sabato 24 aprile 2021

Il lungo autunno di Maurizio Soldini nel suo «Sodalizio con gli specchi»

Gli specchi ci restituiscono la nostra immagine. E con essa tutto ciò che la connota in negativo e dunque non ci è gradito. Non mi riferisco ai tratti fisionomici (sarebbe troppo scontato), ma a ciò che della nostra torbida intimità quegli stessi tratti veicolano. Talvolta non ci soffermiamo davanti agli specchi oppure li evitiamo del tutto perché ne abbiamo paura. Il sodalizio con queste superfici riflettenti diventa possibile solo se siamo certi del fatto che esse non possono arrecarci danno: possiamo sentire complici gli specchi quando la loro capacità riflettente esce annichilita dallo scontro con il buio e la notte. Allora solo alitare su di loro ce ne fa percepire la materialità, ma  dice lautore  anche la distanza. «Quale distanza? La distanza da che cosa o da chi?» vorremmo chiedergli. «Da noi stessi» ci rispondiamo poi senza scomodarlo. Tale è lidea su cui insiste Il sodalizio con gli specchi dellaccademico, medico e poeta Maurizio Soldini. È la seconda e bellissima raccolta (va senzaltro letta) che egli pubblica per Il Convivio Editore (cioè per il valentissimo Giuseppe Manitta), dopo Lo spolverio delle meccaniche terrestri (libro già recensito su questo blog. Cfr. https://ivoflavio-abela.blogspot.com/2019/03/lo-spolverio-delle-meccaniche-terrestri.html).

È meglio tenersi lontani da se stessi anziché vivere alla luce: quella che impietosamente rivela tutto e smonta «ogni trama / alla nostra imperfezione», ogni particella di un disagio esistenziale aggravato da una pandemia che  curiosamente  esplode nel corso del Carnevale 2020, quando «limpiantito di mascherine» assume la funzione di inedito e anomalo contrappasso per chi è aduso a mascherarsi solo per diporto. Tra i coriandoli e una cromatica fantasmagoria sinsinuano le (sinistre?) sagome degli spaventapasseri: battistrada metaforici di chi «porta addosso un mantello di carta / dove ha scritto parole che sono di stoffa» (allusione alla tenuta degli operatori sanitari quando circolano e si presentano alla porta), mentre la pandemia intensifica il ritmo e impazza, neanche fosse essa stessa un Carnevale.

Nel surreale respiro di un mondo che adesso ha un motivo in più per non volere guardarsi allo specchio (non vedere ancora più nitida la sagoma della propria disperata impotenza), nella calma indotta in cui solo gli «operatori del déjà-vu» non smettono di dare forma pseudo-fonica al vuoto che pervade loro e i loro discorsi, in quel conseguente svilimento della parola che smette di essere tratto distintivo dellattività razionale delluomo (ovattata, comè, dalla maschera «origine ormai persa del verbum persona»), «geme dentro gemme di necessità»  icastico richiamo fonico che diventa quasi uguaglianza di parole  lincoscienza che ne ha finora caratterizzato la condotta. Nel chiuso delle proprie case, pure il salire e lo scendere di una tapparella diventano per luomo «specchio» della vita, e la tapparella stessa giunge a sostanziarsi in un sipario che potrebbe chiudersi definitivamente.
«Allegre maschere, / Pazzi garzoni,
Tutti plauditelo / Con canti e suoni!
Parigini, date passo / Al trionfo del Bue grasso»
(dal libretto di Francesco Maria Piave
per Traviata di Giuseppe Verdi):
leggendo Soldini, ripenso a Violetta
Valery e al fatto che muore di tisi mentre
impazza il Carnevale e il Bue
Grasso viene festosamente portato
lungo le strade di Parigi


Si alza allora la voce dei poeti: magari non «lavorano di notte» (come quelli di Alda Merini), ma cantano quandè mattino presto. A quellora il sodalizio con gli specchi non è stato ancora infranto dalla prepotente luce del giorno pieno (capace pure di rendere «ustorio» uno specchio), ma è stato appena increspato da unaurora le cui dita (non epicamente «di rosa» come quelle dellaurora omerica), sono comunque in grado di elargire carezze. Perché questo i poeti fanno: cantano per rendere più sopportabile la quotidianità (e quella pandemica è particolarmente devastante), in un tempo che si ferma e non ha più un prima e un dopo, un flashforward e un flashback, tanto che analessi e prolessi finiscono col coincidere nella fissità di un «eterno ritorno».

Soldini non risparmia i richiami alla tradizione alta della poesia italiana. In certi sprazzi di memoria si respira unatmosfera montaliana. Un tratto dannunziano permea quel «pioveva sulle scaturigini», tuttavia sfrondato della carica estetica per essere adattato con durezza al contesto di un ospedale in cui si soffre e si cerca di tornare a respirare. Si legge un quasi provenzalismo in La trenodia si leva: quel «penetranza». Nellultima terzina di Nel settantatré, poi, il ritmo (e ciò non sembra dovuto a unassonanza percepita dal lettore istintivamente) ci ricorda quello de Il cinque maggio manzoniano o comunque di uno dei cori di Adelchi (già), sebbene nel testo di Soldini sia menzionato un «volgo» (e ciò rafforza limpressione che il fantasma della tragedia manzoniana sia davvero qui presente) che lautore definisce a sorpresa «carducciano». Del resto il tributo ai grandi poeti della tradizione non si ferma al dico e non dico, ma diventa esplicito nei versi che vanno sotto il titolo di Leopardiana e ancora di Campo dei muratori (pasoliniana), questultima dotata di uneco finale che fa molto Qohelet. Si approda dunque al padre Dante, cioè a un trittico stilnovistico ma rivisitato arcadicamente, con la petroseggiante Come un madrigaleDomina (si vedano soprattutto i versi «tu dea ninfale / donna in terra sospiri venti e ti fai anima») e Ora come allora che è un policromo caleidoscopio.

Come già ne Lo spolverio delle meccaniche terrestri, anche qui il suono delle parole non è solo materia fonica, ma pure latore di senso. In Effimero il giorno, per esempio, il rapporto tra «effimero» ed «effemeridi» sembra significare che sia illusorio lo scorrere dei giorni tra una stagione e laltra, così come con quello tra «istanze» e «distanze» lautore potrebbe volere avvisarci del fatto che eliminare le distanze non basta: bisogna anche aggrapparsi a uno spazio fisico. Si legga poi lintera terzina successiva, tutta tessuta su una dentale ossessivamente ricorrente e dura, che in tre punti si unisce a una scivolosa labiodentale: «per divagare dalle pene dellinferno / tra il trattamento ddati e di sviste / in essere a sbrogliare il divenire».

Maurizio Soldini

Una riflessione merita la struttura della raccolta, poiché mi sembra che anchessa veicoli il senso vero dei versi di Soldini, raggruppati in cinque tempi, cui si aggiungono un In coda e un Oltre gli specchi. Nel primo tempo si colloca lincipit pandemico con i suoi immediati sviluppi coincidenti con la primavera, nel secondo si fa riferimento allestate, nel terzo allautunno. Sono solito non sfogliare mai un libro prima di leggerlo, non consultare lintroduzione o la prefazione (quando cè), non guardare lindice: desidero scoprire pagina dopo pagina ciò che lautore scrive. Giunto alla terza parte di Il sodalizio con gli specchi, ero ormai convinto del fatto che i tempi fossero quattro: «Mi manca solo il quarto con linverno» dicevo a me stesso. Invece la stagione del quarto tempo è ancora lautunno. Mi sono sentito un po spiazzato. Poi però ho notato che nel terzo tempo è trasfuso lautunno dei ricordi, nel quarto figura quello dellaccettazione di una vita il cui scorrere è inarrestabile, nonché i prodromi della notte invernale. Lautunno, poi, si dilata e deborda al punto che pure nel primo componimento del quinto tempo (perché esiste anche una quinta parte!) Soldini menziona novembre, mese ancora autunnale, mentre linverno è citato per la prima volta solo nel quarto testo della quinta parte stessa. Lautunno è dunque una stagione lunghissima (anche più  mi verrebbe da dire  del «secolo breve» di Hobswaun) che non vuole passare proprio, se si pensa che novembre (peraltro un novembre di «scirocco») viene citato nuovamente più avanti, per esempio quando si menzionano i cachi che «si spiaccicano fuori dalla polpa». Sembra che insistere sullautunno sia una necessità dellautore: si riferisce forse allautunno della propria vita? Credo di sì ed egli vuole dilatarlo il più possibile affinché non giunga il proprio inverno. Lo spaventapasseri, che lautore torna a menzionare quando il libro volge alla conclusione richiamando il Carnevale iniziale, mi sembra indizio di una fine che egli fa di tutto per rimandare a oltranza. Non a caso linverno si palesa intensamente solo «oltre gli specchi», cioè nelle due brevissime parti che sembrano più due appendici, rispetto ai cinque tempi lungo cui si snoda la materia vera del libro, quasi lautore dicesse allinverno: «Prima o poi dovrai arrivare. Ma finché puoi, rimani fuori dalla mia vita».

Ivo Flavio Abela

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