padre ha combattuto nella Grande Guerra e ne porta ancora il segno: colpito da un proiettile che gli ha trapassato il polso da un lato all’altro, gli è rimasto il foro attraverso cui spesso Romolo guarda il mondo, quasi quel buco fosse un filtro. Papà Simone è il suo eroe: sa fare tutto e manifesta una saggezza pratica in grado di risolvere ogni problema.

Romolo pensa al proprio futuro e sa che non vorrà fare altro che occuparsi delle vacche e dei vitelli: avverte fortissimo il legame con la terra, quasi farsi possedere da quest’ultima rientrasse in un mos maiorum che si perde in lontanissimi tempi catoniani. L’amore per la terra non può essere cancellato nemmeno quando Romolo viene chiamato al fronte (è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale): egli mantiene un distacco totale da Mussolini, dal fascismo, dalla stessa guerra, dalle ideologie su cui essa si fonda (in più di una circostanza manifesta la propria estraneità alla politica). Così, giunto a destinazione, non può fare altro che osservare il paesaggio, guardarsi intorno e pensare a come potrebbero pascolare bene le sue bestie lì. Non lo cambiano l’essere ormai un tiratore e un soldato stimato, né il diventare telegrafista: continua a sentirsi un contadino fuori posto, quasi a significare che tale condizione non è poi così scomoda (evidentemente in quel mondo rurale i contadini trovano appagamento). Il colmo è che Romolo, dopo l’armistizio, diventa disertore senza nemmeno rendersene conto, con tutto ciò che di problematico ne consegue per la sua incolumità. Egli ha anche ricevuto (o meglio “si è dato”) un’educazione sentimentale: discreta, quasi in sordina. Non è un caso che finisca per desiderare una ragazza del paese amante della lettura, Giovanna, e la sposa poco prima della chiamata alle armi. La giovanissima moglie diventa una delle ragioni di vita di Romolo insieme a Delia, la bambina che nascerà dalla loro unione. Ed ecco che la famiglia diventa il perno intorno al quale ruota l’universo contadino. Ma con i fatti fermiamoci qui: il lettore scoprirà da sé tutto il resto, talvolta rimanendo col fiato sospeso.

Romolo narra in prima persona una vicenda realmente accaduta che Gianlivio Fasciano ha voluto salvare dalla dimenticanza. Egli ha creato un registro linguistico adeguato a un personaggio incolto, il cui livello di istruzione si è fermato al sapere contare fino a dieci e all’essere capace di firmare. Il risultato è una lingua asciutta, essenziale (in certi dialoghi anche telegrafica), popolare, infarcita di dialettismi, mediante i quali l’autore cerca di restituire il colore regionale, prima ancora che della parlata, della “testa” (il modo di elaborare la realtà, si potrebbe dire con un’espressione più tecnica) di una comunità contadina, la cui esistenza non è attestata nemmeno sulla carta geografica. A volte, però, Gianlivio Fasciano non può fare a meno di palesarsi. Bastino come esempi l’uso dell’aggettivo “simbiotico”, che difficilmente può appartenere a un contadino soprattutto se di quei tempi, e la seguente descrizione (peraltro bella e quasi lirica perché Gianlivio Fasciano conosce bene l’arte dello scrivere) del paesaggio intorno a Mastrogiovanni, in riferimento al padre Simone: «Certe volte pensavo che era figlio direttamente di quella terra, dei ruscelli di ottobre, delle scivolarelle argillose di aprile, dei cardi che si essiccavano ad agosto. Ero convinto che fosse nato in un bosco, direttamente dal muschio, che il pungitopo non gli potesse fare male, e che i suoi occhi fossero capaci di riconoscere ogni pietra di quelle valli».

La promessa (quella di non lamentarsi mai, strappata a Romolo dalla madre) è il romanzo di un uomo dotato della ferrea volontà dei semplici, capace di proiettarsi in un futuro saldamente radicato in un patrimonio antropologico che continua a vivere tramite se stesso, resistendo ai condizionamenti esterni e non scendendo a compromessi, se non quello con la morte dei genitori. Tutto ciò avviene in uno stato perenne di conservatività che non significa immobilismo, semmai desiderio di vivere trovando forza e ragioni nella propria umanità.

Ivo Flavio Abela