sabato 2 dicembre 2017

"Leggenda privata" di Michele Mari. Che cosa diventa l'autobiografia scritta da un maestro

Sembra una confessione filtrata da un'ironia che diventa sarcasmo, anche con l'ausilio di un codice linguistico fortemente disomogeneo che vaga dal prezioso aulicismo al metaplasmo, alla mimesi più ardita di tratti parlati quasi gergali. Tutto risulta gestito da una penna raffinata e in fondo compiaciuta di se stessa, talvolta egotica, ma alla quale si finisce per guardare con compassione (nell'accezione etimologica della parola) quasi affettuosa. Probabilmente perché ci si rende conto del fatto che Mari, finora "miccia inesplosa" come egli ha definito se stesso in una intervista rilasciata a Repubblica, ha finalmente deciso di fare i conti con quel coacervo di tensioni e manie effetti collaterali delle pressioni cui è stato variamente sottoposto dai genitori fin dall'infanzia.

Fa da cornice bizzarramente gotica l'ordine ricevuto dall'Accademia dei Ciechi di scrivere una sorta di autobiografia che è appunto l'oggetto del libro. E così emergono due personaggi giganteschi: un padre ingombrante, in fondo amatissimo, duro, spietato ai limiti della crudeltà, preoccupato unicamente del fatto che il figlio non diventi una femminella, deciso a ignorare scientemente i disagi che quest'ultimo manifesta con una tardiva enuresi notturna (è una pagina memorabile quella in cui il piccolo Michele, che finora è riuscito a occultare le lenzuola inzuppute nascondendole sotto al letto o portandole subito in lavanderia, bagna non solo il materasso ma pure il pigiama del padre, durante una notte in cui è costretto a dividere con lui un letto matrimoniale); una madre talentuosa, ma frustrata (pur senza manifestarlo) dal non essere riuscita a emergere, dominata quasi dalla gigantesca presenza di un marito che ha segnato la scena artistica a lui contemporanea, una donna che ha così sviluppato un sarcasmo diventato presto corazza, abito comportamentale, freddezza anche come madre. Non è un caso il fatto che i due si separeranno presto.

Tra i due Michele, bambino prima e adolescente poi, sembra mortificato nella sua virilità: la citata enuresi prima, la fimosi poi, la passione quindi per una ragazza volgarotta (quasi che solo a una donna di tal genere potesse aspirare uno come lui, costantemente umiliato da un padre troppo maschio e da una madre pure anaffettiva).

Da questo strano quadro familiare emerge la figura del nonno paterno, di umile estrazione socio-culturale, ma maestro di vita che esercita tale ruolo solo attraverso gesti e lapidarie espressioni verbali olezzanti di certa impietosa saggezza umana e popolare: un personaggio ben diverso da quelli che popolano la bigotta, borghese in senso deteriore, famiglia materna d'origine.

A molti il Mari di "Leggenda privata" (Einaudi, 2017) potrebbe apparire campione di un vittimismo teso a suscitare pietà e a farsi perdonare anche quella strana cornice e quella lingua che rasenta, nel suo profilarsi come pastiche, l'affettazione e un barocco snervato. Ma, a ben vedere, Mari non fa psicologismo da strapazzo. Semmai mette in atto un liberatorio gioco di confessione che, almeno a chi scrive il presente testo, appare meritevole di rispetto, considerazione, quasi di affetto. È un bel libro questo. Ed è prova di quanto l'autobiografia possa diventare preziosa se vergata dalla penna di un maestro.

Ivo Flavio Abela


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