giovedì 2 giugno 2022

Il disincanto e la notte delle parole (articolo pubblicato su «La Sicilia» il 9 giugno 2022)

La periferia di Milano. Il boschetto dei tossici vuoto: appena sgomberato dagli sbirri. Il cavalcavia della tangenziale. I mezzi che vi sfrecciano verso non si sa quale meta. Gli ultimi sprazzi di luce tra le nuvole. Una donna sta morendo di droga: è solo un mucchio di ossa che si abbandonano. Non percepisce la propria agonia. Muore desiderando ancora un’altra dose. Il cielo è grigio e sta per colmarsi di buio in un giorno tra inverno e primavera. Tale la situazione che Roberto Pecoraro ci presenta nell’incipit del suo Breath, appena pubblicato da Algra Editore. Il libro (e mi limito a definirlo semplicemente così o  ̶ occasionalmente  ̶ “testo”, poiché Breath non è incamerabile in uno specifico genere letterario. E del resto a che cosa servirebbe ascriverlo a una categoria definita?) è ambientato in una Milano fredda e meccanica, in cui domina un grigio esanime che ora si dissolve sinesteticamente in un iper-ricorrente vuoto, ora vira verso il nero della caligine: dello smog che intacca, marchiandola di cinereo, la pelle di tossici e zingari.


Si snoda quindi una teoria di personaggi, ciascuno con il proprio brandello di vita. Si intravede la possibilità che quei brandelli possano più avanti ricomporsi in un’unità sistemica come tessere di un puzzle. Ma l’io narrante non riesce a non prendere parte a ciò che racconta e inizia a manifestarsi, tra un personaggio e l’altro, dedicandosi qualche pagina: prima quasi timidamente, poi in modo massiccio fino ad impadronirsi della scena e a defenestrare il tossico, la cameriera d’albergo, il volontario, la zingara, l’imprenditore, il suo anziano padre. In verità l’io narrante (e l’autore, poiché è difficile distinguere l’uno dall’altro) compie un sacrifico: la rinuncia a quella che  ̶ secondo i presunti parametri di un lettore ipotizzato  ̶ è la narrazione, il rifiuto di dominare i personaggi piegandoli alla propria regìa. Ed essi vengono lasciati liberi di vivere la loro vita. Perché di fatto essi vivono di vita propria, se è vero che talvolta Pecoraro dichiara che non sa che cosa ne sarà di loro e che lo scoprirà man mano che la sua scrittura progredirà. Letteratura e vita appaiono, così, quasi incompatibili. Inutile chiedersi quale sarà allora il futuro dei personaggi di Pecoraro. Non lo sapremo mai perché lo stesso Pecoraro rinuncia a indagarlo. Sappiamo solo che continueranno a vivere al di là di Breath, in una dimensione immateriale quanto informe, come informe e immateriale è tutto ciò che ci è ignoto. Ed è così che Breath diventa scavo introspettivo sempre più profondo e ampio, al punto da assumere la forma dell’espressione lirica di un se stesso che finora si è sentito costretto a fare letteratura, cioè (nel caso di Pecoraro) a scrivere da narratore.


Il rifiuto della letteratura: Pecoraro quasi si ribella. Vuole esprimersi tramite le parole, ma rivendica la libertà di usarle come crede. Il suo linguaggio assume una carica fortemente metaforica. Non può essere che così, soprattutto quando egli insegue le libere associazioni che si creano nella sua mente. Continuano  ̶ è vero  ̶ a essere prodotte proposizioni compiute e definite. Ma la loro giustapposizione rende labile il confine tra monologo interiore e flusso di coscienza (nonostante l’uso dell’interpunzione). Quando ciò accade, anche la lingua perde la citata carica metaforica: il portato dei traslati si annulla perché, lungo lo snodarsi delle catene di libere associazione  ̶ in cui non esiste logica se non quella blanda dei moti dell’animo  ̶ il linguaggio stesso finisce per essere sottoposto a un trattamento denotativo-referenziale, che traduce fedelmente sulla carta quelle stesse catene associative. L’approdo alla lirica arriva presto: ampi stralci del testo passerebbero per poesia, se solo fossero concepiti metricamente alla stregua di versi poetici.


Rinuncia alla narrazione, abbiamo visto. Urgenza di usare le parole con l’unico limite di rispettare il meccanismo emotivo grazie a cui la mente tesse le catene associative. E se tutto ciò fosse solo la spia di un’esigenza di silenzio? Tacere per potere vivere e per lasciare che altri (i personaggi) vivano senza essere “spiati” dall’autore? Forse è così, se pensiamo che il testo di Pecoraro ci svela anche il “laboratorio” dell’autore: i suoi pensieri, il suo rapporto con lo stesso testo in fieri, la strategia compositiva, le false partenze, le riformulazioni, i dubbi, le scuse al lettore per il modo di trattare le vicende, l’abbandono del lettore stesso che a un certo punto inizia a sentirsi un po’ disorientato. Ma proprio il disorientamento porta il fruitore a comprendere l’esperimento (non so quanto il termine possa essere appropriato, ma non riesco a trovarne un altro) condotto dall’autore. Insomma Breath merita di essere letto per capire che cosa sia possibile fare tramite la letteratura, anche quando l’autore vuole rinunciarvi.


Ivo Flavio Abela








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