lunedì 15 maggio 2017

«Nomi di donna» di Gianluca Pirozzi. Quando delle donne parla un uomo

«Quando passa davanti ad un campo di girasoli e nella sua testa risente la voce di Aristea e, soprattutto, rivede le lentiggini su tutto il suo corpo», Ottavio riconosce di non essere ancora padrone delle proprie emozioni, nonostante il fatto che siano passati otto anni da quando proprio Aristea, la giovane e discretamente colta prostituta di cui s'era praticamente innamorato, è morta durante l'incendio appiccato chissà da chi alla roulotte nella quale viveva (il corsivo nella citazione è mio). La storia di Aristea è solo una delle tredici narrazioni di cui si compone «Nomi di donna» di Gianluca Pirozzi (L'Erudita, 2016): un bel libro, scritto con nitore non solo di forma, ma pure di senso. Ed anche con una certa, per nulla spiacevole, cerebralità. Il lettore viene infatti calvinianamente invitato ad immergersi nel gioco enigmistico della ricerca delle connessioni fra i racconti idealmente distribuiti lungo le quattro fasi di cui suole comporsi la giornata (ed in particolare a partire da «Fabiana» e dal già citato «Aristea»).

Fabiana decide di diventare Andrea dopo avere compiuto un viaggio a Parigi ed avere alloggiato presso l'Hotel Passy Eiffel, lo stesso in cui ha lavorato Nadia, protagonista del terzo e omonimo racconto. Il già menzionato Ottavio narra quanto accaduto otto anni prima mentre ha già una relazione con Diana, la protagonista dell'omonima narrazione, che ha «quella sua fissa per gli animali». Galatea (appartenente alla quinta generazione di una famiglia di artisti circensi) è la sorella della già menzionata Nadia, scomparsa all'età di quindici anni durante un incendio che ha divorato parte del circo di famiglia e in particolare la roulotte di Amélie e dello zio Marco, in cui Nadia si trovava per esercitare il suo francese conversando con la coppia; Nadia non è dunque morta durante l'incendio scoppiato quella notte, come tutta la famiglia ha sempre creduto, ma ha solo approfittato dell'occasione per fuggire da una vita che non amava e trasferirsi a Parigi, per poi diventare un'inserviente del citato Hotel Passy Eiffel: impiegata talmente perfetta da suscitare l'invidia delle colleghe. Ma l'incendio che ha distrutto parte delle strutture del circo e la roulotte di Amélie e Marco è uno dei due incendi menzionati nel primo racconto, «Monica», e che è avvenuto venticinque anni prima della disavventura accaduta di notte alla protagonista. In entrambi i casi una tigre è fuggita dal circo: venticinque anni prima a causa appunto dell'incendio, adesso - e in una cornice magicamente realistica che evoca in scena il compagno defunto della stessa Monica - a causa di un violento temporale.

E v'è poi un altro personaggio che sembra assumere la funzione di un vero e proprio fil rouge a causa della ricorsività con cui si presenta: Giovanna, che appare in «Louise» ed è un'insegnante di Filosofia con cui ama intrattenersi Stella, cioè la protagonista del secondo racconto. Per Giovanna svolge alcuni servizi Bianca (l'ossimorica protagonista dell'omonima narrazione relativa ad una donna giunta dall'Africa nera insieme alla madre-sorella e che ha fatto pure da balia a Stella), la quale diviene protagonista dell'ultima storia: una sorta di summa di tutta la raccolta. Non è un caso che vi vengano menzionati nomi che hanno popolato - a titolo vario - le narrazioni pregresse, fra cui quelli di Louise e Sonia, entrambe protagoniste di un racconto il cui titolo ho già menzionato e del quale riporto una citazione che mi fa pensare al kintsugi, cioè all'arte di riparare con l'oro le crepe degli oggetti rotti, a significare che ciò che ha subìto un danno è più prezioso: «Infine, su tutto Louise stenderà un colore, ma questa volta, forse, sarà diverso. Non sarà il suo unico e imparziale nero - il colore, per lei, più aristocratico che ci sia; né il bianco assoluto e puro che riesce ad ammantare di mistero ogni forma, proprio come la neve quando ricopre la città nei mesi d'inverno, quella neve che Louise si porta sempre nel cuore. Per questi pezzi, infatti, Louise vorrebbe osare lo splendore alchemico dell'oro, quello sacro delle divinità che l'hanno incantata nei templi e nelle edicole votive dell'India».

Una vena di raffinata e leggiadra tenerezza può essere individuata nel racconto intitolato «Clara», la ceramista che ha la singolare abitudine di dormire portandosi sotto le lenzuola alcuni oggetti ai quali è affezionata. E alla fine del libro, leggendo i ringraziamenti, comprendiamo anche il motivo di tale tenerezza: la donna non è altro che Clara Garesio, la madre di Gianluca Pirozzi, autrice anche dei gradevoli, onirici, stilizzati disegni che sono disseminati lungo il libro, precedendo ciascuno ogni specifico racconto. Non è un caso, forse, che questa narrazione non sia intranodata con le altre (almeno così pare): quasi come se a Clara si volesse riservare uno spazio ed una collocazione speciali.

A Gianluca va dato poi il merito di avere parlato in modo non stereotipato, e senza quella retorica stucchevole e vetero-femminista con cui viene (è ovvio) condannato mediaticamente, anche di quello che, con termine odioso, terribilmente ideologizzato, ipocritamente e sinistramente moralista, viene chiamato «femminicidio». Quando si intraprende la lettura di «Agata», ci s'imbatte in una donna che le ristrettezze hanno reso insopportabile, incontentabile, frustrata, capricciosa al punto da non riuscire a vedere anche quel po' di positivo che il marito prova a realizzare. Non è politically correct dirlo (del resto chi scrive il presente testo detesta il politically correct), ma quasi si è portati a comprendere pienamente il gesto estremo che ai danni di Agata viene compiuto da un marito portato all'esasperazione. È un "merito" ulteriore che l'autore di questa recensione riconosce al coraggioso Pirozzi. Ma v'è di più: Gianluca, quasi a riequilibrare la materia trattata, narra pure che la già citata Diana, adesso convivente con Ottavio, il cliente-amante di Aristea, segue un percorso psicoterapeutico, ma ammazza il dottor Vinti poiché ella scopre per caso, nella propria mente vagamente malata, che egli le ricorda un grande corvo nero. Sembra quasi che Gianluca, che considera la donna una creatura a volte addirittura straordinaria, voglia tuttavia ridimensionare il peso di quel male che, nell'odierna società dei media, viene attribuito sempre e soltanto all'uomo.

È bello vedere come un uomo sia riuscito a parlare delle sfumature dell'animo femminile conducendo un'analisi essenziale, priva di orpelli potenzialmente esornativi, a volte anche fredda, ma sempre efficace e linguisticamente elegante. «Nomi di donna» va letto.

Ivo Flavio Abela

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