Gli specchi ci restituiscono la nostra immagine. E con essa tutto ciò che la connota in negativo e dunque non ci è gradito. Non mi riferisco ai tratti fisionomici (sarebbe troppo scontato), ma a ciò che della nostra torbida intimità quegli stessi tratti veicolano. Talvolta non ci soffermiamo davanti agli specchi oppure li evitiamo del tutto perché ne abbiamo paura. Il sodalizio con queste superfici riflettenti diventa possibile solo se siamo certi del fatto che esse non possono arrecarci danno: possiamo sentire complici gli specchi quando la loro capacità riflettente esce annichilita dallo scontro con il buio e la notte. Allora solo alitare su di loro ce ne fa percepire la materialità, ma
anche la distanza. «Quale distanza? La distanza da che cosa o da chi?» vorremmo chiedergli. «Da noi stessi» ci rispondiamo poi senza scomodarlo. Tale è l
accademico, medico e poeta Maurizio Soldini. È la seconda e bellissima raccolta (va senz
altro letta) che egli pubblica per Il Convivio Editore (cioè per il valentissimo Giuseppe Manitta), dopo
(libro già recensito su questo blog. Cfr.
).
È meglio tenersi lontani da se stessi anziché vivere alla luce: quella che impietosamente rivela tutto e smonta «ogni trama / alla nostra imperfezione», ogni particella di un disagio esistenziale aggravato da una pandemia che
– curiosamente
– esplode nel corso del Carnevale 2020, quando «l
’impiantito di mascherine» assume la funzione di inedito e anomalo contrappasso per chi è aduso a mascherarsi solo per diporto. Tra i coriandoli e una cromatica fantasmagoria s
’insinuano le (sinistre?) sagome degli spaventapasseri: battistrada metaforici di chi «porta addosso un mantello di carta / dove ha scritto parole che sono di stoffa» (allusione alla tenuta degli operatori sanitari quando circolano e si presentano alla porta), mentre la pandemia intensifica il ritmo e impazza, neanche fosse essa stessa un Carnevale.
Nel surreale respiro di un mondo che adesso ha un motivo in più per non volere guardarsi allo specchio (non vedere ancora più nitida la sagoma della propria disperata impotenza), nella calma indotta in cui solo gli «operatori del déjà-vu» non smettono di dare forma pseudo-fonica al vuoto che pervade loro e i loro discorsi, in quel conseguente svilimento della parola che smette di essere tratto distintivo dell’attività razionale dell’uomo (ovattata, com’è, dalla maschera «origine ormai persa del verbum persona»), «geme dentro gemme di necessità» – icastico richiamo fonico che diventa quasi uguaglianza di parole – l’incoscienza che ne ha finora caratterizzato la condotta. Nel chiuso delle proprie case, pure il salire e lo scendere di una tapparella diventano per l’uomo «specchio» della vita, e la tapparella stessa giunge a sostanziarsi in un sipario che potrebbe chiudersi definitivamente.
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«Allegre maschere, / Pazzi garzoni, Tutti plauditelo / Con canti e suoni! Parigini, date passo / Al trionfo del Bue grasso» (dal libretto di Francesco Maria Piave per Traviata di Giuseppe Verdi): leggendo Soldini, ripenso a Violetta Valery e al fatto che muore di tisi mentre impazza il Carnevale e il Bue Grasso viene festosamente portato lungo le strade di Parigi
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Si alza allora la voce dei poeti: magari non «lavorano di notte» (come quelli di Alda Merini), ma cantano quand
’è mattino presto. A quell
’ora il sodalizio con gli specchi non è stato ancora infranto dalla prepotente luce del giorno pieno (capace pure di rendere «ustorio» uno specchio), ma è stato appena increspato da un
’aurora le cui dita (non epicamente «di rosa» come quelle dell
’aurora omerica), sono comunque in grado di elargire carezze. Perché questo i poeti fanno: cantano per rendere più sopportabile la quotidianità (e quella pandemica è particolarmente devastante), in un tempo che si ferma e non ha più un
“prima
” e un
“dopo
”, un
flashforward e un
flashback, tanto che analessi e prolessi finiscono col coincidere nella fissità di un «eterno ritorno».
Soldini non risparmia i richiami alla tradizione “alta” della poesia italiana. In certi sprazzi di memoria si respira un’atmosfera montaliana. Un tratto dannunziano permea quel «pioveva sulle scaturigini», tuttavia sfrondato della carica estetica per essere adattato con durezza al contesto di un ospedale in cui si soffre e si cerca di tornare a respirare. Si legge un “quasi” provenzalismo in La trenodia si leva: quel «penetranza». Nell’ultima terzina di Nel settantatré, poi, il ritmo (e ciò non sembra dovuto a un’assonanza percepita dal lettore istintivamente) ci ricorda quello de Il cinque maggio manzoniano o comunque di uno dei cori di Adelchi (già), sebbene nel testo di Soldini sia menzionato un «volgo» (e ciò rafforza l’impressione che il fantasma della tragedia manzoniana sia davvero qui presente) che l’autore definisce a sorpresa «carducciano». Del resto il tributo ai grandi poeti della tradizione non si ferma al “dico e non dico”, ma diventa esplicito nei versi che vanno sotto il titolo di Leopardiana e ancora di Campo dei muratori (pasoliniana), quest’ultima dotata di un’eco finale che fa molto Qohelet. Si approda dunque al padre Dante, cioè a un trittico stilnovistico ma rivisitato arcadicamente, con la petroseggiante Come un madrigale, Domina (si vedano soprattutto i versi «tu dea ninfale / donna in terra sospiri venti e ti fai anima») e Ora come allora che è un policromo caleidoscopio.
Come già ne
Lo spolverio delle meccaniche terrestri, anche qui il suono delle parole non è solo materia fonica, ma pure latore di senso. In
Effimero il giorno, per esempio, il rapporto tra «effimero» ed «effemeridi» sembra significare che sia illusorio lo scorrere dei giorni tra una stagione e l
’altra, così come con quello tra «istanze» e «distanze» l
’autore potrebbe volere avvisarci del fatto che eliminare le distanze non basta: bisogna anche aggrapparsi a uno spazio fisico. Si legga poi l
’intera terzina successiva, tutta tessuta su una dentale ossessivamente ricorrente e dura, che in tre punti si unisce a una scivolosa labiodentale: «per
divagare
dalle pene
dell
’inferno / tra il trattamento
di
dati e
di s
viste / in essere a sbrogliare il
divenire».
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Maurizio Soldini
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Una riflessione merita la struttura della raccolta, poiché mi sembra che anch
’essa veicoli il senso vero dei versi di Soldini, raggruppati in cinque tempi, cui si aggiungono un
In coda e un
Oltre gli specchi. Nel primo tempo si colloca l
’incipit pandemico con i suoi immediati sviluppi coincidenti con la primavera, nel secondo si fa riferimento all
’estate, nel terzo all
’autunno. Sono solito non sfogliare mai un libro prima di leggerlo, non consultare l
’introduzione o la prefazione (quando c
’è), non guardare l
’indice: desidero scoprire pagina dopo pagina ciò che l
’autore scrive. Giunto alla terza parte di
Il sodalizio con gli specchi, ero ormai convinto del fatto che i tempi fossero quattro: «Mi manca solo il quarto con l
’inverno» dicevo a me stesso. Invece la stagione del quarto tempo è ancora l
’autunno. Mi sono sentito un po
’ spiazzato. Poi però ho notato che nel terzo tempo è trasfuso l
’autunno dei ricordi, nel quarto figura quello dell
’accettazione di una vita il cui scorrere è inarrestabile, nonché i prodromi della notte invernale. L
’autunno, poi, si dilata e deborda al punto che pure nel primo componimento del quinto tempo (perché esiste anche una quinta parte!) Soldini menziona novembre, mese ancora autunnale, mentre l
’inverno è citato per la prima volta solo nel quarto testo della quinta parte stessa. L
’autunno è dunque una stagione lunghissima (anche più
– mi verrebbe da dire
– del «secolo breve» di Hobswaun) che non vuole passare proprio, se si pensa che novembre (peraltro un novembre di «scirocco») viene citato nuovamente più avanti, per esempio quando si menzionano i cachi che «si spiaccicano fuori dalla polpa». Sembra che insistere sull
’autunno sia una necessità dell
’autore: si riferisce forse all
’autunno della propria vita? Credo di sì ed egli vuole dilatarlo il più possibile affinché non giunga il proprio inverno. Lo spaventapasseri, che l
’autore torna a menzionare quando il libro volge alla conclusione richiamando il Carnevale iniziale, mi sembra indizio di una fine che egli fa di tutto per rimandare a oltranza. Non a caso l
’inverno si palesa intensamente solo «oltre gli specchi», cioè nelle due brevissime parti che sembrano più due appendici, rispetto ai cinque tempi lungo cui si snoda la materia
“vera
” del libro, quasi l
’autore dicesse all
’inverno: «Prima o poi dovrai arrivare. Ma finché puoi, rimani fuori dalla mia vita».
Ivo Flavio Abela
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