martedì 1 novembre 2022

Quello snob di terzo tipo di Gaetano Cappelli...

Nel suo Lo snob nella società dello snobismo di massa (Oligo Editore, 2022), Gaetano Cappelli ci racconta di avere chiesto, mediante un post pubblicato sulla sua bacheca Facebook, chi fosse lo snob. Con una certa sorpresa, vista la quantità di risposte ricevute, ha dovuto concludere che essere snob non è affatto percepito come negativo. Tutt’altro. Perché lo snob è colui che, pur immerso nella massa (oggi) dei social, la rifugge, affrancandosi da cliché, da stereotipi, da “pensieri unici” (a ben vedere non ne esiste uno solo), da regole quali quelle imposte dal politically correct (efficacemente definito «la sharia dell’Occidente»). Ne vengono fuori gli snob di primo, secondo e terzo tipo (magnifico questo terzo tipo). Tale classificazione è il punto di approdo di una storia che Cappelli ricostruisce, facendola iniziare con William Makepeace Thackeray che, alla metà del XIX secolo, per primo usò il termine “snob”, poi enantiosemicamente giunto all’accezione che gli viene attualmente conferita.

Oggi, peraltro, l’universo dei social ha fatto sì che nascesse una vera e propria generazione snob (se Levy insisteva profeticamente sull’intelligenza collettiva, Cappelli può a buona ragione parlarci di snobismo collettivo). Va da sé che la natura dello snobismo di massa non può essere omogenea (i cretini veri continuano ad esserci tanto nel modello di Levy, quanto in quello di Cappelli) e certe azioni risultano più risibili che snob (alcuni nomi illustri cadono sotto gli attacchi della sua penna, come quello di colui che finisce per preferire uno sciroppone, il Lambrusco, allo champagne), ma il denominatore sembra comune. E così si arriva al ritratto di uno snob che si compiace del pop (Warhol ne è fisiologicamente esempio sublime), ma detesta proprio quella massa di cui, suo malgrado, è parte. E detesta pure le parole inflazionate che a quella massa rimandano: mainstream, per fare un esempio, senza per ciò giungere a diventare undergroud (pare a chi scrive di potere inferire), forse perché pure l
underground è ormai di massa tanto quanto. Non parliamo poi delle campionesse di quel femminismo che, volendo apparire impegnate quanto le femministe storiche, si profondono in affermazioni che sembrano barzellette e si danno a presunte battaglie di un donchisciottismo maestosamente idiota (e chi scrive si sta limitando a stringere, perché teme di non riuscire a rendere giustizia al libro di Cappelli, se non rimandando alla sua lettura diretta).

Cappelli ha scritto un piccolo libro leggero, arguto, accattivante, sublimemente sferzante. Eppure alla base ci sono una nutrita e impegnata bibliografia e un approccio da sociologo della comunicazione (ovviamente) di massa. Anche se rimane il larvato sospetto che questo caleidoscopico sferzatore e arbiter elegantiarum abbia preso un po’ tutti per i fondelli, compreso se stesso (lo dice alla fine). Ma soprattutto noi.


Ivo Flavio Abela



 

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