Finistoriae di Annalisa Montironi (edito da Prova D’Autore
nell’ormai
lontano 2004): ecco un
romanzo in cui marmi, pietre, antichità romane – testimonianze
materiali di un passato mummificato, misterioso, angosciante, oscuro, ridotto allo stremo della resistenza fisica – sono esseri animati. Vivono e respirano immotamente, rimproverano,
giudicano, condannano. Un romanzo in cui l’essere
umano si tramuta in spazio fisico e architettonico, in edificio
lapideo, subendo una metamorfosi classicamente mitologica («In
principio l’amata
era come la piazza davanti a San Pietro».
Poi diviene «arco
marmoreo, immenso, disteso nel cielo sopra campagna e colli»).
Dopo alcuni mesi di permanenza a Roma,
Ignazio Dalla Francia è costretto a ritornare nel proprio paese
d’origine,
Giredo, nel 1870, mentre lo Stato Pontificio di Pio IX sta cedendo
alla piena dei bersaglieri sabaudi e deve rassegnarsi, come già
dieci anni prima il Regno delle Due Sicilie, ad essere annesso al
Regno d’Italia.
Ignazio vive perennemente schiacciato dal peso secolare di un casato
presuntamente prestigioso. Il peso diventa insostenibile quando
decide di sposare Augusta, una giovanne donna appartenente a una
famiglia decaduta, che il granitico e integerrimo padre di Ignazio,
cioè Odoardo Dalla Francia, cavaliere dell’Ordine
di San Gregorio Magno, governatore di Giredo e Acquasparta, fedele
collaboratore del papa, forse non accetterebbe mai come nuora.
Finché soggiorna a Roma, Ignazio immagina e narra a se stesso e ad
Augusta storie che gli consentono di alleggerire la zavorra di ciò
che è stato. Ma a Giredo il passato si palesa in tutta la sua
crudezza e lo accusa di mediocrità: «L’edificio
s’innalza
a rimproverare me, ultimo Dalla Francia, dell’incapacità
di vita che manifesto ogni giorno».
Caravaggio, Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi |
E così Ignazio decide di ricostruire
la storia del suo casato per scoprire inediti orizzonti
ermeneutici tali da consentirgli di reinterpretare il senso della
propria vita. S’imbatte
prima in un fascicolo di lettere alludenti al progetto di un’opera
erudita, districandosi fra nomi vagamente parlanti (Teichicrate) e
isidoriani dettagli alessandrinamente eziologici (Stainpace). Quindi
nell’immagine
inafferrabile di una donna che appare fra i flutti: il pensiero corre
alle sirene di certa letteratura. Ma questa sirena è simbolo di
morte cruda e pronta a ghermire, diversa dunque da quella che
s’accampa
sulle profondità marine e nelle pagine di «La
verità sul caso Motta»
di Mario Soldati. Diversa anche dalla Lighea tomasiana (poi trasfusa
e trasfigurata nella Venere gattopardesca e nella giovane in abito da
viaggio che verrà a prendere il principe Fabrizio Salina). Altra
cosa insomma rispetto alle sirene che sono il massimo erotico cui
l’uomo
letterariamente aspira, l’eterno
premio concesso all’uomo
frustrato dalla necessità di vivere nel disagio, nel disadattamento,
nel dolore: il simbolo subliminale della morte felice e serenatrice
incosciamente vagheggiata.
Le indagini di Ignazio proseguono. Ed
egli decide di narrare la storia del proprio casato seguendo lo
snocciolarsi, sotto i propri occhi, dell’albero
genealogico di famiglia. Ignazio lo ripercorre avo dopo avo,
confidando ciecamente (così almeno sembra al lettore) nelle capacità
terapeutico-risarcitorie della letteratura.
Ancora pietre. Anzi pietre, mattoni e
modifiche architettoniche alla struttura della residenza di una famiglia i
cui membri più antichi hanno tentato tutto pur di insabbiare il loro
originario rango di artigiani dell’oro
(che avrebbe procurato loro solo il rispetto della locale minutaglia
e non certo dell’aristocrazia
di Giredo). Talora gli avi vengono subito identificati sulla base
delle modifiche architettoniche da ciascuno di loro apportate alla
residenza familiare. Non dunque sulla base di azioni concrete che
finiscono per essere marginali, se non esornative (più volte
caratterizzate, del resto, dalla disonorevole pratica dell’usura),
quasi nella modifica architettonica, nella disposizione di una nuova
pietra, si fissasse a fuoco il senso vero della condotta dell’uomo.
In tali pagine aleggia a tratti una vaga atmosfera ora da croniniano
«Castello
del cappellaio»,
ora da ventisettana manzoniana, ora da feuilleton dai risvolti
a tratti noir, a tratti
decisamente gotici.
Ma quando la condotta di un avo genera
delitto e morte la pietra viene abbandonata: sono sufficienti un
piano di calpestio semplicemente battuto e non mattonato, una cassa
dalle assi grezze, i semplici prodotti dell’orto
per occultare (ma con quale risultato?) la morte operata o indotta.
Perché delitto e morte devono rimanere al fianco dell’assassino:
ne saranno i carcerieri. E poi perché un giorno essi dovranno
riemergere a deturpare l’immagine
del casato.
Giuseppe De Luca nei panni del verdiano Rigoletto |
Non sembra inutile citare in
particolare due avi di Ignazio: Filippo e Vincenzo. Nel primo la
passione per l’antico
(smodata e ossessiva al punto da costringerlo a lavorare l’argilla,
cercando di realizzare perfetti buccheri) schiaccia e annichilisce la
sfera affettiva: Filippo non riesce ad assolvere al ruolo di padre e
si uccide proprio per far sì che suo figlio non debba amare un
essere come lui. Il secondo, il figlio che Filippo ha voluto rendere
orfano uccidendosi, subisce un destino che è «geometria
divina che rende la sua vita [...] somigliante a quella del
padre, e morta, come quella, ai sensi comuni»
(corsivo mio. N.d.r.): muore sua figlia. Eppure proprio a lui sembra
essere riconosciuta la capacità di compiere azioni rette, se è vero
che per sua iniziativa vengono eseguiti «grandiosi
lavori di sistemazione in mattoni rossi che ancor oggi alleggeriscono
la corte, le logge e gli archi dai quali così dolce è ammirare il
gran monte incombente, e il graziosissimo pozzo nuovo, incassato nel
pilastro presso la cappella».
Se i marmi, le pietre, i mattoni
possiedono proprietà talmente singolari, vivono e respirano, si
ritagliano un ruolo protagonistico, chi riesce a maneggiarli,
scolpirli, combinarli, non è da meno: lo scalpellino è una sorta di
alchimista depositario di un potere occulto. Tale è l’«artigiano
deforme»
e sporco, dallo «sguardo
impudico»
e dalla «natura
stregonesca»,
che si rivolta contro il signorile e giusto Vincenzo, colpito dalla
maledizione dello stesso scalpellino-stregone solo per avere preteso
onestà e garbo: l’innocente
figlia di Vincenzo annegherà in un pozzo. Sembra la rivincita dello
hughiano Triboulet o del verdiano Rigoletto, se si vuole («Ah! La maledizione!»).
Papa Pio IX |
Ricostruite le vicende del casato, con
Ignazio la storia (ogni storia) finisce dopo un’ultimo
picco rappresentato dalla tenacia, dall’integrità,
dalla lapidea coerenza del padre Odoardo. Quest’ultimo
rifiuta fieramente di continuare a mantenere anche sotto il Re
sabaudo l’incarico
di governatore che ha detenuto sotto Pio IX (non diversamente da
quanto aveva fatto l’ultimo
dei Gattopardi, il principe Fabrizio Salina, rifiutando la proposta
sabauda a lui pervenuta tramite Chevalley). E se nel romanzo
tomasiano la forza e la memoria del casato vengono cancellate
definitivamente da Concetta Salina, allorché quest’ultima
lancia dalla finestra ciò che rimane della carcassa di un Bendicò
da anni imbalsamato e roso dai tarli, qui «la
forza della stirpe»
si esaurisce per consunzione con Ignazio, figlio di un essere
gattopardesco quanto il Fabrizio di Tomasi. Concetta e Ignazio sono
entrambi figli degli ultimi rappresentanti di un mondo travolto da
Garibaldi, dai Savoia, dall’Italia
unita. Ma se la forza d’animo,
la determinazione, la tempra felina consentono a Concetta di
sbarazzarsi del casato per motivi oggettivi e senza alcun senso di
colpa, la stirpe muore in Ignazio a causa dei suoi mali soggettivi ed
esistenziali, a curare i quali – non a caso – vengono invocati
l’amore
coniugale di Antonia e quello dei figli che i due un giorno avranno.
I Dalla Francia si ritirano dal nuovo mondo e si chiudono nell’alveo
– borghese, ma rassicurante e sereno – di un focolare domestico:
Ignazio non è il derobertiano Consalvo.
Finistoriae è un romanzo
inattuale per materia, registro linguistico (tanti aulicismi),
anacronistici stilemi da letteratura d’altri
tempi, ampie concessioni al genere epistolare. Tanto inattuale da
risultare originale in quanto celebrazione estetica di una forma che
torna finalmente a ricomporsi in un nitore fin troppo oltraggiato dai
tanti – spesso gratuiti e inutili - sperimentalismi letterari
odierni.
Ivo Flavio Abela
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