sabato 4 luglio 2015

«Soli eravamo» di Fabrizio Coscia. Le infinite possibilità di un'opera aperta

La mattina dello scorso 15 giugno ho casualmente letto un articolo relativo a Luke, un bambino americano addolorato a causa della morte del proprio cane. L’articolo narrava che ogni giorno, per quasi due mesi, la mamma di Luke aveva scritto a nome del figlio una lettera da recapitare a Moe (questo il nome del beagle) presso la Nuvola 1 del Paradiso dei Cani. Inaspettatamente Luke aveva ricevuto una risposta da Moe. Il cane gli faceva sapere che stava bene: giocava tutto il giorno ed era felice di avere avuto un amico come Luke. Sembra che il redattore della risposta fosse stato un postino dal cuore tenero. Egli, attratto da una di quelle lettere a causa dell’assenza di affrancatura, avrebbe deciso di aprirla e di rispondere a nome del cane, aiutando Luke ad accettarne la perdita. Non avrei – credo – conservato memoria di un tale, alquanto futile articolo, se non mi fossi prima imbattuto in un aneddoto simile, deus ex machina del quale era una personalità stavolta illustre: una mattina Franz Kafka passeggiava con la propria giovane convivente, Dora Diamont, in un parco berlinese; incontrò una bambina che piangeva perché la sua bambola si era persa. Kafka le disse che non si era persa, ma s’era allontanata perché aveva deciso di vivere nuove esperienze. S’impegnò dunque a portarle una lettera al giorno, per circa una ventina di giorni, da parte della bambola: lettere che egli stesso avrebbe scritto perché «la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca». L’aneddoto kafkiano e la citazione sono tratti da «Soli eravamo», pubblicato recentemente da Fabrizio Coscia (scrittore, giornalista, insegnante).

Innanzitutto una riflessione (forse verbosa, ma per me necessaria). Le grandi narrazioni si sono esaurite. Siamo circondati da jaeggiani alfabeti di sabbia che vengono spacciati dai loro autori per romanzi (anzi per «storie». «Storia» – nell’accezione di ‘racconto’, ‘narrazione’, ‘intreccio’ – è diventata parola passe-partout. La usano tutti: pure i miei studenti. E mi arrabbio, facendo loro notare che i genericismi diventano stucchevoli quando esistono fior di non inutili tecnicismi nel linguaggio della narratologia e della critica): prodotti che nulla lasciano al lettore. Forse è il momento di tacere e di ritornare ai maestri: è il momento di rileggere il canone. Alcuni giorni fa pensavo che, se proprio si vuol scrivere, si potrebbero fare almeno dialogare fra loro gli immortali (ho sempre immaginato un romanzo epistolare del quale siano protagonisti impossibili Pavel Florenskij e Anton Čechov). O i personaggi creati dalla fantasia dei maestri (e non solo in ambito letterario): il Viandante sul Mare di Nebbia di Caspar David Friedrich con l’Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, Ifigenia (quella dell’exemplum lucreziano) con la Margherita di Bulgakov: qualcosa di molto simile a quanto realizzato da Italo Calvino allorché fece sì che il tolstojano principe Andrej Bolkonskij e il barone Cosimo Piovasco di Rondò s’incontrassero, ottenendo un effetto sublime (che Cosimo non fosse ancora entrato, per ovvie ragioni, nel gotha dei grandi personaggi di tutti i tempi importa poco). Ma forse Calvino era Calvino. E qualsiasi tentativo di ripetere l’esperimento potrebbe risultare fallimentare, se attuato dai modesti esseri umani nostri contemporanei (mi sono appena reso conto del fatto che la mia fantasia vira quasi sempre verso la Grande Madre Russia).

E a questo punto mi sento sostenuto anche da Odysseas Elytis: «Oh sì, mi sembra che la letteratura dei popoli indipendenti sia finita. Entriamo nell’era della paraletteratura delle province europee: qualcosa di leggibile, ma che non è esattamente lingua, qualcosa che riguarda il pensiero, ma che non lo tiene occupato, qualcosa ricco di fantasia, ma una fantasia pronta e confezionata come al cinema, che non ha bisogno cioè della nostra collaborazione. D’accordo. Ma, lo si voglia o meno, se nessuno chiede lamette, nessuno le fabbricherà» («Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del poeta», pp. 20-21). Ecco ciò che manca oggi alla letteratura: la qualità. E pure la capacità di coinvolgere il lettore. Forse – stando ancora a Elytis – latita il lettore stesso (ma su quest’ultimo punto non m’interessa soffermarmi).

«Soli eravamo» ha un pregio enorme: suscita movimenti incontrollabili nel lettore, ne alimenta l’immaginazione, crea uno spazio virtuale in cui la mente del fruitore è libera di muoversi e di respirare. L’apertura, la duttilità, il carattere di satura lanx (nell’accezione etimologica della formula) del libro di Coscia – saggio, narrazione, pamphlet, autobiografia – lascia il lettore libero di attribuire ad ogni pagina un significato legato alla propria esperienza. E costituisce un antidoto contro la mania di scrivere (pseudo)narrazioni – vuote, ripetitive, piatte, prive di fascino: in una parola, storie! – di cui oggi patiscono tanti sedicenti scrittori. Il procedere a sprazzi, per frammenti, il tessere e intrecciare più piani narrativi, nei quali aneddoti di cui sono protagonisti scrittori, pittori, musicisti, si fondono con episodi autobiografici, lo rendono originale, parlante, vivo, mercuriale: il lettore si trova, pagina dopo pagina, coinvolto ora in questo, ora in quell’altro groviglio di maglie della rete testuale. E così mi sto sentendo piacevolmente costretto a non scrivere una recensione tradizionale, ma un testo che non saprei neanch’io definire perché in fondo si limita a rendere ragione delle associazioni che in me «Soli eravamo» ha suscitato (e poi, a ben vedere, ogni recensione è comunque un atto ermeneutico, filtri e matrici del quale sono i retaggi di esperienze personali).

Monte Athos
Se, per esempio, guardo agli stivali di gomma di Virginia Woolf e alle cialde di Cesare Pavese, che rendono «imperfetti» i rispettivi «suicidi» e che evocano nell’autore pure il suicidio di un amico con cui s’è trovato in terra ellenica, mi sento proiettato in una dimensione geo-etica che mi è cara. Mi basta “vedere” infatti espressioni come «isola greca», «ouzo», «monastero», «muricciolo di pietra viva» per sentirmi immerso in un contesto “alla Elytis” (già citato del resto), fatto di scorci greci e ortodossi. È come avvertire un richiamo ancestrale che mi fa dire – ancora una volta – che nacqui per errore nella realtà in cui crebbi e in cui vivo. E che apparterrò sempre a una realtà fatta di Grecia, di poesia in lingua greca, di calce bianchissima, di accordi ricavati pizzicando il bouzouki e il baglamas, di infinite distese marine il cui azzurro – talora tendente all’indaco – si confonde con il cielo, di strapiombi da capogiro sui quali ci si affaccia sporgendosi oltre le ringhiere di precari ballatoi sostenuti da travi di legno, alle cui spalle – nei vani profumati d’incenso, di lavanda, di erba luisa – campeggiano icone. Da quelle icone promanano occhi e sguardi ieratici, severi, teneri, in una fissità espressiva che non è assenza di vita, semmai presenza tangibile di un Archetipo.


Franz Krüger
«Ritratto dello zar Alessandro I»
Se poi torno indietro con le pagine del libro di Fabrizio fin quasi all’incipit, mi fermo a Jàsnaja Poliàna. Il 28 ottobre 1910, dopo avere scritto una lettera alla moglie, il vecchio Lev Tolstoj l’abbandonò, salendo su un treno senza una destinazione razionalmente individuabile. Ma di colpo Fabrizio vola pindaricamente da Tolstoj ad Arthur Rimbaud che a vent’anni smise di scrivere e si trasferì in Africa. Quindi prosegue con Christopher McCandless che venne ritrovato morto in Alaska, all’interno di un vecchio autobus abbandonato: accanto al suo corpo un libro di Tolstoj. Già da questa sintesi relativa al primo capitolo il lettore, dopo avere superato un iniziale senso di straniamento, comprende che Fabrizio procede svevianamente per temi e proustianamente per associazioni indotte dalla memoria: nello specifico è la fuga il tema di queste pagine, tema del resto ricorrente più volte. Esso infatti torna con Robert Walser che dal 1932 al 1956 rimase nella clinica psichiatrica di Herisau e morì per una caduta sulla neve. La sua fu una fuga dallo stereotipo soffocante e svilente del ruolo di scrittore: smise apparentemente di scrivere, o meglio iniziò a riempire qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani di strane scritte in caratteri minuscoli (che poi si rivelarono
Lo starets Fëdor Kuzmìč
essere poesie, racconti, annotazioni). Volle gradualmente sottrarsi ad una spersonalizzante quotidianità. Non mi sarei stupito se dalla bocca di questa creatura melvilliana fossero (di colpo e poi ricorsivamente) venute fuori le parole «I would prefer not to», che avrebbe potuto pronunciare anche un altro personaggio chiamato in causa, a questo punto, da una mia libera associazione: lo zar Alessandro I di Russia (una delle entità che più di tante altre è impressa nel mio personale immaginario). Secondo una tradizione ripresa dallo stesso Tolstoj nel suo «Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmìč», Alessandro avrebbe soltanto finto di morire nel 1825. In realtà si sarebbe dato ad un ascetico ed esicastico eremitaggio e sarebbe poi deceduto in età molto avanzata («Già prima di morire lo starets Fëdor Kuzmìč, che era giunto in Siberia nell'anno 1836 e vi aveva quindi dimorato, in diversi luoghi, per ventisette anni, era divenuto argomento di strane dicerie, secondo le quali egli avrebbe tenuto segreto il proprio nome e il rango, e altri non sarebbe stato in realtà, che l’imperatore Alessandro primo»).

Sergej Volkonskij
Al tema della fuga rimanda ancora la citazione della scomparsa di Ettore Majorana. Fabrizio narra di avere fatto visita ad un maestro di Visciano che raccoglieva notizie su un tizio capitato in paese qualche decennio prima: per tutti egli non poteva che essere il fisico misteriosamente scomparso. Il maestro (cito testualmente) disse: «’O prufessore… All’inizio era sempre ben vestito, poi con gli anni il suo aspetto andò sempre più peggiorando, i vestiti si fecero logori, si lasciò crescere barba e capelli lunghissimi e finì con l’assumere l’aspetto di un asceta. Non dormiva in paese, ma nel vecchio convento di Camaldoli, che era stato abbandonato agli inizi del secolo dopo la costruzione del nuovo, dove si erano trasferiti i frati che gli offrivano da mangiare» (citazione che traggo dalla pagina 197. Da notare che il fisico sarebbe finito in un convento anche secondo Sciascia): Ettore Majorana (e qui riprendo la mia personale catena di associazioni) come Alessandro I che forse diventò asceta, ma anche come lo stesso Tolstoj che, assumendo l’aspetto del contadino, si lasciò crescere la barba e i capelli al pari degli asceti (e in qualità di “santone” venne quasi venerato da buona parte del popolo) e scelse di fuggire; Ettore Majorana come Tolstoj, ma anche come Sergej Volkonskij, il principe decabrista imparentato con Tolstoj (la madre di Lev, Maria, era una Volkonskaia), condannato ai lavori forzati in Siberia, deciso a cancellare ogni elemento formale caratteristico della sua estrazione aristocratica, al punto da assumere i tratti esteriori e lo stile di vita dei contadini e degli asceti come Lev, come Alessandro I, come il Majorana descritto dal maestro di Visciano.

Lungo il filo delle sparizioni e delle fughe vere o fittizie o ancora virtuali che sto arbitrariamente e immeritatamente tessendo insieme all’autore del libro, spicca un giovane, menzionato da Coscia nel capitolo su Brahms e Schumann. Il giovane, appassionato di musica soltanto classica, iscritto alla Facoltà di Filosofia, laureato con una tesi su Schopenhauer (peraltro pubblicata), improvvisamente accettò un incarico presso un’importante azienda dolciaria di Bruxelles. Ebbene: «Né io, né nessuno di loro potemmo mai capire il motivo di quella partenza improvvisa, di quella fuga dalle sue passioni, di quella rinuncia. I soldi non erano una spiegazione sufficiente, il suo carattere difficile nemmeno. Ricordo che aveva un’ambizione smisurata: si sentiva al di sopra di tutti – e forse lo era davvero – come destinato a un grande avvenire, ma viveva conflitti interiori irrisolti, pulsioni inconfessate. Che ne è stato di lui? Dei suoi dischi, del suo pianoforte, delle sue letture? Da che cosa è fuggito? Ci sono pezzi del nostro passato che si perdono nel nulla, senza possibilità di recupero. Ma l’oblio, a volte, è più salutare del ricordo» (citazione tratta dalla pagina 182). Accettare un impiego in un’azienda dolciaria pur di fuggire e sparire mi sembra l’equivalente dell’ipotetico destino del più volte citato Majorana. E non posso che ripensare al modo in cui Salvatore Silvano Nigro ha parlato del fisico nel suo «Il principe fulvo», associando due date (perché per Nigro «date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio»): il 1938 e il 1883 che hanno in comune tre cifre su quattro. Il 1938 è l’anno in cui il fisico fece perdere le sue tracce, mentre viaggiava su un piroscafo diretto a Napoli (come Rosario La Ciura, protagonista del tomasiano racconto «Lighea», che sparì mentre si dirigeva a Napoli sul Rex; ancora come Ippolito Nievo, scomparso la notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 al largo della penisola sorrentina, insieme a tutto l’equipaggio del vapore Ercole; e – perché no? – pure come l’avvocato Motta di Mario Soldati). Il 1883 è l’anno in cui Benito Mussolini nacque a Predappio. Ma è anche l’anno in cui scomparve il principe Fabrizio Salina, risparmiando a se stesso la visione dei «formiconi» fascisti (gli stessi dai quali forse volle prendere le distanze Majorana).

Naturalmente risulta impossibile continuare a rendere conto della varietà dei temi, degli aneddoti, delle riflessioni presenti in «Soli eravamo», la lettura integrale del quale raccomando senz’altro anche a scopo terapeutico: può costituire un proficuo antidoto contro la tendenza – che affligge ormai me e molti miei simili – a prendere le distanze dalla letteratura contemporanea a causa del livellamento qualitativo che la consuma. Risulta del resto impossibile anche verbalizzare tutte le associazioni che la lettura di «Soli eravamo» può innescare nella mente del fruitore. Tuttavia non mi spiace accennare a quello che per me è il capitolo forse più bello di tutto il testo: «Mi piace Brahms». Vi si narra l’amore provato appunto da Brahms per Clara Wieck, più anziana di lui di quattordici anni e moglie di Schumann, e del vero e proprio triangolo edipico che ne derivò, se è vero che Schumann rappresentò sempre per Brahms un importante punto di riferimento. Fra Brahms e Clara, però, non accadde concretamente mai nulla. Anzi, proprio in coincidenza con la morte di Schumann, Brahms prese le distanze dalla donna, adducendo come giustificazione il fatto che, nel momento in cui le passioni superano nell’uomo il limite, l’uomo stesso diventa un invalido che deve essere curato. Fabrizio menziona l’Adagio di Brahms del «Quintetto per archi e clarinetto» che incarna quell’«idea della musica come desiderio  metafisico», cosa che ispira in me echi manniani («La musica sveglia il tempo» afferma Settembrini ne «La montagna incantata», espressione non a caso scelta poi da Daniel Baremboim come titolo di un suo fortunato libro). E cita anche la Quarta sinfonia di Brahms, il che potrebbe anche confermare il sospetto, infiltratosi nel mio animo dalla lettura fin delle prime righe del capitolo, che Fabrizio Coscia l’abbia scritto ascoltando «Il mito dell’amore» di Franco Battiato (https://www.youtube.com/watch?v=qxT9d1kzkNM).

Ivo Flavio Abela