Homo sum. Humani nihil a me
alienum puto
Terenzio, Heautontimorumenos, 77
Terenzio, Heautontimorumenos, 77
Alessandro Damiani, calabrese di
nascita, trasferitosi a Fiume nel dopoguerra, ha insegnato
Giornalismo all’Università di Pola e al Liceo di Fiume, ha
lavorato per il Dramma Italiano, ha pubblicato sillogi poetiche,
drammi, romanzi e saggi. È
penna rispettosissima della norma linguistica italiana più di quanto
lo siano i giornalisti e gli scrittori che non hanno mai lasciato
l’Italia. È capace di
creare una prosa fluida, elegante, a tratti
anacronisticamente snob e aulica, sebbene sorga nel lettore esperto
il sospetto che l’autore usi talvolta operativamente tale
linguaggio per fare sottilmente emergere la propria ironia.
Ed ebbero la luna
fu pubblicato nel 1980. Fu poi riedito nel 2009 all’interno della
collana Altre Lettere Italiane (Collana degli autori
italiani dell’Istria e del Quarnero)
da Edit Libri (chi scrive ha avuto il privilegio di riceverne –
graditissimo omaggio – un esemplare dal figlio dell’autore). Non
è certo un libro da leggere in spiaggia sotto l’ombrellone a causa
della quantità di riflessione in esso riversata. Era stato composto
mentre imperava un disorientamento storico-ideologico che covava da
tempo, complice la perversa idea sottesa al cosiddetto compromesso
storico: l’accordo suicida fra il Partito Comunista Italiano e la
Democrazia Cristiana, fortemente voluto dall’eurocomunista Enrico
Berlinguer. «Ma già avevano fatto irruzione nuove forme di lotta
civile, che coniugavano Marx con Cristo, precise nelle motivazioni e
altrettanto convinte della necessità di rottura con esemplificazioni
clamorose e richieste radicali. Lo “scandalo” del Vangelo fattosi
laico» scrive del resto l’autore. Berlinguer era convinto che
rivendicare l’indipendenza ideologica dei comunisti italiani dai
propri compagni russi sarebbe stato sufficiente per un rilancio del
PCI non solo in Italia, ma anche in quell’Europa che aveva guardato
con preoccupazione al franchismo iberico. E così, facendosi attore
di un patto talmente bizzarro, Berlinguer non solo sconfessava i
valori della linea comunista ortodossa, ma riusciva anche a
corrompere i cattolici andreottiani in nome del potere (che
notoriamente «logora chi non ce l’ha»). E i risultati sono ancora
oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani e sono duri a morire, se è
vero che certe più o meno tacite alleanze ideologico-confessionali
continuano ad essere reiterate e s’incarnano in mostruose figure
politiche che diventano ogni giorno «sempre più belle che
intelligenti» o che promettono minchionescamente – l’avverbio è
qui usato in accezione letterariamente manzoniana – di mantenersi
illibate, quasi l’astensione dal sesso fosse un programma politico.
Il
disorientamento storico-ideologico degli anni di piombo sarebbe
esploso più che mai in seguito al rapimento e all’uccisione di
Aldo Moro. La responsabilità sarebbe ricaduta sul Governo italiano,
accusato di non avere tentato tutto il possibile per salvare lo
statista. E se pure Paolo VI rimase sconvolto dalla notizia della
tragica fine di uno dei suoi amici storici (nel corso dei funerali di
Moro, avrebbe rivolto a Dio parole inattese:
«Tu
non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo
Moro»), Leonardo Sciascia, inascoltato da tutti fuorché dai
Radicali, certo delle colpe del governo italiano, cercò giustizia
nella Letteratura (sempre pietosa e pronta a risarcire), componendo
L’affaire Moro,
dal momento che la Storia e la politica gli si erano rivelate
ingiuste e sanguinarie quanto mai in quel drammatico frangente.
Il
primo dei cinque racconti – I dannati dell'utopia – che costituiscono (insieme ad un Epilogo) Ed ebbero la luna è fortemente legato alla delusione conseguente al fallimento
dell’utopia incarnata nella lotta. Proprio nei giorni in cui la
notizia del sequestro di Aldo Moro rotola da un notiziario all’altro,
Roberto, figlio di un magistrato tutto d’un
pezzo, si reca a Roma: Maurizio, un terrorista, gli ha consigliato di
andarvi per parlare con Luca, un pezzo grosso (probabilmente) del
terrorismo. Ma Luca non si trova (né se lo si chiama per telefono,
né se lo si va a cercare a casa). Roberto rinuncia dunque a
diventare un terrorista e torna a Milano, anche a causa del
peggioramento delle condizioni di salute della madre. Mentre il padre
è assente, gli capita di ritrovarsi a parlare con l’amico Ugo che
è un giovane magistrato. Ugo è convinto del fatto che lo Stato
s’identifichi con il complesso di leggi che lo regola. Presto Ugo
rimane vittima di un attentato terroristico. Viene arrestata
Gabriella, sorella di Roberto, con grande sgomento del padre e dello
stesso Roberto che decide di indagare e di sapere se la sorella sia
realmente coinvolta nell’uccisione di Ugo o se il suo arresto sia
stato pilotato soltanto per tentare di increspare l’immagine di
integrità del padre magistrato. Perciò va a trovarla in carcere.
Durante il colloquio con lei, Roberto comprende che la sorella non è
stata arrestata senza motivo e ottiene elementi che lo portano a
temere di potere egli stesso essere arrestato. Non gli rimane che la
fuga. Inizia una vera e propria odissea che si sviluppa attraverso i
racconti successivi: l’odissea che il “dannato” Roberto deve
vivere per trovare un’identità, una volta riconvertitosi in
etnologo (il lettore esperto comprende che egli rimane protagonista
dei racconti seguenti, sebbene non più indicato col nome di
Roberto).
Il giovane vive dunque avventure ai
limiti del verosimile in una geografia inizialmente orientale che fa
pensare alle quinte sceniche, alle atmosfere militarmente un po’
hemingwayane, ai colori, ai profumi, ai luoghi oleograficamente
dipinti in certi “titoli” della metà del secolo scorso: a un
classico della Letteratura sentimentale e un po’ patinata come
Sayonara o l’amore impossibile di James Michener, a un
prodotto cinematografico un po’ strappalacrime come L’amore è
una cosa meravigliosa,
diretto da Henry King nel 1955, ancora – se si vuole risalire di
qualche anno – a un altro film “epocale” come Anna e il re
del Siam, diretto da John Cromwell nel 1946, solo per fare
qualche esempio. E già, calcando idealmente simili esotici
palcoscenici, si ha la sensazione che Damiani voglia dilatare le
coordinate spazio-temporali, facendo regredire il lettore di un
abbondante trentennio rispetto all’epoca dell’assassinio di Moro:
l’atmosfera delle pagine immediatamente seguenti il primo racconto
sembra più da Secondo Conflitto internazionale che da anni di piombo
espressamente nazionali. In realtà Damiani, man mano che procede
nella narrazione, tende sempre più a sfaldare in particolare la dimensione
cronologica per mettere maggiormente a fuoco ciò che potrà salvare
Roberto: il recupero della propria natura di essere umano.
L’odissea del protagonista – non a
caso – si sposta poi nell’alveo di una geografia più occidentale
dalla quale la stragrande maggioranza del genere umano sembra essere
scomparsa a causa di eventi dai risvolti apocalittici. Subentrano
allora desolati paesaggi (presuntamente istriani) da The day after
che si alternano a bucolici quadri di vita rurale (sorta di idilli
dal sapore alessandrino). Si profila così l’incitamento – da
parte dell’autore – a recuperare uno stato ontologico in cui
l’uomo possa bastare a se stesso, a ricreare un mondo in cui il
senso dell’esistenza si incarni anche in una ritualità di azioni
(come quella quotidiana e stagionale di chi dalla terra trae tutto il
proprio sostentamento materiale). La terra assume il ruolo di un
enorme grembo materno cui fare ritorno non certo per regredire infantilmente a una condizione prenatale, ma
per ritrovare se stessi (difficilmente i vincoli morfo-etimologici
che legano fra loro tre parole latine – humanitas,
homo e humus
– potrebbero risultare più chiari, se si tiene presente ciò che
scrive Damiani). Perché un grande errore ha compiuto l’uomo: ha
voluto la luna. Una volta ottenutala, ne è rimasto deluso: «A stroncare l’uomo non
è stata la difficoltà di attuare i suoi sogni, ma la scoperta di
averli raggiunti. Quasi non sapesse
che farne».
Negli
stessi anni in cui Damiani scriveva Ed ebbero la luna,
il filosofo francese Jean-François
Lyotard rifletteva sul venir meno delle grandi narrazioni metafisiche
(una delle quali – guarda caso – era proprio il marxismo) e sulla
necessità di ideare criteri che permettessero all’uomo di
interpretare ed elaborare una realtà ormai ridotta in frammenti.
Lyotard analizzava tale realtà alla luce di una categoria che
sarebbe diventata un inflazionato tormentone (lo è ancora oggi): la
postmodernità (relativamente alla quale chi scrive il presente testo ha sempre
mantenuto un atteggiamento distaccato, come si può evincere da un post già
pubblicato su questo stesso blog: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2011/02/linflazione-del-postmoderno.html. Ed è un piacere notare come anche
Edward Docx voglia fare piazza pulita del postmoderno: http://temi.repubblica.it/micromega-online/addio-postmoderno-benvenuti-nellera-dellautenticita/). Damiani
sembra contrapporsi a Lyotard quantomeno perché ipotizza un metodo
attraverso cui ritrovare se stessi. Il protagonista approda presso la
casa di un vecchio. Il vecchio – sorta di nuovo Alcinoo che ha
imparato a lavorare la terra e a occuparsi del bestiame, rendendosi
autosufficiente; inizialmente sfingico, enigmatico, freddo anche
nell’offrire le proprie pazienti e generose cure all’etnologo
Roberto, da lui ritrovato privo di sensi e ferito in seguito ad un
incidente aereo – è in verità un venerando saggio. Presso la sua
“corte” rurale il novello Odisseo narra il proprio vissuto liberandosene
gradualmente. E il vecchio ricambia narrando il proprio. In un simile
scambio di umanità veicolate dalle parole si esprimono il senso vero (e in fondo ottimistico) di questo libro e la risposta di Damiani a Lyotard: un nuovo umanesimo potrà salvare l’uomo. A condizione però che l'uomo stesso voglia realizzarlo. Sarà possibile?
Ivo
Flavio Abela
Raffaello, «La Scuola di Atene», 1509-1510 Stanza della Segnatura, Città del Vaticano |
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