domenica 2 aprile 2017

Il «magnifico» Arnaldo Colasanti

Lo scrittore Piero Aprile sta per partire: andrà finalmente negli States insieme alla crema della narrativa contemporanea. E potrà viaggiare in Magnifica, la business class di Alitalia, dove tutto risulta lussuoso, accessoriato all'esagerazione, splendido. Ma l'attesa per il check-in si trasforma in una complessa parentesi di analisi e autoanalisi, preludente a quella che, nelle recensioni che iniziano a circolare, viene paragonata a una discesa agli Inferi dell'editoria e del mercato librario contemporanei. Direi che, più di una discesa agli Inferi, Piero compie invece una complessa operazione di chirurgia necroscopica: una maniacale autopsia sul cadavere (una sorta di morto vivente) della letteratura di oggi, che corrisponde però ad un profondersi verso i meandri più reconditi della propria coscienza (azione rischiosissima e stressante. Il lettore si renderà conto, alla fine del libro, di quanto essa sarà risultata infelice e insostenibile per Piero).

«La magnifica» (Fazi Editore, 2017) è l'opera di uno scrittore con cui si vola alto. Egli è tale per la maestria con la quale maneggia una lingua che spazia dai registri più elevati a quelli dotati della freddezza tutta tecnica della perizia giurata, fino a quello disfemico (senza mai sprofondare in una volgarità gratuita). Si aggiunga la gioia narrativa con cui Arnaldo oscilla tra l'uso della prima e della terza persona, fino a scomodare un narratore onnisciente che talora giunge a spezzare la linea del racconto per apostrofare pure il lettore, il quale si sente quasi inerme dinanzi a tale esuberanza narrativa. Per non dire della vena creativa particolarmente prolifica che si concretizza in trame intrecciantisi in una sorta di confusione calviniana e pure umoristica (nel senso pirandelliano).

Colasanti si chiede (ma pure noi ce lo chiediamo insieme a lui) che cosa siano oggi la scrittura e la letteratura. E se sia ancora possibile dedicarsi ad esse onestamente, cioè se uno scrittore possa davvero essere autentico e dunque narrare la vita interiore secondo la verità. Perché i condizionamenti imposti in particolare dall'editore, il cui unico interesse è quello di fare soldi, hanno trasformato lo scrittore in nulla più di un mestierante che scrive soltanto storie sulla base dei gusti di un pubblico che vuole distrarsi, che non desidera riflettere attraverso la lettura, ma semplicemente essere intrattenuto nel più commerciale dei modi. Ecco dunque le staffilate che, tra le righe, Arnaldo infligge alle scuole di scrittura creativa (la Holden non viene certo risparmiata), all'appiattimento culturale e intellettuale di un pubblico che non si fa fatica a identificare con quello di Maria De Filippi o di certe fiction televisive, e che talvolta si materializza, nel corso del libro, in straordinari ritratti nell'ambito dei quali i dettagli fisici, estetici, i tentativi di apparire talora grotteschi compiuti dalla persona ritratta, i dettagli relativi ai capi di abbigliamenti e al modo in cui essi vestono soprattutto i corpi femminili, restituiscono le immagini di un'umanità stupida, banale, piatta, rispetto alla quale Mario (o Arnaldo?) si pone su un piano di superiorità tale da dargli la forza di rinunciare a quel mondo, a quel viaggio, a quella compagnia fatta di maschere (l'Esordiente, il Narratore arrivato, la Puerpera, il giovane accademico, ecc.), per vivere senza più condizionamenti ed in modo più vero. Allora pure operazioni come la ricerca di una toilette e lo svuotamento della propria vescica diventano una lotta finalizzata a liberarsi di tutte le menzogne che l'uomo, suo malgrado, si porta dietro come una zavorra. Il guaio è che l'unica forma di autenticità sembra garantita solo in una dimensione che non può affatto essere quella della vita quotidiana (se ne renderà conto il lettore, come già accennato, solo alla fine del libro. E con grande sua sorpresa).

Colasanti è stato bravissimo nel confezionare un libro che è come un vortice dal quale si viene attratti fino ad esserne riassorbiti. E da questo libro traspare la sua grande umanità, cioè la straordinaria qualità della sua natura. Perché «La magnifica» è comunque un libro in cui v'è sofferenza (anche nelle parti più umoristiche). Ho avuto la netta impressione che quel Piero Aprile non sia altro che Arnaldo. Credo che soltanto chi abbia vissuto sulla propria pelle la sofferenza dello scrittore isolato in un panorama letterario ipocrita e ostile, che è del resto quella dell'uomo condannato a stare ai margini della società in una dimensione vitale altrettanto a lui nemica, possa riuscire a scrivere in tal modo. E a toccarci così profondamente.

Ivo Flavio Abela

Il testo è dedicato a chi per primo mi ha fatto conoscere «La magnifica», cioè ad Andrea Caterini.

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