lunedì 10 settembre 2012

«Finistoriae» di Annalisa Montironi. Quando, nel 1870, finì ogni storia. Anche quelle fissate nella pietra


Finistoriae di Annalisa Montironi (edito da Prova D’Autore nell’ormai lontano 2004): ecco un romanzo in cui marmi, pietre, antichità romane – testimonianze materiali di un passato mummificato, misterioso, angosciante, oscuro, ridotto allo stremo della resistenza fisica – sono esseri animati. Vivono e respirano immotamente, rimproverano, giudicano, condannano. Un romanzo in cui l’essere umano si tramuta in spazio fisico e architettonico, in edificio lapideo, subendo una metamorfosi classicamente mitologica («In principio l’amata era come la piazza davanti a San Pietro». Poi diviene «arco marmoreo, immenso, disteso nel cielo sopra campagna e colli»).

Dopo alcuni mesi di permanenza a Roma, Ignazio Dalla Francia è costretto a ritornare nel proprio paese d’origine, Giredo, nel 1870, mentre lo Stato Pontificio di Pio IX sta cedendo alla piena dei bersaglieri sabaudi e deve rassegnarsi, come già dieci anni prima il Regno delle Due Sicilie, ad essere annesso al Regno d’Italia. Ignazio vive perennemente schiacciato dal peso secolare di un casato presuntamente prestigioso. Il peso diventa insostenibile quando decide di sposare Augusta, una giovanne donna appartenente a una famiglia decaduta, che il granitico e integerrimo padre di Ignazio, cioè Odoardo Dalla Francia, cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, governatore di Giredo e Acquasparta, fedele collaboratore del papa, forse non accetterebbe mai come nuora. Finché soggiorna a Roma, Ignazio immagina e narra a se stesso e ad Augusta storie che gli consentono di alleggerire la zavorra di ciò che è stato. Ma a Giredo il passato si palesa in tutta la sua crudezza e lo accusa di mediocrità: «L’edificio s’innalza a rimproverare me, ultimo Dalla Francia, dell’incapacità di vita che manifesto ogni giorno».

Caravaggio, Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi
E così Ignazio decide di ricostruire la storia del suo casato per scoprire inediti orizzonti ermeneutici tali da consentirgli di reinterpretare il senso della propria vita. S’imbatte prima in un fascicolo di lettere alludenti al progetto di un’opera erudita, districandosi fra nomi vagamente parlanti (Teichicrate) e isidoriani dettagli alessandrinamente eziologici (Stainpace). Quindi nell’immagine inafferrabile di una donna che appare fra i flutti: il pensiero corre alle sirene di certa letteratura. Ma questa sirena è simbolo di morte cruda e pronta a ghermire, diversa dunque da quella che s’accampa sulle profondità marine e nelle pagine di «La verità sul caso Motta» di Mario Soldati. Diversa anche dalla Lighea tomasiana (poi trasfusa e trasfigurata nella Venere gattopardesca e nella giovane in abito da viaggio che verrà a prendere il principe Fabrizio Salina). Altra cosa insomma rispetto alle sirene che sono il massimo erotico cui l’uomo letterariamente aspira, l’eterno premio concesso all’uomo frustrato dalla necessità di vivere nel disagio, nel disadattamento, nel dolore: il simbolo subliminale della morte felice e serenatrice incosciamente vagheggiata.

Le indagini di Ignazio proseguono. Ed egli decide di narrare la storia del proprio casato seguendo lo snocciolarsi, sotto i propri occhi, dell’albero genealogico di famiglia. Ignazio lo ripercorre avo dopo avo, confidando ciecamente (così almeno sembra al lettore) nelle capacità terapeutico-risarcitorie della letteratura.

Ancora pietre. Anzi pietre, mattoni e modifiche architettoniche alla struttura della residenza di una famiglia i cui membri più antichi hanno tentato tutto pur di insabbiare il loro originario rango di artigiani dell’oro (che avrebbe procurato loro solo il rispetto della locale minutaglia e non certo dell’aristocrazia di Giredo). Talora gli avi vengono subito identificati sulla base delle modifiche architettoniche da ciascuno di loro apportate alla residenza familiare. Non dunque sulla base di azioni concrete che finiscono per essere marginali, se non esornative (più volte caratterizzate, del resto, dalla disonorevole pratica dell’usura), quasi nella modifica architettonica, nella disposizione di una nuova pietra, si fissasse a fuoco il senso vero della condotta dell’uomo. In tali pagine aleggia a tratti una vaga atmosfera ora da croniniano «Castello del cappellaio», ora da ventisettana manzoniana, ora da feuilleton dai risvolti a tratti noir, a tratti decisamente gotici.

Ma quando la condotta di un avo genera delitto e morte la pietra viene abbandonata: sono sufficienti un piano di calpestio semplicemente battuto e non mattonato, una cassa dalle assi grezze, i semplici prodotti dell’orto per occultare (ma con quale risultato?) la morte operata o indotta. Perché delitto e morte devono rimanere al fianco dell’assassino: ne saranno i carcerieri. E poi perché un giorno essi dovranno riemergere a deturpare l’immagine del casato.

Giuseppe De Luca nei panni del verdiano Rigoletto
Non sembra inutile citare in particolare due avi di Ignazio: Filippo e Vincenzo. Nel primo la passione per l’antico (smodata e ossessiva al punto da costringerlo a lavorare l’argilla, cercando di realizzare perfetti buccheri) schiaccia e annichilisce la sfera affettiva: Filippo non riesce ad assolvere al ruolo di padre e si uccide proprio per far sì che suo figlio non debba amare un essere come lui. Il secondo, il figlio che Filippo ha voluto rendere orfano uccidendosi, subisce un destino che è «geometria divina che rende la sua vita [...] somigliante a quella del padre, e morta, come quella, ai sensi comuni» (corsivo mio. N.d.r.): muore sua figlia. Eppure proprio a lui sembra essere riconosciuta la capacità di compiere azioni rette, se è vero che per sua iniziativa vengono eseguiti «grandiosi lavori di sistemazione in mattoni rossi che ancor oggi alleggeriscono la corte, le logge e gli archi dai quali così dolce è ammirare il gran monte incombente, e il graziosissimo pozzo nuovo, incassato nel pilastro presso la cappella».

Se i marmi, le pietre, i mattoni possiedono proprietà talmente singolari, vivono e respirano, si ritagliano un ruolo protagonistico, chi riesce a maneggiarli, scolpirli, combinarli, non è da meno: lo scalpellino è una sorta di alchimista depositario di un potere occulto. Tale è l’«artigiano deforme» e sporco, dallo «sguardo impudico» e dalla «natura stregonesca», che si rivolta contro il signorile e giusto Vincenzo, colpito dalla maledizione dello stesso scalpellino-stregone solo per avere preteso onestà e garbo: l’innocente figlia di Vincenzo annegherà in un pozzo. Sembra la rivincita dello hughiano Triboulet o del verdiano Rigoletto, se si vuole («Ah! La maledizione!»).

Papa Pio IX
Ricostruite le vicende del casato, con Ignazio la storia (ogni storia) finisce dopo un’ultimo picco rappresentato dalla tenacia, dall’integrità, dalla lapidea coerenza del padre Odoardo. Quest’ultimo rifiuta fieramente di continuare a mantenere anche sotto il Re sabaudo l’incarico di governatore che ha detenuto sotto Pio IX (non diversamente da quanto aveva fatto l’ultimo dei Gattopardi, il principe Fabrizio Salina, rifiutando la proposta sabauda a lui pervenuta tramite Chevalley). E se nel romanzo tomasiano la forza e la memoria del casato vengono cancellate definitivamente da Concetta Salina, allorché quest’ultima lancia dalla finestra ciò che rimane della carcassa di un Bendicò da anni imbalsamato e roso dai tarli, qui «la forza della stirpe» si esaurisce per consunzione con Ignazio, figlio di un essere gattopardesco quanto il Fabrizio di Tomasi. Concetta e Ignazio sono entrambi figli degli ultimi rappresentanti di un mondo travolto da Garibaldi, dai Savoia, dall’Italia unita. Ma se la forza d’animo, la determinazione, la tempra felina consentono a Concetta di sbarazzarsi del casato per motivi oggettivi e senza alcun senso di colpa, la stirpe muore in Ignazio a causa dei suoi mali soggettivi ed esistenziali, a curare i quali – non a caso – vengono invocati l’amore coniugale di Antonia e quello dei figli che i due un giorno avranno. I Dalla Francia si ritirano dal nuovo mondo e si chiudono nell’alveo – borghese, ma rassicurante e sereno – di un focolare domestico: Ignazio non è il derobertiano Consalvo.

Finistoriae è un romanzo inattuale per materia, registro linguistico (tanti aulicismi), anacronistici stilemi da letteratura d’altri tempi, ampie concessioni al genere epistolare. Tanto inattuale da risultare originale in quanto celebrazione estetica di una forma che torna finalmente a ricomporsi in un nitore fin troppo oltraggiato dai tanti – spesso gratuiti e inutili - sperimentalismi letterari odierni.

Ivo Flavio Abela

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