sabato 14 luglio 2018

Verità e letteratura in «Vita di un romanzo» di Andrea Caterini

Uno scrittore decide d'essere stanco: stanco di leggere narrazioni i cui schemi appaiono inflazionati, stanco di storie che potrebbero funzionare ma sono improbabili e finte, stanco  senza riuscire a trovarla  di cercare la verità. Arriva il momento in cui si rende conto del fatto che essa sta altrove: la si può trovare nella vita di ciascuno di noi, in quel vero che viviamo con chi popola il nostro stesso mondo, interagendo con gli elementi, i fatti, le situazioni che caratterizzano la quotidianità. Ma la verità risiede anche in ciò che accade in noi stessi, portandoci a prendere le armi per combattere un duello con(tro) noi stessi, il cui scopo è tranciare la barriera che si frappone fra noi e quanto di più profondo esiste nella nostra (in)coscienza. Allora perché scrivere l'ennesimo romanzo? Perché, invece, non provare a imprimere la forma "romanzo" nel flusso della propria esistenza, rendendo tale forma una matrice che ci consenta di interpretare tutto ciò che dell'esistenza stessa fa parte, cioè la vita e la letteratura? È ciò che Andrea Caterini prova a realizzare proprio con «Vita di un romanzo» (Castelvecchi, 2018). Se aveva già dato prova di buone doti di scrittore e critico con «Patna», «Giordano», «La preghiera della letteratura», adesso il risultato è migliore. Andrea ha trovato la cifra distintiva, originale, personale, simile solo a se stessa, che rende unico questo libro, facendolo spiccare rispetto alla media di quei libri che provano a fondere vita e letteratura e che appaiono compilati da qualcuno che sa solo scrivere scolasticamente dell'una e dell'altra.

Ecco che sotto i nostri occhi si dipana una trama fitta, tessuta con una sicurezza: ogni sintagma, ogni parola, ogni elemento verbale e noetico appare ben delineato. E tutto ciò viene compiuto con quella competenza che tradisce tanto lo scrittore formatosi sui grandi della narrazione (Proust in testa), quanto il critico acuto. Ricordi di letture si mescolano con avvenimenti della propria vita, quasi a dare conferma del fatto che la letteratura spiega la vita poiché quest'ultima è in fondo quello stesso flusso da cui sono stati attraversati coloro che hanno fatto la grande letteratura. Si giunge poi a dettagli struggenti, come l'episodio relativo alla necessaria soppressione della mascotte felina di casa.

Ma un appunto va fatto ad Andrea in questa recensione scritta estemporaneamente. I dettagli relativi alle frequenti masturbazioni praticate dallo scrittore quando svolgeva il servizio militare (periodo in cui, del resto, avvenne la vera e propria scoperta della letteratura da parte sua), del resto agìte non nei momenti in cui egli si trovava solo in una caserma deserta, ma quando erano presenti i commilitoni che avrebbero pure potuto coglierlo sul fatto, risultano eccessivi. È come se lo scrittore avesse voluto dare prova di quanto forti fossero la voglia di trasgressione e il gusto per il rischio in un contesto anche spersonalizzante, quale quello del servizio militare. Ma a me  lettore – rimane l'impressione che egli abbia voluto solo dare sfogo a una certa voglia di esibizionismo che ritengo disturbante: del resto a me - lettore - nulla interessa del seme disperso dall'autore. Anzi direi che il dettaglio mi fa pure schifo. E allora mi chiedo quanto sia lecito o fruttuoso  sottolineo che la mia riflessione non ha affatto nulla da spartire con il moralismo  neutralizzare la barriera tra la nostra intimità e ciò che di noi è pubblico. In altri termini, da che cosa nasce l'esigenza di rivelare dettagli intimi? Perché farlo? Non sarebbe anche bene che ogni tanto ci si ponesse un limite almeno per rispetto a se stessi? Pure questa è forse una conseguenza del vivere in un mondo nel quale tutto viene messo in piazza? Il dubbio mi resta.

Ivo Flavio Abela

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